giovedì, Aprile 25, 2024
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Lo strano marinaio del caso Ilaria Alpi

Sono passati vent’anni dall’omicidio della gior­nalista del Tg3 Ilaria Alpi e del suo operato­re, Miran Hrovatin, as­sassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994. E questo anniversario può essere il momento per tirare qualche filo di una vicenda intrica­tissima, caratterizzata da depistaggi e tentativi di insabbiamento che, se in sede giudiziaria, finora hanno ottenuto l’obiettivo, dal punto di vista della ricostruzio­ne di ciò che avvenne non hanno potuto im­pedire di conoscere al­meno un pezzo di veri­tà

La verità ci dice che in Somalia si può morire in molti modi. Il più frequente è ammazzati, a seguire cronache che troppo spesso non trovano spazio sui giornali. Un altro – di certo meno fre­quente, ma non abbastanza raro da po­ter essere ritenuto un caso, una bizzar­ria fisiologica – è ve­dersi uccidere da un tumore della pelle dopo aver trascorso la vita a fare il mari­naio, come è acca­duto a un somalo che del mare ha fatto il lavoro di un’esistenza intera.

Quel tumore, se fosse stato curato per tempo in Italia, avrebbe avuto una suffi­ciente probabilità di andare di remissione e qualche chance in meno di metastatiz­zarsi. Invece il marinaio, che si vide cre­scere sul tronco e sulle braccia neoforma­zioni ulcerate, è morto.

Esposizione a radiazioni

Non era anziano e di solito una malattia del genere insorge in persone che hanno la pelle chiara, non in chi è di colore. Tra le sue cause, soprattutto per i bianchi, l’espo­sizione diretta e prolungata al sole: i raggi ultravioletti friggono la normale fisiologia delle cellule dell’epidermide e possono provocare mutazioni che sfocia­no nel can­cro.

Questi danni avranno più effetto se in­contreranno preesistenti cicatrici o ustioni guarite e il quadro fin qui descritto sem­bra adattarsi alla vita di chi è andato sem­pre per mare, per quanto di fenotipo scu­ro.

Ma c’è anche un’altra causa a monte di questo tipo di tumore, più frequente nella popolazione africana e afro-americana: l’esposizione a radiazioni o a sostanze chi­miche, come i metalli pesanti, che diven­tano più minacciose quando una persona maneggia a lungo materiale inquinante fi­nendo per assorbirlo.

Se a questa consta­tazione si aggiunge che il nostro marinaio è stato per anni a bordo di un’imbarcazio­ne di una flotta chiacchierata, come nel caso della Shifco, ecco che tornano in mente altre storie. E in particolare tutte le storie scritte e lette da un ventennio a proposito delle navi divenute di proprietà di Omar Mugne, un imprenditore con doppia cittadinanza – somala e italiana – il cui nome è ricorso fin troppo spesso nelle indagini legate alla morte di Ilaria Alpi.

Le navi di Omar Mugne

Queste storie raccontano di presunti traffici di armi e di rifiuti smaltiti illegal­mente in un Paese in cui tutto è lecito e nulla è illecito. Un Paese che, dopo la fine della dittatura di Siad Barre, è divenuto terreno di scontro tra i signori della guerra prima e i fondamentalisti poi fino alla sua manifestazione vincente, al-Shabaab.

E che oggi sembra essere ostaggio di due tipi di mafia: la mafia integralista, in­trodotta solo pochi anni fa dalle corti isla­miche che costrinsero nel 2006 il governo a rifugiarsi a Baidoa perdendo il controllo della capitale, Mogadiscio; e la mafia de­gli uomini d’onore della politica, trafficoni sopravvissuti alla fine del regime che han­no tratto potere e denaro dalla svendita in una nazione in perenne stato di guerra.

