sabato, Aprile 20, 2024
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Frutti di mare

Con quella piccola bocca fece una smorfia: «La morte del gambero è que­sta! Però il legno dello spiedino doveva essere di abete. È più morbido e fa profu­mo!». Io feci solo un lieve brontolìo di assenso. Guardavo il mare, immobile verde, con la carcassa del veliero, che si vedeva in trasparenza, le punte delle al­ghe gialle che affioravano sotto la ban­china, desideravo l’estate per essere di­steso sul mare, braccia e gambe larghe, galleggiando così. E il fotografo mi sfio­rò rispettosamente con il dito, con due occhi come si fosse dimenticato di comu­nicarmi qualcosa di essenziale e me ne volesse chiedere scusa:

«Qui però il pesce migliore sono le cozze, perché il pascolo marino è più dolce, l’acqua è cheta. Qui ci sono cozze grandi come un pugno. Si mangiano cru­de: mezzo limone spremuto su ogni coz­za, un pezzo di pane di casa e mezza bot­tiglia di vino. Stavolta però dev’essere bianco! Le coz­ze sono un cibo vigoroso, uno si mangia un piatto di cozze, poi prende una donna e la sconquassa. La prima notte di nozze, all’alba mia moglie mi disse: oh, e tu ti devi calmare, che ti sei messo in testa! Io sono stata sei anni nel collegio delle do­menicane…!».

La donnona rubiconda e ruffiana era a due passi, aspettava, aveva ascoltato e subito annuito, pensai che anche lei ave­va mangiato cozze per la prima notte di nozze, il marito era sopravvissuto solo un paio di settimane. Poi morto o fuggito emigrante. Probabilmente ero un po’ ubriaco. La donna portò un chilo di coz­ze, venti limoni, un altro pane di casa e un litro di bianco di Pachino. Con piccoli gesti amorosi sbarazzò il tavolo dalle molliche, dai resti dell’altro cibo, i piatti, le bottiglie vuote.

Il fotografo fece un gesto sacerdotale, si legò il tovagliolo attorno al collo. Co­minciò ad aprire le cozze adagio con la punta del coltel­lo, a spremerci mezzo li­mone, aveva già affettato il pane, riempi­to il bicchiere. Fece un sospiro:

«Ad Acitrezza le cozze sono più picco­le, però forse ancora più tradimentose, non so se mi spiego… Mi ricordo quel giorno che due pescatori si era­no perduti al largo per una tempesta. Una tragedia del mare, cose da Mala­voglia…». Dirimpetto al molo metallico di Poz­zallo, questa specie di monumento della impotenza pubblica in Sicilia, si levava­no dolci colline di pietra sulle quali pa­stori e mandriani portavano le bestie al pascolo, e quelle mucche pezzate e quel­le capre che brucavano l’erba fin sulle rive, sembravano irreali.

In verità, forse perché novembre è un mese senza stagione, ancora con il sole bianco dell’estate e l’erba dell’inverno che già cresce dovunque, tutta quella riva siciliana del mare d’Africa mi appariva irreale, i piccoli porti di pietra bianca. Samperi, Donnalucata, Marina di Ragu­sa, Scoglitti, dentro i quali velieri e bar­che si raccoglievano come nel cavo di una mano, e si sentiva, si capiva che essi erano ancora arnesi per la vita dell’uomo, le reti, gli scalmi, i remi alli­neati sulla riva, logori e lustri come le zappe, le falci, gli aratri di un tempo, in­finite volte impugnati da generazioni di contadini.

Il viaggio stava per concludersi. Come già la sera avanti, il sole cominciò a cala­re velocemente, via via diveniva più grande e si accendeva di rosso, si fermò a un palmo dall’orizzonte, visibile e niti­do come la lampadina di un’osteria, e tutto il golfo sul quale correvamo, di col­po si spogliò di voci e presenze umane, i gabbiani scomparvero misteriosamente e le colline s’illuminarono di una luce d’incendio. Laggiù, all’altra estremità del golfo, si scorgeva un piccolo villaggio marino, aggrappato a una specie di duna a picco sulla riva, e centinaia di finestre riflettevano quel sole, pareva che le case stessero bruciando.

Sull’arco sconfinato della spiaggia c’era solo una barca sfondata e, lungo il bagnasciuga, il puntolino minuscolo di un uomo che camminava adagio rasente al mare. Pensai che non avrei mai saputo che viso avesse quell’essere umano e se era un vecchio o un bambino, e che pen­sieri avesse nella mente in quell’attimo, quale fosse cioè la sua fantastica sensa­zione di solitudine, in quella ultima luce, in quel golfo senza una sola voce umana, senza nemmeno più il fruscio di un gab­biano.

 

Questo articolo è stato pubblicato sui “Siciliani” nel 1983, ma forse fa parte di un numero del giornale che è ancora tutto da fare. Dopo la mafia e gli scop­pi, quan­do dei missili di Comiso e dei cavalieri sarà sbiadito anche il ricordo , ci sarà an­cora una Sicilia come questa, fra le oste­rie di paese e il mare, una Si­cilia da rac­contare…

I Siciliani Nuovi, marzo 93

 

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