lunedì, Ottobre 7, 2024
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Al nostro posto. Storie di donne che resistono alle mafie

Maria Carmela, Marti­na, Lucrezia, Ludovi­ca, Cinzia, Valentina. E molte altre così

Monasterace è un piccolo Comune sulla costa ionica, l’ultimo a rientrare geograficamente nella provincia di Reggio Calabria. In questo angolo di Italia nasce e cresce una storia simbolo della resistenza alle mafie nel nostro Paese. E a portarla avanti è una donna, Maria Carmela Lanzetta, per due mandati sindaco del suo paese, amministratrice che vive il suo impegno, anche oltre la politica: “Bisogna scegliere con chi avere a che fare, nelle amicizie e nella vita privata, sul lavoro e nelle proprie, relazioni e frequentazioni sociali”.

“La scelta –spiega Martina Panzarasa nel libro Al nostro posto. Donne che resistono alle mafie, scritto a quattro mani con Ludovica Ioppolo – secondo Maria Carmela è ciò che ti permette di essere libera, di svincolarti dalla ‘ndrangheta. Dai legami che ti costringono in gabbia e ti privano della possibilità di decidere di te stesso. Bisogna scegliere per essere liberi”. Maria Carmela ha visto bruciare la sua farmacia, ma –racconta nel libro– “il giorno dopo l’importante per me era garantire i farmaci ai cittadini”.

Con un occhio al merito, alla preparazione e l’altro ai diritti della persona, alla giustizia sociale, Maria Carmela è una delle tante donne che in Calabria e nel resto del Paese guidano amministrazioni locali, guardate a vista dalle cosche. La loro colpa principale è quella di voler far funzionare la macchina amministrativa con trasparenza, efficienza, qualità e diritti uguali per tutti. Aspirazioni davvero strane in territori a sovranità limitata, dove a governare non è solo lo Stato.

Accade al sud, ma anche al Nord. A Desio, in Lombardia, nel cuore della produttiva Brianza, Lucrezia Ricchiuti, donna “pratica e solare” ed oggi vicesindaco dopo dieci anni di opposizione nel consiglio comunale, ragioniera di formazione con “il culto delle regole”, studia i bilanci comunali, “guarda, vede, ascolta” quello che accade in Comune. Lo fa con curiosità e passione: vuol capire come funziona la macchina amministrativa che decide dei destini dei suoi concittadini, della loro qualità della vita, dei servizi alle persone. Lucrezia chiede che le regole vengano rispettate, che ci sia un uso consapevole del territorio in una provincia, quella di Monza e Brianza, che è la più cementificata d’Italia. La Direzione distrettuale antimafia, con le operazioni messe a segno negli ultimi anni, conferma quello che inizialmente per Lucrezia era solo un sospetto: un sodalizio illegale metteva in comunicazione l’ufficio tecnico del Comune con personaggi poco raccomandabili. E dietro si celavano gli affari dei boss.

Mafie, quelle descritte nel libro “Al nostro posto”, che arrivano al Nord e provano a riprodurre lo stesso “pacchetto criminale” già sperimentato al Sud: soldi, violenza, condizionamento, omertà. Tutte storie che Rosaria Capacchione, giornalista de “ll Mattino” , intervistata da Ludovica Ioppolo, ha visto con i suoi occhi e descritto nelle sue cronache, raccontando la violenza della camorra e l’ascesa criminale del clan dei Casalesi. Del suo lavoro, che l’ha portata a viso aperto contro i boss, racconta senza troppi fronzoli: “Io sto da una parte e loro da un’altra, quindi non abbiamo nessun tipo di confronto”. Ed è solo con il tempo –scrive la Ioppolo– che giornalismo e antimafia, per questa “giornalista – giornalista”, diventano un tutt’uno. Sino a farne oggi una memoria storica della storia dell’organizzazione criminale campana e una firma di eccellenza nel panorama giornalistico italiano.

È stato cosi anche per Cinzia Franchini, presidente nazionale della Cna Fita, una delle associazioni di rappresentanza degli autotrasportatori, che in Emilia-Romagna, uno dei territori di “approdo” criminale dei clan della camorra e della ‘ndrangheta, porta avanti due battaglie convergenti: quella contro i pregiudizi (“una donna a capo di una associazioni di autotrasportatori, mestiere a vocazione maschile?” – si sentiva dire) e quella contro le cosche, infastidite dalla sua scelta di trasparenza e etica nella gestione di un settore a forte rischio di infiltrazioni criminali, come dimostrano numerose operazioni delle forze dell’ordine. Una battaglia ancora oggi in corso e che ha portato avanti grazie ad altre donne -come Enza Rando, avvocatessa dell’ufficio legale di Libera- e ad una vasta rete di associazioni impegnate contro le mafie nel nostro Paese.

