lunedì, Ottobre 7, 2024
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Riina: un messaggio trasversale?

Quelle di Totò Riina al boss Alberto Lorusso della Sacra Corona Unita a proposito di via D’Amelio sono parole dettate da un tentativo di depistaggio? La risposta potrebbe essere no se si pensa che la bomba del 19 luglio 1992 di cui Riina parla si lega a un’altra strage precedente.

È quella del Rapido 904 (23 dicembre 1984) e i punti di contatto sono moltepli­ci. Tra questi la tipologia dell’esplosivo e i detonatori la cui ricorrenza potrebbe dare una nuova interpretazione alle confidenze del capo dei capi. Confidenze in base alle quali sarebbe stato proprio Paolo Borselli­no, ucciso insieme alla sua scorta, a inne­scare l’ordigno che nell’estate di 22 anni fa sventrò via D’Amelio. Lo avrebbe fatto involontariamente suonando al citofono della madre e, al contempo, facendo salta­re per aria, la Fiat 126 imbottita con 100 chili di tritolo. Vediamo perché c’è un pa­rallelismo tra le due vicende.

I primi dubbi sulle parole di Riina

Il giorno dopo la diffusione della notizia in base alla quale Borsellino stesso inne­scò l’esplosione hanno suscitato scettici­smo e incredulità.

Leggendo la vicenda solo in relazione a via D’Amelio, in effetti ci sono tre ragioni per non credere alle parole del boss cor­leonese.

Infatti, se così si fossero svolti i fatti, chiunque, dal postino al panettiere, avreb­be potuto suonare al citofono della mam­ma di Borsellino provocando una strage a cui la vittima designata sarebbe scampata. Inoltre l’attentato avvenne alle 16.58 ed è estremamente improbabile che nelle ore precedenti qualcuno potesse manipolare l’impianto citofonico con qualche speran­za di passare inosservato. Infine Gaspare Spatuzza, pentito più volte giudicato at­tendibile (quantomeno con riferimento ai fatti della strage di Via D’Amelio), ha ri­ferito che il telecomando venne azionato da Giuseppe Graviano.

In base a queste considerazioni, le paro­le di Riina sarebbero un depistaggio. In realtà, ci si muove su un terreno scivoloso e non adeguatamente disvelato dai proces­si sulle stragi mafiose: quello dell’innesco delle bombe. E, come introdotto, in un solo caso le conoscenze su questo tema sono soddisfacenti: la strage del Rapido 904, avvenuta nella Grande galleria dell’Appennino, in cui persero la vita 16 persone.

Le indagini sul rapido 904

Può essere utile un veloce richiamo ad alcuni aspetti di quella indagine. La pro­cura di Roma, indagando su altri fatti (un giro di droga e opere d’arte), rinvenne in un appartamento della capitale, in via Al­bricci, misteriosi marchingegni opera di un cittadino straniero, l’artificiere Friedri­ch Schaudinn. Poi in un casolare a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti, fra stu­pefacenti, armi e altri oggetti, sequestrò dell’esplosivo.

Le indagini dimostrarono che sia l’appartamento che il casolare erano ri­conducibili a Pippo Calò, il “cassiere di Cosa nostra”. Inoltre le perizie accertaro­no che l’esplosivo aveva una peculiare composizione chimica che, per qualità e quantità percentuali, lo rendeva identico a quello utilizzato per la strage del 904. A ciò si aggiunga che un esperimento documentò come gli oggetti rinvenuti di via Albricci potessero innescare l’esplosivo provocando quello specifico evento stragista. Infine un’ulteriore serie di indizi legò in modo definitivo entrambi i rinvenimenti alla strage. E infatti il 24 novembre 1992 la Cassazione ha confermato le condanne per quattro persone, fra cui Calò e Schaudinn.

Dobbiamo ora porre l’attenzione sui marchingegni rinvenuti in via Albricci, la cui concatenazione poteva innescare l’esplosione. Detto in altre parole, senza la “catena” formata da questi dispositivi non ci sarebbe stato nessuno scoppio. La “ca­tena”, ideata da Schaudinn, si componeva di tre scatole. Una fungeva da detonatore, era in grado di ricevere due radiocomandi e di rispondere automaticamente a uno dei due. La seconda scatola trasmetteva con un radiocomando alla “scatola-detonato­re” un impulso che metteva in tensione il circuito e, immediatamente dopo, riceve­va un segnale che comunicava lo “stato di allerta” del circuito. La terza scatola tra­smetteva alla “scatola-detonatore”, ormai “allertata” l’impulso che innescava il de­tonatore.

Le parole di Brusca e il ruolo di Riina

Il sistema escogitato da Schaudinn ga­rantiva sicurezza (un doppio impulso per attivare la bomba) e puntualità. Infatti, la bomba del 23 dicembre 1984 scoppiò “puntualmente” sotto la Grande galleria dell’Appennino così superando il contrat­tempo in cui 10 anni prima erano incorsi altri terroristi. Il 4 agosto 1974 la bomba piazzata sul treno Italicus era regolata da un timer e scoppiò circa 70 metri dopo l’uscita della galleria, come attesta la cor­te d’Assise di Bologna nella sentenza del 20 luglio 1983. Era successo che il treno, nella tratta tra Firenze e la galleria aveva recuperato 3 minuti rispetto a un maggior ritardo accumulato.

