domenica, Dicembre 1, 2024
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Quello che conta è come si raccontano le cose

Intevista a Ferdinando Scianna

A Ragusa Ibla, quartiere barocco per eccellenza, patrimonio Unesco, si è tenuta la quarta edizione del “Ragusa foto festival”, un’occasione di confronto culturale ed artistico con mostre e letture portfolio da parte di fotografi e photo editor di livello nazionale ed internazionale. In questo contesto abbiamo avuto la fortuna di conoscere meglio Ferdinando Scianna, importante fotografo siciliano di fama internazionale, ponendo a lui alcune domande.

Scianna nasce a Bagheria, in Sicilia nel 1943. Dopo aver interrotto gli studi presso la facoltà di lettere e filosofia di Palermo, incontra lo scrittore e poi suo amico Leonardo Sciascia, con il quale pubblica, a ventun anni, il primo dei suoi numerosi libri dal titolo “Feste religiose in Sicilia” che ottiene il premio Nadar. Decide di uscire fuori dalla Sicilia e di guardare altri “mondi” trasferendosi a Milano e cominciando a lavorare per il settimanale “L’Europeo”come fotoreporter, inviato speciale, in seguito corrispondente da Parigi, dove vive per dieci anni. Qui scrive per alcune testate tra cui “Le Monde Diplomatique”. Introdotto da Henri Cartier-Bresson come il primo ed unico fotografo italiano entra a far parte della riconosciuta ed importante agenzia fotografica “Magnum Photos”. Dal 1987 alterna il reportage sociale al ritratto ed alla fotografia di moda e di pubblicità.

 

Siciliano di nascita, il suo percorso è stato diverso dalla sua collega Letizia Battaglia. In molte sue opere lei ha raccontato la Sicilia e i siciliani, ma come ha vissuto e, in qualche modo, raccontato fotograficamente la società e la mafia in Sicilia?

In un certo senso nonostante abbia fatto il giornalista per trent’anni mi considero un reporter, ma non un fotografo dell’attualità. Io penso che si possa fotografare la mafia come lo ha fatto Letizia magnificamente, oppure si possa fotografare la gente che vive nel suo contesto… le facce ed i gesti che compiono raccontano già la violenza e la prevaricazione.

In definitiva, probabilmente io sono andato via per questo, perché era un mondo dove i diritti ti venivano concessi come privilegi e dovevi sempre chiederli a chi si faceva detentore di questi privilegi. Questa per me è la mafia: il rifiuto, la morte, la mancanza del diritto di ogni individuo di essere cittadino, perché si pone, come ha detto Sciascia, “come un’intermediazione parassitaria tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”. La caratteristica della mafia è che si organizza come uno stato parallelo. Non è che la criminalità sta da una parte e lo Stato dall’altra… anzi le due cose si confondono ed è questo il vero dramma.

Il mio grande maestro Roberto Leydi, al quale recentemente ho dedicato un libro, mi ha insegnato che nei canti popolari ci sono delle canzoni che sono direttamente politiche, anticapitaliste, antimilitariste e che la sostanza culturale di un popolo la si può trovare anche in una ninna nanna. In fotografia io credo che le due cose vadano insieme.

Il momento della violenza è la punta dell’iceberg… è difficile rappresentarlo bene, come hanno fatto Letizia e pochissimi altri, però è sempre la punta dell’iceberg… a me interessa di più la parte sommersa dell’iceberg.

 

Secondo quanto è stato espresso da giornalisti che hanno combattuto la mafia, primo fra tutti Peppino Impastato, sulla potenza e l’incisività del mezzo fotografico come mezzo di denuncia sociale, quanto lei crede che la fotografia possa cambiare il corso degli eventi ed il nostro contesto sociale?

Ci ho creduto quando avevo diciotto anni…! Io sostengo che lo cambi a livello dello sguardo non sempre e non necessariamente a livello dell’evidenza del soggetto perché ci possono essere delle cose drammatiche che producono delle brutte fotografie e a quel punto abbiamo due problemi da calcolare: la drammaticità e l’ingiustizia del contesto e poi la brutta fotografia. Probabilmente come in ogni linguaggio quello che conta è come si raccontano le cose. C’è la fotografia della tragedia del mondo, perché il mondo è anche una tragedia ma è anche una cosa bellissima. Camus diceva: “L’Algeria mi ha insegnato che non c’è solo l’ingiustizia e la violenza, ma c’è anche tua madre e c’è il sole e c’è il mare. L’Algeria mi ha insegnato che non c’è solo tua madre, il sole ed il mare, ma c’è anche l’ingiustizia”. Ecco noi viviamo in questa intercapedine. Ad esempio le fotografie di Francesco Zizola sono importanti non solo perché raccontano le tragedie del mondo, ma anche perché lo fanno meravigliosamente. È giusto farlo, ma è soprattutto il modo in cui tu lo fai che produce speranza, una dimensione di armonia possibile. Insomma, certe fotografie mi interessano soprattutto per quello.

 

Con l’avvento del digitale com’è cambiato il suo rapporto con la fotografia?

Il mio è cambiato assai poco, pur probabilmente sbagliando. Il digitale è una novità non solo tecnologica, ma è anche una novità linguistica. Io utilizzo il sensore come un vecchio negativo e probabilmente questo è discutibile, però credo che tutto quello che si può fare con la fotografia digitale spesso ci allontana dalla fotografia per la facilità con cui si possono cambiare le carte in tavola. Se io fotografo un fiume giallo e c’è una feluca non ci metto dieci feluche per fare una fotografia.

 

Cosa consiglierebbe ad un/una neo fotoreporter che si affaccia alla fotografia sociale?

Di farlo se ci crede! Perché c’è tanta gente che fa la fotografia sociale per avere degli alibi morali, mentre ci sono dei fotografi per i quali quel tipo di fotografia è necessaria, corrisponde alla loro autentica indignazione nei confronti del mondo, di quello che accade. Ciò che chiedo ai fotografi è di credere in quello che fanno!

 

Come racconterebbe oggi la sicilianità rispetto a ieri?

Sempre per rimanere nel tema della mafia, Sciascia diceva che: “la mafia è come la linea della palma, continua ad andare verso il Nord cinquanta chilometri all’anno, adesso è arrivata ad Oslo”. Sappiamo che la mafia è arrivata a Milano, a Roma ed anche altrove. Non credo che sia più un problema di sicilianità, credo che sia un problema di relazioni sociali, anche etiche, tra gli uomini.

 

Arricchiti dalle sue profonde ed autentiche parole lo ringraziamo tornando a casa con un bagaglio in più: l’incontro con un buon maestro di vita e di fotografia che ha avuto il coraggio di raccontare sapientemente e con il suo stile inconfondibile, dei mondi vicini e lontani, grandi e piccoli, contraddittori e veri insieme.

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