sabato, Aprile 20, 2024
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Cile – Il Mandela dei Mapuche

La storia di Celestino Cordova

«Posso farle una domanda?»

Il machi distende il braccio in avanti: «Adelante».

«Cos’è per lei la violenza?»

«È il divieto alla spiritualità, il carcere, la tortura»

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La luce del giorno entra nella stanza d’ospedale da una piccola finestra messa in alto, dopo l’ultimo letto. «Ma cominciamo d’accapo – dice lui – Per esempio c’è la violenza carnale»

Chi parla è il machi Celestino Cordova Tránsito, un giovane uomo di trentunanni alto circa un metro e ottanta, robusto, con mani grandi e capelli lunghi e scuri raccolti in una coda. È una delle guide spirituali del popolo Mapuche, famoso perché è rinchiuso da cinque anni nel carcere di Temuco. Il 23 aprile ha interrotto uno sciopero della fame durato centouno giorni: la sua richiesta sono quarantotto ore di libertà, il tempo giusto per ripetere il suo rito nel luogo sacro chiamato rewe.

«Quando in Cile arrivarono gli spagnoli – continua – presero i nostri longko, i nostri capi, e li bruciarono vivi, assieme a bambini, anziani e donne. La violenza carnale è l’omicidio, di cui sono peraltro accusato e condannato come colpevole. La mia pena sono diciotto anni di carcere, cinque già scontati. Secondo un documento della Fiscalia [il ministero pubblico cileno, ndr] sono innocente. È la relazione balistica: mi trovavo vicino la casa degli sposi Luchsinger e Mackay, camminavo per la strada, e secondo i calcoli, scientificamente, non posso averli uccisi. Bene, avendo questo documento con i miei peñi [fratelli in mapudungun,ndr] e gli avvocati abbiamo scelto la via più breve. Tutti abbiamo riposto fiducia nell’apparato giuridico di questo stato. Incredibile è stata la sorpresa quando il giudice ha proclamato la mia colpevolezza. E questo per calmare la situazione, trovare un colpevole per la parte lesa, e dire: “Ecco, i Mapuche sono coinvolti, sono violenti!”. Una volta dentro mi hanno offerto milioni di pesos e la libertà se avessi fatto i nomi di possibili sospetti. Quel 3 gennaio 2013 era notte, ero distante e al buio non ho visto nessuno. Non posso mentire, so che vuol dire il carcere e non posso condannare un altro a questo dolore, che sia egli mapuche o no. Perciò non collaboro con la polizia. Quindi per me fu carcere, un’altra violenza». Celestino Cordova si prende una pausa, sta seduto sulla sedia pensieroso dando le spalle alla porta e ai cinque poliziotti. Poi guarda in alto verso la finestra in fondo: fuori c’è il paesino di Nueva Imperial, è stato portato qui quando stava per morire. Il machi si concentra di nuovo, muove la mano come per spiegare e dice: «Il carcere. Un altro essere umano ti costringe a vivere in una struttura innaturale, facendo una vita antisociale. Il sistema penitenziario non educa, crea dolore non solo per chi sta dentro, ma per tutta la famiglia, costringendo i genitori a stare lontano dai figli. In cella ho conosciuto tantissime persone, le loro storie. L’educazione, la formazione si fa in famiglia. Quando si taglia questo legame si produce morte. Il carcere è un genocidio, uccide chi ci sta e i suoi cari».

Si interrompe un attimo e prende un sorso di mate da una piccola tazza. «È violenza impedire che una persona non esprima la sua spiritualità. Fra le sbarre le altre religioni, che dobbiamo rispettare, sono rispettate. Le religioni cristiane hanno spazio, ci sono i preti e i pastori la domenica. Come possono impedire ad un uomo questo? Perché non posso accedere al rewe? Hanno forse paura che ci riuniamo? Io ho bisogno di rinnovare il mio spirito, è un’energia che si genera al contatto con la naturalezza e che si trasmette al popolo. Ora sono cinque anni che non mi connetto al rewe».

Un’altra pausa, altro mate con zucchero.

«Non so se lei è d’accordo, ma lo sciopero della fame è una violenza contro se stessi».

«Da quando sono dentro – risponde lui – ho letto un monton di libri. Ho studiato il codice civile e penale e non mi spiegavo perché nessuno potesse far qualcosa per quell’articolo 150. Credevo di avere un problema psicologico o di vivere in un altra realtà perché la maggior parte degli ufficiali e sottoufficiali della gendarmeria non rispetta il divieto della tortura. Ti rompono le ossa delle braccia, gli stinchi. Personalmente sono stato minacciato di morte. A molti altri là dentro è capitato di peggio. Il tribunale che dice? “La gendarmeria sa quello che fa”. Le organizzazioni umanitarie? “Vediamo quello che possiamo fare”. Come ti ho detto sono cinque anni che sono lontano dal mio luogo sacro, e sì, lahuelga di hambre è una violenza contro me stesso. Qui in carcere è l’unica cosa che posso fare. Ma non ho paura della morte, me offrezco a la muerte. E fuori c’è gente che protesta con me».

***

Il 20 aprile Amnesty International ha espresso solidarietà per la richiesta di Celestino Cordova. Il dialogo con il machi risale al 2 maggio. Il 5 maggio il tribunale di Temuco ha dichiarato “terrorista” l’omicidio dei coniugi Luchsinger-Mackay, condannando altri tre mapuche e liberandone otto.

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