Le indagini sulla strage del Rapido 904 – indagini che ora ipotizzano per lo stesso Riina il ruolo di mandante – hanno rice­vuto un nuovo impulso con le dichiarazio­ni rese da Giovanni Brusca, sentito l’8 giugno e il 19 luglio 2010 dai magistrati della procura di Napoli. In tale sede ha spiegato che l’esplosivo utilizzato per la strage del 904 proveniva da un deposito mafioso ritrovato nel 1996 in località Giambascio, nei pressi di San Giuseppe Jato, dove Brusca era capo mandamento. L’informazione gli veniva dallo stesso Pippo Calò che lo aveva incaricato di par­larne con Totò Riina, all’epoca latitante, affinché spostasse l’esplosivo. Nel suc­cessivo colloquio con Riina, Brusca avrebbe avuto la consapevolezza che il capo dei capi era a piena conoscenza della vicenda.

L’indagine partenopea (ora trasferita per competenza a Firenze) ha operato un im­portante salto di qualità con una perizia disposta dalla Procura di Napoli. Il perito Vadalà ha accertato che l’esplosivo conte­nuto nel deposito indicato da Brusca era identico a quello trovato nel casolare di Poggio San Lorenzo (addirittura erano identiche le modalità di confezionamento degli involucri) e in parte utilizzato per la strage del 904.

Perizia di Napoli: simile esplosivo

Inoltre la perizia di Vadalà, come ripor­tato nell’ordinanza di custodia cautelare del Gip di Napoli data 27 aprile 2011, ri­conduce a via D’Amelio quando afferma che le bombe avevano la stessa composi­zione, evidenziata dalla presenza in per­centuali simili di Semtex H (pentrite e T4), nitroglicerina e tritolo.

E ancora una nota della squadra mobile di Caltanissetta (14 luglio 1997) sostiene che telecomandi simili a quelli utilizzati nell’attentato di via D’Amelio furono rin­venuti nell’arse­nale di Gambascio. Erano prodotti da una società di Treviso e com­mercializzati da una ditta di Roma. Si trat­tava della stessa ditta da cui, molti anni prima, si era rifor­nito Schaudinn per pro­durre i conge­gni elettrici trovati nella casa di Fiorini in Via Albricci a Roma.

Il filo fra due stragi

Insomma, il filo che unisce la strage del 904 a quella di Via D’Amelio sarebbe di natura soggettiva (Totò Riina) e oggettiva (esplosivo e telecomandi). A questo pun­to, non sembra un’avventura onirica im­maginare che Riina e i suoi alleati, nel 1992, abbiano utilizzato per via D’Amelio la stessa tecnologia dell’innesco del 1984.

In tale contesto le confidenze di Riina a Lorusso possono assumere una nuova chiave di lettura: il postino che avesse suonato al citofono della mamma di Bor­sellino, in assenza del primo comando ne­cessario a mettere in tensione il circuito elettrico, non avrebbe determinato l’inne­sco del detonatore collegato all’esplosivo. E, ancora, il citofono poteva essere mano­messo nel corso della notte al riparo di sguardi indiscreti.

Soprattutto assume coerenza e maggio­re credibilità il racconto di Spatuzza sul ruolo di Graviano, il cui telecomando po­trebbe non aver provocato l’esplosione, ma attivato il circuito poi chiuso, in ipote­si, dal citofono, così consentendogli di al­lontanarsi prima dell’esplosione senza ri­portare ferite né essere notato.

Un personaggio misterioso

Possibile tutto ciò? Pur nella difficoltà di reperire prove a tanto tempo di distan­za, va tenuto conto del fatto che sono po­che le fonti di conoscenza sul tema degli inneschi degli esplosivi nelle stragi di ma­fia. Le stesse conoscenze sul rapido 904 discendono da un rinvenimento casuale che naviga fra personaggi e situazioni poco chiare. Si pensi a Schaudinn che, come era comparso, altrettanto misterio­samente scompare. Oggi è latitante in Germania, che avrebbe negato la cattura all’Italia e gli ultimi suoi segnali arrivano da lì, quando rivendicò la sua estraneità dagli attentati del ’93.

Anche nella strage di Via D’Amelio, c’è un personaggio misterioso: lo scono­sciuto che, secondo Spatuzza, sareb­be sta­to pre­sente nel garage quando la 126 veni­va im­bottita di esplosivo. Come mai la presenza di soggetti esterni a Cosa No­stra improv­visamente si manifesta a Spa­tuzza e soci?

Ancora una coincidenza

Ancora una coincidenza con la strage del rapido 904: il personaggio mi­sterioso interviene nella fase di preparaz­ione della bomba e, quindi, degli inne­schi. È il momento in cui la scatola-deto­natore, con i relais tarati, in ipotesi, sugli impulsi del telecomando manovrato da Graviano e sul citofono, viene collegata all’esplosivo.

Le parole di Riina potrebbero, dunque, non essere un depistaggio sin troppo faci­le da smentire, ma un messaggio trasver­sale. Lanciato a chi sa ed è in grado di ca­pire.

Analogie sospette fra esplosivi e telecomandi utilizzati in stragi che appa­rentemente non collegate fra loro

 

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