venerdì, Aprile 26, 2024
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Un sindaco “bene comune”?

Un candidato anomalo in una “normale” cata­strofe: come finirà?

Renato Accorinti, professore di edu­cazione fisica, è diventato – in qua­rant’anni di battaglie civili, pacifiste e ambientali­ste – quasi un’icona dell’impegno disinte­ressato e della po­litica fatta per passione, in strada.

Renato era a Comiso negli anni ottan­ta, era a Messina quando i quattro gatti che si opponevano allo scempio del Pon­te sullo Stretto sono piano piano diventa­ti ventimila e poi sempre di più. E’ stato con i rom e tutti gli emarginati, con le vittime di mafia come Graziella Campa­gna e Attilio Manca, con i ragazzi e le ra­gazze del Teatro Pinelli Occupato.

Nel campetto di atletica “ Santamaria “ ex Gil, in quella che una volta era la peri­feria sud di Messina, ha allenato genera­zioni di giovani atleti che lo ricordano più come un maestro di vita che come un semplice trainer. Come le centinaia di ra­gazzi che lo hanno avuto per insegnante alle medie, in ore che – fra una canzone di de Andrè e un ricordo di Don Milani- sono state molto più che semplice scuola dell’obbligo.

La candidatura a sindaco di Renato Ac­corinti matura in un momento drammati­co della storia messinese. In una città an­cora una volta commissariata, dopo un’amministrazione di centrodestra sui cui uomini si addensa un fondato giudi­zio di assoluto disinteresse per il bene comune, tremila cittadini dalle più varie estrazioni sociali e culturali, firmano una petizione in cui gli chiedono di mettere la faccia per la prima volta anche in una battaglia franca ed esplicita di conquista delle istituzioni.

E’ l’autunno 2012, quel­lo dello Tsuna­mi grillino e dello sfacelo politico: il Pd pensa al fidanzamento con l’Udc speri­mentato a Palazzo dei Nor­manni, persino Sel di Nichi Ven­dola (che Renato non ha mai na­scosto di apprezza­re) si limita a ri­volgergli un appello a partecipare alle primarie. Finisce che, dopo un momento di incertezza, Accorin­ti, in una fredda mattina di gennaio, an­nuncia la sua corsa in soli­taria a una emozionata e gremita platea, nel Salone delle Bandiere del mu­nicipio di Messina.

Da quel giorno è un crescendo di ade­sioni e di iniziative. Renato batte, come del resto ha sempre fatto per le innume­revoli cause per cui si è impegnato, stra­de e villaggi. Uno per uno. Rifondazione Comunista è con lui, così come la galas­sia del sindacalismo di base e del movi­mentismo messinese. Ma questo schiera­mento non si cristallizza in un’etichetta. Aderiscono a “Cambiare Messina dal Basso” (come la li­sta di Accorinti s’è vo­luta chiamare) soggetti e personalità non riconducibili al piccolo mondo della sini­stra antagonista. Molto volonta­riato cat­tolico, molti gruppi parrocchiali di peri­feria, intellettuali miti e ragionatori come l’economista Guido Signorino, la “men­te” accademica del movimento. E soprat­tutto la cosid­detta gente comune.

Mai prima d’ora a Messina, per strada, nei mercatini riona­li, nei villaggi in colli­na, un candidato dal look così aperta­mente “alternativo” era stato applaudito o perlomeno ascoltato senza pregiudizi quanto Renato Accorinti.

Ma perché un uomo che a sessant’anni mantiene l’aspetto gioioso e un po’ naif degli hippies anni 60 riscuote un succes­so così vasto in una città in fondo provin­ciale e venata di bigottismo come Messi­na? Sicuramente c’entra molto la crisi del vecchio sistema di potere. Po­tenti clientele mantenute nel corso dei decenni con un sapiente controllo della spesa pubblica sono in affanno per le ri­cadute della crisi del debito sulla realtà siciliana.

Il clan di Totò Cuffaro e quello – tutto sommato omologo – di Raffaele Lombar­do sono crollati sotto i colpi delle inchie­ste giudiziarie e soprattutto per il pro­sciugamento delle risorse che alimenta­vano stipendifici e fabbriche di pri­vilegi.

Il welfare locale, mai di alto livello, è definitivamente entrato in affanno a cau­sa dei debiti che stanno portando le fi­nanze del Comune sull’orlo del default. a città è quoti­dianamente percorsa da cor­tei e punteg­giata da presidi di lavora­tori disperati, che non hanno più nemme­no una contro­parte con cui scon­trarsi. I pun­ti di maggior sofferenza si chiama­no Ser­vizi sociali, Teatro Vittorio Ema­nuele, Birra Messina, ATM (trasporti pubblici).

In questo quadro drammatico il Partito che fu di Bersani non ha saputo nè volu­to candidarsi a rappresentare un’alterna­tiva credibile, preferendo il piccolo cabotagg­io degli accordi coi pezzi del vec­chio po­tere in fuga da posizioni discredi­tate.

Se a livello regionale questa strate­gia si è concretata nell’esperienza per certi versi anomala della giunta Crocetta, a Messina la proposta po­litica del PD in sostanza consiste nel patto fra i due gol­den boys dei giovani Dc anni ’80: Fran­cantonio Ge­novese e il neo-ministro Giam­piero D’Alia. Troppo poco per una sini­stra priva di memoria e marginale, e so­prattutto troppo poco per una città in cui si vive male, da cui i giovani fuggono a gambe levate.

Accorinti ai messinesi parla di cose an­tiche come la politica come servi­zio, la dignità, la qualità della vita. Quan­do rac­conta delle scuole materne di Reg­gio Emilia o delle biblioteche pubbliche ber­linesi allude a cose che in un paese ci­vile sarebbero persino banali ma che in riva allo stretto sembrano fantascienza.

I cittadini, però, sembrano credergli dav­vero. Forse perché prima delle parole astratte l’esperienza politica di Renato è costruita sulla quotidianità di una perso­na che parla come pensa e agisce allo stesso modo.

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