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Voto di scambio: dall’origine dell’articolo 416 ter alle discrasie attuali con il 416 bis

Il voto di scambio è una pratica le cui origini vanno rintracciate andando indietro nel tempo. Tanto indietro da tornare almeno agli anni Cinquanta quando, in vista di appuntamenti elettorali, venivano distribuite “ratealmente” alla povera gente metà banconota o una scarpa prima della votazione e l’altra metà o l’altra scarpa dopo, a risultato ottenuto. Ma per comprendere l’attuale iter del testo che è rimbalzato tra le due Camere del Parlamento per la modifica dell’articolo 416 ter del codice penale occorre avvicinarsi nei decenni e andare in Calabria.

Il racconto di come è nato – ed è stato deformato – quel testo per come è stato in vigore prima della recentissima revisione è contenuto fra l’altro in un’audizione della Commissione Antimafia, presieduta ai tempi da Luciano Violante. A essere ascoltato è un magistrato, Agostino Cordova, allora a capo della Procura di Palmi, che alla vigilia delle elezioni politiche del 1992 aveva avviato un’inchiesta disponendo 180 perquisizioni che portarono a 136 indagati. Perquisizioni a cui se ne aggiunsero contestualmente altre 120 da parte della procura di Locri che era stata informata da Cordova della sua iniziativa. A seguito di esse venne trovato materiale elettorale di numerosi candidati appartenenti a svariati partiti nella disponibilità di soggetti indicati quali presunti affiliati a organizzazioni della criminalità organizzata.

Come ha ricordato lo stesso procuratore in vari interventi e articoli, l’ultimo dei quali pubblicato l’8 agosto 2013 sul Corriere della Calabria (“Il reato riscoperto”), non c’erano solo documenti propagandistici di numerosi partiti, a dimostrare una certa trasversalità nel condizionamento del voto politico, ma anche una serie di normografi, che, tuttavia, non erano normali righelli con traforate tutte le lettere dell’alfabeto, come quelli usati nelle scuole elementari. Qui, invece, erano riportati solo i nomi di determinati candidati. Si trattava, nella sostanza, di un sistema per “aiutare” gli analfabeti che, opportunamente “consigliati”, avrebbero potuto tenerseli in tasca, presentarsi al seggio e, una volta ottenuta matita copiativa e scheda, potevano entrare nella cabina elettorale e tracciare il nominativo dell’aspirante parlamentare che si era rivolto alle organizzazioni criminali per farsi mandare (o farsi riconfermare) al parlamento.

Le polemiche per questa indagine del 1992, condotta alla vigilia dell’appuntamento con il voto politico, non mancarono. Ma ebbero anche un effetto pratico che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto bloccare questo sistema. L’effetto fu appunto l’immediata introduzione dell’articolo 416 ter e l’integrazione del 416 bis che prevedeva a questo punto anche un passaggio specifico: “Impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali”. Problema risolto, dunque, basta con i favori elettorali? No, affatto, perché il nuovo strumento penale nasceva zoppo a causa di una differenza tra il disegno di legge originario e il testo che poi sarebbe stato approvato.

All’inizio, infatti, il ddl prevedeva la punibilità della “promessa di voti in cambio della erogazione di denaro, concessioni, autorizzazioni, appalti, contributi, finanziamenti pubblici o, comunque, di profitti illeciti”. Una formula che, come ripetutamente sottolineato sin da allora dallo stesso procuratore Cordova, poteva essere riassunta una dizione sintetica ed onnicomprensiva: bastava infatti aggiungere “altre utilità” dopo il riferimento al versamento di denaro. Ma quelle “altre utilità” divennero oggetto di contestazioni da parte del ministero di Giustizia, al cui vertice allora c’era Claudio Martelli, perché – secondo la valutazione di autorevoli collaboratori del suo dicastero – avrebbero potuto dar luogo a “interpretazioni diverse ed eventualmente persino ad arbitrii”. Sic. Allora meglio, sempre secondo quanto poi approvò il parlamento oltre vent’anni fa, limitarsi al solo interesse pecuniario diretto.