Essere a capo di una associazione di categoria come a capo di una azienda è già una sfida in un Paese come il nostro in cui, ai posti di comando, ci sono ancora quasi esclusivamente uomini.

È cosi per Valentina Fiore, “cervello in fuga” dalla Sicilia, preparata e determinata, appassionata di economia al servizio della collettività, che da Bologna, alcuni anni fa, sceglie di tornare in Sicilia. L’avventura le permette di tornare al Sud è quella della Placido Rizzotto, la prima cooperativa nata in Italia grazie alla legge sul riutilizzo sociale dei terreni dei boss. Dopo aver curato lo sviluppo e l’amministrazione della cooperativa Valentina è oggi direttrice di “Libera Terra Mediterraneo”, il consorzio imprenditoriale che riunisce alcune delle cooperative sociali nate sui terreni del clan. In una terra indebolita nelle sue risorse anche da una emigrazione forzata, Valentina è uno di quei miracoli possibili che i percorsi di antimafia sociale hanno fatto diventare realtà nel nostro Paese: con i suoi ricci neri e i suoi occhi intensi è una donna libera di stare “al proprio posto” a fare quello in cui crede e per cui ha studiato.

E proprio in Sicilia c’è una parte della vita di Maddalena Rostagno, intervistata nel libro da Martina Panzarasa. Di quella terra Maddalena è uno dei fiori più belli, sebbene sia nata altrove. La sua storia, diversa dalle altre raccontate nel libro, parla di memoria, impegno e di un padre, Mauro Rostagno, ucciso dalla mafia in Sicilia mentre si occupava della “difficoltà a vivere” per molti giovani tossicodipendenti, e come giornalista, dagli schermi della tv Rtc, denunciava gli intrecci fra malaffare locale e Cosa nostra. Depistaggi, lentezze, approssimazioni nelle indagini hanno lasciato questo delitto ancora senza giustizia e verità. In questi anni è in corso a Trapani il processo che vede imputati due mafiosi del mandamento trapanese. Nella stessa aula, a seguire il processo, Maddalena Rostagno e la madre, Chicca Roveri, compagna di vita di Mauro, esempio di donna che ha resistito al dolore, alle mafie, alle ingiustizie e oggi dedica il suo tempo agli altri, come Maddalena con il Gruppo Abele a Torino. Anche quella di Maddalena è una storia che racconta di una “scelta”: quella di restare libera e dalla parte degli ultimi.

Le storie di Rosaria Capacchione, Valentina Fiore, Cinzia Franchini, Maria Carmela Lanzetta, Lucrezia Ricchiuti, Maddalena Rostagno sono, nei titoli dei giornali, quelle de “il sindaco antimafia”, “la giornalista contro i boss”, “le donne coraggio”. Non lo sono, invece, nel libro di Ludovica Ioppolo e Martina Panzarasa, ed è una scelta di linguaggio che ne rivela una di analisi e metodo che ha pochi precedenti. Nelle oltre 100 pagine che raccontano dell’impegno antimafia di queste donne e, attraverso la loro storia, quella di tante altre, c’è uno spaccato di genere e di impegno antimafioso che sfugge alle classificazioni e agli stereotipi. Come scrive nella prefazione al libro il sociologo e giornalista Nando dalla Chiesa, “tutte queste donne a rifiutano l’immagine di donne antimafia. Fanno il loro dovere, ci mancherebbe, sindaco o vicesindaco, giornalista o autotrasportatrice, manager delle cooperative o creativa per il Gruppo Abele. Mica si tirano indietro. Non ci fosse la mafia starebbero bene, cento volte meglio. E alla mafia non vogliono legare la loro identità, perché nessuno ama specchiarsi in chi gli fa ribrezzo. Cose sante”.

Accanto all’impegno di queste donne, la memoria di molte altre che sono state uccise perchè affermavano il loro diritto ad una vita libera come mogli, madri, figlie, sorelle – le loro storie nel dossier “Sdisonorate” – c’è quello, non meno importante, dell’assunzione di responsabilità da parte di tutte le altre, quelle che non vivono in territori ad alta densità mafiosa, che non sono familiari di vittime di mafia ma che, come Ludovica Ioppolo e Martina Panzarasa, scelgono in questi anni di impegnare la propria vita, la loro professionalità, per tenere insieme il filo della memoria e quello dell’impegno, consapevoli che, anche attraverso la testimonianza, si possa rivendicare il diritto di stare “al nostro posto”. Quello che si sceglie liberamente.

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