La “fonte di Udine”

A oggi, le risultanze giudiziarie a carico di questi trafficoni – italiani e somali – hanno portato a poco. E chi contribuì in fase di indagine a ricostruirle è stato sem­plicemente scaricato. Ci sarà per esempio chi si ricorda del trattamento riservato alla cosiddetta “fonte della Digos di Udine”, un cittadino somalo in Italia da anni che fornì informazioni utili a districare le vi­cende che portarono all’omicidio di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin.

Una fonte che in più di una sede è stata ritenuta attendi­bile e che, proprio per questo, venne pro­tetta dagli investigatori perché, esponen­dola, si mettevano a repentaglio la sua vita e quella dei suoi familiari, alcuni dei quali ancora nel Corno d’Africa.

Divulgati i nomi delle fonti

Ma ci fu chi non giocò a favore della tu­tela della fonte. Tra questi, l’avvocato Car­lo Taormina, presidente della commis­sione parlamentare istituita (invano) per far chia­rezza sull’assassinio dei giornalisti italiani. Taormina, nella sua funzione istituzionale, prima invalidò le parole della fonte perché i dirigenti della Digos di Udine rifiutavano di farne il nome. E poi si premurò di divulgarne le generalità nel corso di un’audizione pubblica.

In sede di commissione non ci si pose invece la domanda fondamentale: non “chi è la fonte?”, ma “quanto è fondato ciò che sta dicen­do?”. Non si tenne in consi­derazione nemmeno il ruolo che gio­cò per una dozzina d’anni, un ruolo so­prattutto di raccordo: raccol­se informa­zioni nel suo Pae­se d’origine avvalendosi della rete di relazioni che aveva laggiù e le trasmise agli inquirenti.

I viaggi da e per la Somalia

Inoltre, sempre con il supporto dei suoi contatti locali, si occupo’ di organizzare i viaggi da e per la Somalia di testimoni e investiga­tori.

Non sembra averlo fatto per denaro. Non ci sono notizie di pa­gamenti e del re­sto non sembrava averne bisogno, dato che il lavoro di import-export già bastava alle esigenze sue e dei suoi congiunti. In qualche deposizione disse che il suo sco­po era un altro: in So­malia non c’erano scuole né ospe­dali, non c’era alcuna strut­tura a disposi­zione della popolazione. E forse, agendo come ha fatto, avrebbe con­sentito almeno una pallida normalizzazio­ne del Paese, col ritorno di imprenditori e organizzazioni non governati­ve.

Occor­reva dunque capire qualcosa di più di de­terminati traffici.

Ma pure di determinati delitti: oltre a quello di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, anche l’omicidio di Vincenzo Li Causi, lo 007 del Sismi e di Gladio assassinato nel novembre 1993 in circostanze non chiare (per quanto si tenda per l’imboscata) men­tre stava lavorando sul progetto Urano, «finalizzato all’illecito smaltimento in al­cune aree del Sahara di rifiuti industriali tossico-nocivi e radioattivi provenienti da Paesi europei» (definizione della commis­sione parlamentare sul ciclo dei rifiuti).

Scomparso e mai più riapparso

Beata ingenuità, quella della fonte? Può darsi. Di certo, se di ingenuità si trattava (e se la sua collaborazione non fosse stata invece frutto di un calcolo d’altro tipo), non si aspettava di finire esposto in modo così netto.

Un’esposizione che mise a ri­schio – e c’è caso che continui a farlo – an­che la sua rete in Africa. Nel 2006 ci rimi­se la vita un nipote ancora giovane, per quanto quella morte possa rientrare nella crisi che tornò ad acuirsi a causa delle corti islami­che.

E oggi – ma anche qui la formula dubi­tativa è d’obbligo – qualcuno potrebbe tor­nare a ricordarsi di lui, dato che Gelle – al secolo Ahmed Ali Rage, il testimone con­tro l’unico condannato per il delitto del 1994 – non viene ritenuto più così credibi­le e c’è caso che si voglia saperne di più su di lui, scomparso subito dopo aver reso la sua versione dei fatti e non riapparso neanche in dibattimento.

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