venerdì, Aprile 19, 2024
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Le quattro giornate e le giornate di ora

La piazza principale di Ponticelli, antico borgo di campagna aggregato negli anni Venti al cor- po della città. Al primo piano del vecchio edifi- cio municipale c’è la sede rionale del Fa- scio. Mussolini è appe- na caduto…

A chi importa ancora di un popolo che si ribella e resiste?

La piazza principale di Ponticelli, antico borgo di campagna aggregato negli anni Venti al corpo della città. Al primo piano del vecchio edificio municipale c’è la sede rionale del Fascio. Mussolini è appena caduto, gli antifascisti riuniscono la cittadinanza, sfondano il portone e prendono d’assalto i locali. I mobili, le carte, le bandiere, accatastate al centro della piazza, vengono ridotte in cenere.

Il 12 settembre del ’43 il colonnello Scholl, comandante della piazzaforte di Napoli, proclamerà lo stato d’assedio. I tedeschi setacciano le case in cerca di uomini validi da inviare in Germania. Il 27 di quel mese, fin dall’alba le strade principali di Ponticelli sono presidiate da popolani armati. Un ciabattino, Gennaro Castiello, con la tromba fa il giro dell’abitato raccomandando a donne, vecchi e bambini di restare in casa. Tra gli insorti ci sono i contadini venuti dalle campagne, operai, commercianti, marinai della contraerea, soldati e ufficiali sbandati.

Il 29 è la giornata cruciale. Di mattina un grosso autocarro carico di tedeschi si addentra nella masseria Morabito, due soldati entrano in una stalla per razziare un vitellino. I partigiani, divisi in due gruppi, li sorprendono all’uscita della masseria, tenendoli tra due fuochi. Lo scontro si protrae per un’ora, finché non arrivano i rinforzi chiamati per radio dai tedeschi. I partigiani decidono di ritirarsi. Nel giro di poche ore, la rappresaglia tedesca condurrà alla morte di trentotto persone, l’eccidio più grave delle quattro giornate di Napoli.

Un attore napoletano, Emanuele Valenti, raccontava che durante un laboratorio con un gruppo di ragazzi di nemmeno vent’anni, l’attore e drammaturgo Enzo Moscato aveva proposto loro di scrivere e poi mettere in scena un breve testo sulle quattro giornate, presentando quegli avvenimenti come «l’ultima volta in cui il popolo napoletano si è ribellato». Non diceva però se i ragazzi avevano raccolto l’invito. 

A chi importa ancora di un popolo che si ribella e resiste? Le quattro giornate, la resistenza ai tedeschi, sembrano evocare ormai solo qualche bel discorso o una stele commemorativa. Nelle orazioni ufficiali non mancano le nobili assonanze – disobbedienza, sacrificio, coraggio – ma nel racconto di chi era lì, ed è ancora qui, la storia prende una piega meno eroica.

Aniello Borrelli, classe 1929, racconta cosa gli accadde il 29 settembre a Ponticelli: «In un palazzo di via Ottaviano, nel sopratetto erano nascosti cinque giovani che non si erano presentati alla chiamata del colonnello Scholl. I tedeschi mi presero e volevano sapere di questi giovani. Io, pur nella paura, dissi che non c’era nessuno, dopodiché mi costrinsero a prendere una scala in campagna, e così, nella perdita di tempo per andare a prendere la scala, i cinque riuscirono a salvarsi… Quando i tedeschi scesero dal sopratetto che non avevano trovato nessuno, uno di questi mi pigliò per il colletto e mi stava portando in mezzo alla terra. Mentre mi portava fu chiamato, io appena ebbi la possibilità tentai di scappare, quelli mi spararono addosso, ma per fortuna tre alberi di nespolo molto grandi si presero alcuni colpi… Verso sera, dopo aver vagato senza meta per le campagne, mi andai a nascondere nel deposito di Raffaele ‘o cantiniere, assieme al figlio Michele, mio compagno di scuola. Dallo spavento mi salì un’altissima febbre, deliravo. Mia madre mi raccontava che verso le dieci di sera Ermelinda, la moglie del cantiniere, entrò nel cortile dicendo: “Donna Nannina venite da me, Aniello ha schiattato il termometro, ha la febbre a più di quarantuno”».

Quando tornammo a fargli visita per proseguire l’intervista cominciata la settimana prima, Aniello ci annunciò che aveva cominciato a scrivere della sua vita. E ci mostrò venticinque fogli formato A4, riempiti a penna con calligrafia minuta e righe drittissime, senza nemmeno una cancellatura. Era un proposito che covava da tempo, la sollecitazione dell’intervista gli aveva ravvivato la memoria infondendogli l’energia necessaria per mettersi alla scrivania. 

La volta successiva i fogli scritti erano diventati settanta. Ce li lesse, dopo averci fatto sedere al tavolo della cucina, e all’improvviso le registrazioni fatte fino a quel momento ci sembrarono di poco valore. (La voce di Aniello in certi punti si arresta, all’apparenza esitante, ma un attimo dopo riprende più rapida, senza perdere il filo, esatta e sicura). Sulla pagina c’era l’ordine che la parola non poteva restituire, e ancora più precisione e minuziosità nei dettagli.

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