sabato, Aprile 20, 2024
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Non tutte le antimafie portano in paradiso

Cosa vuol dire fare an­timafia senza esserne dei “professionisti”?

Anni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto, Marco Travaglio ebbe a dire: “Magari ce ne fossero tanti professionisti dell’antima­fia!” Ma si rivolgeva a chi dell’antimafia ha fatto una professione di vita, una scelta ideologica e non un mestiere. Le categorie dell’antimafia nate in questi ultimi anni sono tantissi­me: proviamo a individuarne qualcuna:

– L’antimafia di mestiere. C’è chi con la sigla dell’antimafia ci lavora, dà lavoro e vuole anche esprimere il principio che un’imprenditoria libera dalle catene della mafia è possibile. E’ il caso di prendersela con questi? Il riferimentoriguarda le due maggiori associazioni antimafia, Addio Pizzo e Libera. Nel sito di Addio Pizzo troviamo vera e propria agenzia di viaggi per realizzare una forma di turismo civile o impegnato, con visite guidate nei “luo­ghi” dell’antimafia, pullman, soste per i pasti e per gli acquisti, alberghi. Una parte minima della quota è offerta, come contri­buto, ai titolari delle strutture visitate (per esempio il museo della Legalità di Cor­leone o la Casa Memoria di Cinisi).

Turi­sti a parte, esiste anche un progetto di Ad­dio Pizzo sulle visite guidate delle scola­resche a Palermo: i prezzi variano da sette a dieci euro a testa, a seconda del numero e dell’itinerario. Per esempio, cento alun­ni che pagano sette euro a testa (pullman esclusi), frutteranno 700 euro che, solo per pagare le prestazioni di una guida, sembrano troppi. Su Libera si possono fare infinite altre illa­zioni, giustificabili nel momento che or­mai si tratta di una struttura che coinvolge circa duemila associazioni che non è faci­le tenere sotto controllo.

Il bilancio 2010 (sul sito) a pareggio è di 3.047.710: la maggior parte delle entrate è alla voce “Istituzioni”, riferendosi certa­mente a progetti finanziati di educazione alla lega­lità nelle scuole. Il costo dei pro­dotti bio­logici (che sembrerebbe a prima vista incompatibile col mercato) media­mente risulta molto alto per­ché compren­de il sostegno alle coop che agiscono in territorio difficile per portare avanti il pro­getto rivoluzionario di un’economia che può fare a meno della protezione mafiosa.

Una sottovoce a questo tipo di antima­fia è quella che Telejato ha chiamato “l’anti­mafia in pizzeria”, suscitando le ire di Giovanni Impastato che ogni anno or­ganizza, in uno spazio continuo alla sua piz­zeria, alcune iniziative fatte di relazio­ni su temi specifici. Come poi ha precisa­to lo stesso Pino Maniaci, “Il problema econo­mico, ci rendiamo conto, vuole an­che il suo spazio: anche se con i compa­gni di Peppino non è mai successo, nessu­no si scandalizza se qualcuno dà un con­tributo per la gestione o per le iniziative. Ma se tutto questo diventa un “tour di tu­rismo civile e responsabile”, con apposito pac­chetto di viaggio, pullman, luoghi da visi­tare e contributo da versare, si va un po’ oltre il fare antimafia e basta”.

– L’antimafia religiosa. E’ praticata in gran parte da scout che trovano una strut­tura, spesso religiosa, dove poter dormire, mangiare, pregare, e girano varie situazio­ni per apprendere qualcosa su realtà che spesso non conoscono se non per sentito dire. I riferimenti obbligati sono le figure di don Puglisi o di don Diana, martiri: va bene se si ha l’accortezza di distin­guere tra una Chiesa che non ha mai preso le di­stanze dalla mafia, o si è lasciata inquinar­e,e una chiesa militante dove singo­li preti (don Ciotti, don Gallo ecc.) hanno preso forti posizioni di condanna e di di­stanza. Qualche difficoltà nasce dall’attri­buzione, fatta dall’Espresso di “Papa anti­mafia” a Ratzinger, per il solo fatto di avere espresso parere favorevole alla ri­chiesta di beatificazione di padre Puglisi. E’ davvero troppo poco e non pare che fi­nora papa Benedetto si sia distinto per avere espresso un chiaro anatema come quello gridato dal suo predecessore Wojti­la nella Valle dei templi, nel 1993.