Di fatto, limitarsi all'”erogazione di denaro” fu un evidente vantaggio per le mafie, perché, come hanno testimoniato molte indagini succedutesi nel corso del tempo non solo nel Mezzogiorno, ma anche nelle regioni settentrionali, l’interesse che portava a dirottare il voto si legava esclusivamente all’aggiudicazione di appalti pubblici, assegnazione di finanziamenti nazionali ed europei, modifiche a piani regolatori o variazioni urbanistiche, solo per citare alcune delle “altre utilità” sulle quali nel 1992 si temevano “arbitrii”. Un ripensamento, da questo punto di vista, sembra esserci stato a ben due decenni di distanza. Due decenni trascorsi tuttavia nell’assoluto e inspiegabile silenzio dei pubblici censori e nonostante gli inascoltati rilievi di Cordova. Ma ancora una volta si tratta di un ripensamento travagliato che è andato avanti per oltre 400 giorni, tanti ne sono trascorsi dalla presentazione del testo da riformare, e che per quattro volte è passato – con reciproci emendamenti – al vaglio di Camera e Senato, il quale ha deciso definitivamente il 16 aprile 2014.

L’ultimo rimbalzo, prima del voto finale, è dello scorso 3 aprile quando Montecitorio ha licenziato un testo trasmesso il giorno successivo a Palazzo Madama con una modifica non da poco sulla pena rispetto a quella approvata in precedenza dal Senato, che a sua volta aveva modificato il primo testo della Camera: la riduzione di quella pena per chi “accetta la promessa” di voti (cioè il politico) da 4 a 10 anni di reclusione contro i 7-12 previsti dal Senato, riduzione estesa anche a chi effettuava la promessa. Dunque, con la delibera del 16 aprile 2014 il Senato ha mutato opinione rispetto a quella espressa prima, adeguandosi alla modifica della Camera. Il risultato finale è quindi quello dell’approvazione definitiva della riduzione di pena.

Ma non è tutto. Come il procuratore Cordova aveva ripetutamente rilevato, esiste un vistoso contrasto con l’articolo 416 bis. Il quale punisce con la reclusione da 7 a 12 anni (e da 9 a 14 per i promotori, i dirigenti e gli organizzatori dell’associazione) l’acquisizione, la gestione o il controllo di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici. Allo stesso modo punisce chi si adopera per realizzare profitti o vantaggi ingiusti (le “altre utilità”, finalmente riscoperte) per sé o per altri, e chi procura voti per sé o per altri in vista di competizioni elettorali. Inoltre tali pene erano state aumentate nel 2008 rispetto a quanto previsto nel 1992 e oggi, a valle di quanto raccontato fino a qui, ecco che si delinea una palese contraddizione. Contraddizione che emerge dal fatto che il politico – ma non solo lui, anche il mafioso – che richiede o accetta voti è punito con il carcere da 4 a 10 anni.

A questo punto sorge una domanda, che trova eco nei rilievi già formulati in passato da Cordova: chi richiede o accetta il procacciamento di voti non concorrerebbe esternamente nel reato di associazione mafiosa di cui all’articolo 416 bis? Se la risposta fosse positiva, ecco allora stagliarsi con maggior evidenza la discrasia appena spiegata. Una discrasia che, a maggior ragione, sussisterebbe per il procacciatore mafioso, punibile con pene dai 7 ai 12 anni (e non da 4 a 10). Se poi ci spostiamo sul piano dei capi delle cosche, che spesso si attivano in fenomeni in questo genere, allora ecco che gli anni di reclusione crescono ancora, arrivando da 9 a 14. Infine un’ulteriore annotazione: con l’originaria formulazione del 416 ter: chi pagava in denaro il voto commetteva un reato meno grave rispetto al “pagamento” con “altre utilità”, azione inquinante l’attività della pubblica amministrazione e la concorrenza tra gli operatori privati; eppure era punibile con i già citati 7-12 anni.

Che fare quindi di fronte a questa serie di incongruenze? Il presidente della Repubblica, in base all’articolo 74 della Costituzione, invece di promulgare la legge può rimandarla alle Camere per una nuova delibera. In alternativa, c’è lo strumento del referendum abrogativo, che prevede la raccolta di 500 mila firme. Ma di quest’ultimo mezzo a disposizione dei cittadini chi ha fatto opposizione non ha fatto cenno. Almeno non finora. Che sia il caso di prenderlo in considerazione?

Antonella Beccaria

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