“Catania segue il progresso”, ma a quale prezzo?
“U trenu a stamatina
Passau supra l’archi d’a marina;
fu chistu ‘n gran successu,
Catania camina ccu progressu”
Questo breve inno al progresso, cantato per l’inaugurazione della linea ferroviaria, 1° luglio 1869, mi ha subito colpito, non per la sua bellezza, ma per la nota di speranza.
Il viadotto ferroviario assurge a cicatrice e barriera fra la città e il mare, una cicatrice che rievoca alla memoria lo storico legame tra centro urbano e l’originaria rada naturale che fu la porta di antiche civiltà.
Camminare lungo il viadotto equivale a camminare sul filo di un rasoio, da una parte il porto e dall’altra un quartiere la “Civita”, in mezzo il traffico automobilistico.
Spinti forse dall’orrenda visione di un porto che non c’è, si è attratti istintivamente verso il quartiere ed è qui che si percepisce il dolore inferto dalla ferita. Gli antichi palazzi sono ormai deturpati e violentati, concrezioni di condizionatori si accavallavano a fili di panni stesi, le piccole case dei pescatori spariscono sotto l’influsso di quell’anarchico senso del brutto.
Ma cosa è rimasto dell’operoso borgo marinaro? Qualche pescatore che ancora intreccia le reti della memoria, come ombra di un lontano ricordo.
Resta dentro l’amara consapevolezza che il prezzo pagato in nome del progresso sia stato troppo alto, l’ombra del mare è lì ma non puoi vederne l’azzurro, la città ha eroso il mare!
Ma ci chiediamo del perché di questo.
Ci chiediamo quali responsabilità le vecchie e nuove amministrazioni che hanno governato la città hanno fatto si che questa erodesse il mare, e non solo, anche oggi c’è un dibattito “politico speculativo” nel far diventare il porto una ammasso di cemento armato che distruggerà la nostra cultura e la brezza di mare che ci ha sempre caratterizzato.
“La metropoli ha questa attrattiva in più, che attraverso ciò che è diventata si può ripensare con nostalgia a quella che era” Italo Calvino, Le città invisibili
Daniela Calcaterra
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