– L’antimafia di parata. E’ la più prati­cata: ormai è d’obbligo come minimo par­tecipare, per l’anniversario della morte della vittima, a una messa in memoria, cui sono invitati gli uomini in divisa, i paren­ti, qualche giornalista con telecamera, le au­torità, compreso il sindaco, e altri rap­presentanti istituzionali. Per i rappresen­tanti delle forze dell’ordine la parata può anche essere esteriorizzata con il trombet­tiere che suona il “silenzio”, mentre tutti tac­ciono, assumono una faccia triste, e i mili­tari presenti si schierano con la mano de­stra aperta a taglio sulla fronte per il sa­luto militare. Ultimamente, prima con Rita Atria e poi con Rostagno, sta venen­do in uso una pic­cola cerimonia laica al cimite­ro, davanti alla tomba del caduto. In altri casi si dà luogo a un capannello per sco­prire una la­pide o una targa di intesta­zione di una strada, oppure a un corteo: quello che ha avuto continuità e partecipa­zione numero­sa, e contenuti, è quello che ogni 9 mag­gio si snoda da Terrasini a Ci­nisi per ri­cordare Peppino Impastato.

Strettamente collegata è “l’antimafia dei convegni”, con relatori più o meno im­portanti latori di testimonianze personali, op­pure esperti che si dilungano in dotte rela­zioni bla-bla, con linguaggio incom­prensibile e certamente non rapportato ai livelli di preparazione di chi ascolta; il tutto con biglietto, albergo e pranzo pre­pagati, preceduto da un manifesto, da una locandina e dall’indispensabile presenza dell’operatore televisivo, con relativa in­tervista. Difficile constatare che, chi esca dopo avere ascoltato, possa anche avere interiorizzato qualcosa che lo porti ad operare con più coscienza su questo diffi­cile terreno. Per non parlare delle mega­parate organizzate in occasione del 23 maggio, per ricordare Falcone, con nolo di navi, distribuzione di magliette, borset­te, berrettini ed altri gadget e allegri schia­mazzi, il tutto con spese alte.

– L’antimafia scolastica. Da alcuni anni i piani dell’offerta formativa prevedono progetti di “educazione alla legalità”, ap­provati dal Collegio dei docenti e finan­ziati, in parte con le magre risorse delle scuole, in parte con i fondi regionali (POR), nazionali (PON) o europei (FER­ST). Si tratta di presentare articolati pro­getti con formulari precisi, dettagliato uti­lizzo delle somme, da giustificare al cen­tesimo, e che in parte vengono distribuite tra ore da pagare ai docenti e non docenti,, spese per l’intervento di eventuali relatori e formatori, spese per pubblicizzare l’evento, spese per la costruzione di un “prodotto”, da allegare alle note giustifi­cative.

Negli interventi finali la scuola as­sicura un pubblico, quello degli studenti, felici di uscire per qualche ora dalla loro aula e curiosi di ascoltare qualcosa di di­verso: sui docenti ci sarebbe da fare un di­scorso a parte, considerato che alcuni ap­profittano di questi momenti per “evade­re”, magari andare a fare la spesa o siste­mare il registro, altri, ma solo per far cre­dere che lavorano, sporgono forti lamen­tele al preside, perché vengono sottratte loro “ore di lezione”, altri ancora sparano giudizi feroci, come: ”I ragazzi sono stan­chi di sentir parlare di mafia”, oppure: “E’ stato tutto un momento di indottrina­zione politica di sinistra”. Oppure, ma questo l’ha detto anche il sindaco di Tra­pani, che “a scuola non bisogna parlare di mafia, per non mettere paura agli studenti, ma meglio parlare di altro, di gastronomia per esempio”.

