giovedì, Aprile 25, 2024
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Da potere a regime

Chi è Ciancimino oggi, a Roma? Chi sono i ban­chieri Salvo? Chi è Sal­vo Lima? Davvero il capo supremo è Carmi­nati?

Allora: Carminati era il capo della mafia a Roma, Liggio a Palermo, San­tapaola a Catania: signori assoluti delle rispettive città, padroni dopo Dio.

A Palermo i comunisti pensavano diver­samente: Lima, i Salvo, Ciancimino, il potere dc, gl’imprenditori; ma erano co­munisti e lo dicevano per pura cattiveria. A Catania Giuseppe Fava: i “cavalieri dell’apocalisse”, gli appalti, gli assessori. Ma era era un pazzo isolato e lo diceva per pura poesia.

Il vecchio “L’Ora” a Palermo, “I Sicilia­ni”a Catania, stampavano queste cose: ma loro soli. Più facilmente, i giornali locali (e quelli nazionali, quasi tutti) difendeva­no dc e cavalieri dalle orrende accuse: ap­palti regolarissimi, piani regolatori esem­plari; politici e capimafia sconosciuti a vicenda, per non parlare degl’imprendito­ri. E i morti ammazzati? E la giungla? Eh, delinquenza incontrollata, malavita: del resto non c’è più ordine, signora mia.

Arrivò Chinnici, arrivò Fal­cone, e Bor­sellino e Di Lello e tutti gli al­tri. Anno per anno e affare per affare but­tarono giù la maschera ai veri capi. “Chiedo l’incrimi­nazione del teste An­dreotti per falsa testi­monianza!” urlò l’avvocato antimafia nell’aula del tribuna­le. “I quattro maggio­ri imprenditori di Catania conqui­stano Palermo con la tolleranza della mafia” enunciò il genera­le antimafia, e telefonate frenetiche s’intersecarono sbigottite e fe­roci da pa­lazzo a palazzo.

Il “concorso esterno”

A Palermo, giudici e poliziotti fedeli (che a Catania mancava­no) colpirono non solo i mafiosi-killer ma anche i loro capi e mandanti: il “concorso esterno”, attaccato dai giornali perbene ma difeso daimagi­strati, diventò l’incubo della borghesia mafiosa. All’altro capo dell’isola, se non giustizia, si conqui­stò almeno una verità: il potere mafioso è poli­tico e imprendito­riale, i Cavalieri con­tano molto di più di Santapaola. Furono i ragazzi delle scuole, non i vari politici, a gridarlo per le strade: eppure alla fine divenne l’opinione comu­ne. E adesso eccoci a Roma.

L’attacco ai magistrati

A Roma, “i magistrati debbono scrive­re le sentenze, non mettersi a fare comu­nicati!”. Davanti alle reazioni dei politici (questo era il povero Renzi) chi ha vissu­to la Sicilia non può che sogghignare iro­nicamente.

E’ l’identica stessa reazione (“Silenzio, entra la Corte!”) dei politici si­ciliani ai tempi loro. I giudici, ammesso che abbia­no voglia di occuparsi di mafia (ammesso che la mafia esista, e che esista davvero proprio nella nostra città), si oc­cupino dei singoli reati, e non s’azzar­dino a indicare da che cosa derivano, che cosa gli sta die­tro. Sennò sono – secondo i tem­pi – o “an­tipolitici” o “comunisti”.

La sinistra qui era nata come antimafia

I politici (a parte quelli proprio punciu­ti, che sono un discorso a parte) in ge­nere tendono a ignorare la mafia, o quan­do questo è impossibile a ignorarne comun­que la funzione politica, il potere. Per i vari Ren­zi e Fonzi, ovviamente, ciò non è affatto stra­no. Per i nazifascisti, da Ale­manno a Sal­vini, è solo questione d’affari.

Ma la sini­stra? I compagni, quag­giù in Si­cilia, erano nati combattendo contro i ma­fiosi, servi dei latifondisti e nemici spieta­ti dei conta­dini. Più di cento ne ab­biamo perso, in questa guerra, generazioni prima di Falcone. Al quale, per ingiuriar­lo, davano abbondantemente del “comuni­sta”. E ora? Com’è andata a finire?