Non ci occuperemo di costoro, ma del fat­to che non basta e non può bastare una conferenza a formare sensibilità e co­scienze antimafia. Anche l’articolazione dei singoli progetti, rivolti per lo più a un’utenza di una ventina di ragazzi, non serve, se produce qualche cartellone, qualche coretto con l’immancabile “I cen­to passi” dei Modena o “Pensa” di Fabri­zio Moro, o ancora qualche filmato con immagini prese da Internet. Tali progetti hanno qualche possibilità di risultato se diventano patrimonio e obiettivo di tutti i docenti, momento centrale dei loro piani di lavoro, da coordinare con i contenuti della disciplina che si insegna, in linea con quanto portato avanti dagli altri do­centi. E, a parte la buona volontà di po­chissimi, moltissimi preferiscono non oc­cuparsi della questione. In ogni caso, an­che queste forme spesso improvvisate del “fare antimafia” vanno incoraggiate e messe in atto, perché, diceva Sciascia, “Per sconfiggere la mafia ci vorrebbe un esercito di maestri”.

– L’antimafia sociale. La definizione è nata a Cinisi, con il Forum Sociale Anti­mafia, nel 2001, e si riferisce alla scelta militante di essere costantemente presenti in tutti i momenti di lotta che nascono sul territorio, di appoggiarli, di considerarli come momenti di costruzione di una “re­sistenza” al sistema mafioso, sull’esempio di quella che era la lotta di resistenza al nazifascismo. E’ una scelta d’impegno e di sacrifici, perchè implica dedizione, convinzione e lavoro sociale, oltre che po­litico. Si tratta di dare una precisa direzio­ne, alla propria vita e a quella delle persone con cui lavori, attraverso la de­nuncia, la manifestazione, se è necessario l’occupazione: come con la partecipazio­ne alle lotte degli operai della Fiat di Ter­mini, ai No-Tav in Val d’Aosta, al neonato movimento No Muos contro le antenne Usa a Niscemi, ecc. Anche la costante presenza nelle scuole o nelle associazioni che organizzano momenti d’impegno civi­le è un passaggio di questa antimafia mili­tante.

– L’antimafia informativa. Come al solito c’è un’informazione di massa, “ufficiale”, di ciò che è consentito dire, e un’informa­zione periferica, ristretta, difficile da dif­fondere, priva di mezzi, ma ricca d’impe­gno, che stenta a farsi spazio. La prima ha a disposizione i grandi mezzi e le grandi testate: è quella che costruisce eroi, che nasconde criminali politici o ne addita solo alcuni al pubblico ludibrio, in rappor­to alle indagini dei magistrati e delle forze dell’ordine o in relazione alle scelte dello schieramento politico per cui lavora il giornalista. In questo contesto tutto sem­bra in ordine, pare che i principali mafiosi siano stati arrestati e che la mafia stia fi­nendo; non si parla, se non di straforo dei fili che legano onorevoli e camorristi, im­presari e forze istituzionali corrotte. In­somma, il solito mondo dorato dove basta individuare qualche responsabile alla Cuf­faro, cui far pagare tutto, affinchè tutto re­sti per com’è sempre stato.

L’altra antimafia mediatica è quella che si serve dei volantini, del retro bianco dei manifesti per scrivere un messaggio, di qualche scalcagnata radio, come lo era Radio Aut, e di qualche altra scalcagnata emittente televisiva com’è Telejato. Il me­todo è quello di Danilo Dolci: abituare la gente ad acquistare un modo di pensare autonomo, a rendersi conto che si trova in un insieme di situazioni che li usa come vittime, come consumatori, come elettori, come destinatari finali di progetti costruiti non per essere al servizio della comunità ma per autoaffermazione e arricchimento. Vent’anni di berlusconismo hanno fatto il deserto e creato generazioni di giornalisti leccaculo, mentre si studiano nuovi meccanismi di controllo, soprattutto sulla pubblicazione delle intercettazioni.

C’è voluto il caso del ventilato carcere per Sallusti per porre all’attenzione un problema vecchio, la diffamazione a mezzo stampa e le sue conseguenze penali. Il tutto con l’avvertenza che spesso si tratta di persone insospettabili e che sbattere i loro visi in prima pagina può provocare imprevedibili reazioni.

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Nota: questo articolo rimane aperto ad eventuali contributi di quanti credono all’esistenza di un’antimafia “militante” e di quanti sono rimasti delusi da altre anti­mafie.

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