A parte i tradimenti individuali, che sono molti, a parte i tradimenti col­lettivi (Lega Coop, ad esempio), che non son po­chi, s’è persa completamente la vi­sione sociale della lotta alla mafia, l’idea che sia una lotta politica e non solo una cosa da Procure. Colpisce moltis­simo, nel dibatti­to di questi anni (non pri­vo di novi­tà: i vari No, le rifon­dazioni, le altre Euro­pe) l’assen­za quasi totale di ogni riferimen­to ai poteri mafiosi. Come se La Tor­re o Li­causi non fossero mai esi­stiti, come se Peppino Im­pastato fosse un monumen­to.

Io me li ricordo benissimo, gli anni di Peppino. Non è vero – come dice la favola – che alla fine il popolo si commosse. I ci­nisani restarono mafiosi, dall’inizio alla fine, e lo sono probabilmente tuttora. Cer­to, non c’erano solo loro: a Partinico, a po­chi chilometri, l’antimafia era forte e popolare. Quanto ai compagni “politici”, erano impegnati sì, ma su altre cose: in­diani metropolitani, problemi del “perso­nale”, grandi e lontane rivoluzioni: batter­si contro il boss del paese, come Peppino, era decisamente sorpassato. Non furono moltissimi quelli che restarono con lui, prima durante e dopo. Poi venne, per altre vie, la nuova antima­fia di massa, i nuovi movimenti (anni ’80 e ’90). E tutto rico­minciò. Ma sui rivolu­zionari senza anti­mafia io resto profonda­mente diffidente.

I movimenti antimafia…

A un certo punto l’antimafia per certuni diventò pure un mestiere. Non esattamen­te un’industria, per carità; ma insomma qual­cosa che non danneggiava la carriera (niente a che vedere, quindi, coi vecchi “professionisti dell’antimafia” di Sciascia che erano semplicemente, secondo il gior­nale piduista per cui Sciascia scriveva, gli antimafiosi conseguenti). Un’antimafia fra virgolette, anche quando era perbene.

… e l’antimafia di palazzo

Fu allora che cominciammo, per evitar confusioni, a parlare di antimafia sociale (cosa in fondo pleonastica, dal momento che se non è sociale l’antimafia non si vede cosa mai possa esserlo).

A palazzo la mafia, che prima “non esi­steva”, a un certo punto ufficialmente di­ventò “di merda”. Peccato che a dirlo fos­se Cuffaro il quale, fra una battuta e l’altra, finì in galera. Gli successe Lom­bardo, anche lui ferocissimo nemico dei mafiosi e anche lui – sicura­mente per equivoco – alla fine indagato.

Crocetta, eccentricamente per un presi­dente sicilia­no, non è indagato: ma ha messo parec­chia acqua nel vino della sua antimafia originaria, succedendo linear­mente – ne era stato fra i principali soste­nitori – al suo predecessore Lombardo, suc­ceduto a sua volta fraternamente e sen­za intoppi a Cuf­faro.

Ma neanche questa catena di successio­ni, politicamen­te signi­ficantissima, è valsa a dar dignità politi­ca – nelle strate­gie delle varie sinistre – alla questione ma­fiosa.

In Sicilia, l’antimafia di palazzo rag­giunse per virtù religiose e civili, e per buona o cattiva effettività di potere, i fasti della vecchia Dc.

Cemento e democrazia

Lumia ispiratore di Crocetta, Alfa­no al­leata di entrambi, il catanese Bianco, cate­goricamente democratico nelle intervi­ste ma cementizio quanto a strategie, diven­nero, sulla stampa ammessa, la faccia nuova della Sicilia: l’”antimafia”,appun­to.

Paral­lelamente, si rinnovava anche la ca­tegoria tradizionalmente più collusa in Si­cilia, quella dei costruttori.La Confindu­stria siciliana, rinnegando il “pizzo” (pri­ma tranquillamente erogato), diventa­va ipso fatto un baluardo, pure lei, di ”anti­mafia”, con diritto al silenzio su tutti i tra­dizionali traffici, non di molto variati.

Commemorazioni commosse, acco­glienze solen­ni a tutti i buoni notabili d’Europa, virtuose presenta­zioni di libri, querele a chiunque insinui che qualche fa­miliare di mafiosi possa a volte vo­tareper la bian­ca “anti­mafia” ormai imperan­te.

Su tutto, la coltre antimafiosissima d’un Ciancio, col suo monopolio di cronaca per diritto divino, imparzialmente ospitan­te scrittoresse d’Arcadia e boss di Cosa No­stra, sia fuori che dentro le patrie gale­re.

Non fa meraviglia che a un certo punto tutta questa “antimafia” abbia cominciato a far sorridere, e che qualche tradizio­nale flautista del re­gime (i vari Merlo e Butta­fuoco, “sini­stra” e “destra” ) abbia oppor­tunamente cominciato a soloneg­giarci su, magari dalle pagine da inte­gerrimi ma smemorati fogli d’opposizione.

L’antimafia, quella vera, frattanto conti­nua – business as usual – a lavorare.

Non è un lavoro facile, non lo è mai sta­to ma adesso è più complicato del solito. I motivi sono due, uno riguarda noi stessi e uno la situazione generale del Paese.

Per la maggior parte della nostra storia, noi abbiamo lottato in un Paese prevalen­temente civile e sotto istituzioni (com­plessivamente) democratiche. Entrambe queste condizioni non ci sono più.

Lo stato civile del Paese

Sullo stato civile del Paese ci sarebbe molto da dire. La sostanza è questa: i ma­fiosi e i fascisti (e i rinnegati “di sinistra”) che hanno organizzato la mafia a Roma hanno potuto contare non solo sulle loro capacità criminali, ma an­che su una co­munanza di valori con una parte del popo­lo romano. Così, quando hanno avu­to bi­sogno di una “manifesta­zione sponta­nea” contro gli zingari, per i loschi affari loro, è bastato un fischio e la manifesta­zione c’è stata. Non solo con i razzisti professio­nali di Casa Pound e roba del gene­re, ma anche con la gente comune, le ma­dri di famiglia, la ggente. Questo, Musso­lini non era mai riuscito ad ottenerlo.

C’era riuscito Hitler, c’era riuscito lo zar dei primi pogrom, ma in Italia una cosa del genere s’era vi­sta solo in posti margi­nali e isolati, tipo la Corleone anni ’50 o qualche paesino della Ca­labria profonda.

Chi fa veicolo a modelli fascisti

Ora succede a Roma, succede in Lombardia, nelle zone già “ci­vili” del Paese. La ma­fia fa da vei­colo, e veicola a sua vol­ta, a modelli pre-democratici o apertamente fascisti.

Non è successo all’improvviso ma in una progressione du­rata oltre dieci anni, con partiti moderata­mente nazisti come la Lega Nord (la cui popolarità non a caso va crescendo ora) e con solidarietà e tolle­ranze – classicamen­te – di forze “responsa­bili” e “moderate” e a volte persino (il caso di Grillo) “sovversive” e “ribelli”.

Weimar più la mafia

La crisi economica, come sempre, ha fatto il resto. In assenza di una sinistra combat­tiva a difesa dei ceti poveri, gran parte di questi ultimi – Wei­mar – sono fini­ti a destra. Il sindacato, che ora finalmente si batte ed è anzi l’ulti­mo riferimento de­mocratico rimasto, ha re­sponsabilità gra­vissime per un’assenza durata vent’anni.

Il risultato è che il nazismo e la mafia ora hanno una, non maggioritaria ma si­gnificativa, base di massa in Italia. Tra Falcone e Heider, oggi molta gente sce­glierebbe tranquillamente il secondo.

Falcone non è più solo, pertanto, l’ope­ratore di una giustizia “tecnica” nel qua­dro di uno Stato civile, ma il punto di rife­rimento di un’infinità di rivendicazioni, di dolori, di oppressioni, di attese, che a uno a uno bisognerà raccogliere – non lo fa nessun altro – e che ci accollano dunque, in quanto antimafia sociale, un’enorme supplenza. Siamo Peppino Impastato a Ci­nisi: anti­mafia, sinistra, libera informazio­ne: tutto.

Antimafia, sinistra, informazione

La disoccupazione generale sopra il tre­dici per cento. Il presidente di una com­missione parlamentare che la dirige da casa in quanto ai domiciliari per condanna penale. I neonazi che cantano a squarcia­gola “Anna il forno ti aspetta”. I padroni proclamati tout-court “gli eroi del nostro tempo”. Il quarantatrè per cento dei gio­vani senza lavoro. La Lombardia che chiede l’esercito (Bava Beccaris?) contro gli abusivi. Il record degli emigranti anne­gati (3.419 nel 2014) di cui nessuno si fot­te. L’altra statistica di cui non frega niente a nessuno, gli ottantacinque miiardari (rapporto Oxfam) dal reddito equivalente a metà dell’intero pianeta. I cinque anni in meno di vita (secondo Inmp) dell’operaio medio rispetto al suo medio dirigente. I lavoratori che – secondo il premier – “cer­cano scuse per scioperare”. I centouno ammazzaprodi richiamati alle armi per scegliere il nuovo Re d’Italia, la carica di Presidente essendo ormai abolita da vari anni). I trentasei ragazzini cacciati a furor di popolo da casa loro, dal rifugio di legge in cui vivevano in pace. I cento giovani ariani – più disgraziati di loro – che gli ur­lavano contro, bravi piccoli hitlerjugend d’Italia.

E, naturalmente, la mafia.

Tutto ciò, a quanto sembra, è ormai pre­valentemente affar nostro. Nostro, come negli anni ’20, non di un partito o di una terra, ma di una generazione. Molti, po­chi? Non lo sappiamo, e non ha poi tanta importanza. I comunisti, i gobet­tiani, gli antifascisti veri e non retorici, furono po­che migliaia in quel momento; ma furono sufficienti.

Il difficile 2015

Ecco, uno dei motivi che ci renderanno difficile il 2015 ve l’abbiamo detto. Ma non erano due, i motivi? Dov’è l’altro?

L’altro motivo è che siamo ragazze e ra­gazzi comuni (qualcuno un po’ più grande degli altri…), dei precari dunque. Non sia­mo affatto sicuri di riuscire a portare a ter­mine entro oggi quel che do­vevamo fi­nire per stasera, di poter scri­vere il pezzo, di poter dare gratis le dieci ore di la­voro di cui abbiamo asso­luto bisogno per campa­re.

Abbiamo la più alta per­centuale di ca­merieri, di­stributori di pubblicità, fo­tografi di matrimoni, piz­zaioli avventizi e quant’ altro di tutta la storia gior­nalistica mondiale. Tuttavia siamo ragio­nevolmente convinti di vincere, anzi a dire la verità ne siamo del tutto certi.

Perché sappiamo benissimo – nei mo­menti in cui abbiamo il riposo e la calma per ragionare – che vincere o no, alla fine del gioco, dipende solo da noi. Abbiamo le risor­se umane (provate a vedere quanta gente è passata dalle parti dei Siciliani e dintorni in tutti questi anni), abbiamo uno strumento efficiente, il nostro tipo di gior­nalismo, e abbiamo una “politica” molto più concreta e realista delle altre, vale a dire l’antimafia sociale. Abbiamo solo un problema, l’estrema difficoltà di stare uniti (noi qui diciamo fare rete). Ma è un pro­blema comune a tutti i pezzi di avveni­re.

Fidarsi ciecamente l’uno dell’altro, coordinarsi le mosse, imparare a vicenda, fare il più gran spettacolo del mondo, volare insieme, alla fine. Impossibile? Eppure, tutti gli acrobati lo fanno.

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