giovedì, Ottobre 3, 2024
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Senza lager, senza paura

Scicli, avamposto della nuova accoglienza

Arriviamo a Scicli che è già buio. Da fuori, il centro, gestito dalla comunità metodista cittadina, si presenta come un bell’edificio, colorato e con larghe vetrate.

Se fossimo passati da qui poche settimane prima, però, avremmo visto le saracinesche all’ingresso imbrattate da scritte inneggianti alla chiusura dello stabile. A fine ottobre, infatti, a pochi giorni dall’inaugurazione, la struttura è stata presa di mira da un attacco di matrice neofascista, all’ombra del quale si celano i risentimenti di una sparuta fetta della popolazione sciclitana, avversa all’idea di un centro d’accoglienza nel cuore della città.

Ad accoglierci, nell’ampio ingresso, è Giovannella Scifo, responsa­bile del pro­getto. Chiediamo dell’intimidazio­ne fasci­sta, “Alcune persone non hanno mai ama­to l’idea di un centro d’accoglienza nel cuore di Scicli -racconta Giovannella- e così a novembre sono comparse le scritte sulle serrande fuori dal centro. Di fatto, comun­que, abbiamo vissuto meglio del previsto questa cosa, perché la dimostra­zione di solidarietà da parte della cittadi­nanza è stata piuttosto forte”.

“Dietro al no­stro centro – continua – non ci sono sol­di pubblici. Noi non siamo uno SPRAR, è la Chiesa valdese e meto­dista che ci so­stiene.”

– Com’è nato il progetto?

“L’ha proposto la Federazio­ne delle Chiese evangeliche d’Italia, che raccoglie larga parte delle confessioni evangeliche italiane: si tratta a tutti gli effetti di un piano nazionale. Poi la Chiesa valdese e metodista, che fa parte della Federazio­ne, ha deciso di finanziare il progetto con l’otto per mille.

“Speranza Mediterranea” 

Siccome la Chie­sa valdese e metodista non investe per la propria cura religiosa, i ricavi dell’otto per mille vengono intera­mente desti­nati alle opere sociali sia in Italia che all’estero. Il proget­to presentato dalla Fe­derazione si chiama “Mediterranean Hope” ed è diviso in due azioni: una è un osser­vatorio sulla migra­zione a Lampedusa, e l’altra è questa Casa delle Culture di Scicli.”

– In cosa consista l’attività del centro?

“Credo che l’integrazione non possa passare solamente attraverso l’accoglienza residenziale ecco perché abbiamo deciso di curare anche l’aspetto culturale. Vogliamo sperimentare uno stile di accoglienza che sia diverso, attraverso la fusione del cen­tro d’accoglienza con il centro culturale. In questo senso potremmo definirci avan­guardisti. La nostra attività consiste in­nanzitutto nel fornire alle persone che vengono al centro un ‘luogo sicuro’ proprio perché il target a cui ci riferiamo sono i minori, le donne incinte, le famiglie: le persone più vulnerabili, insomma. In secondo luogo cerchiamo di integrare nel più breve tempo possibile le persone che stanno al centro, sia attraverso il corso di italiano, sia con le convenzioni stabilite con le scuole di Scicli. In genere, facciamo anche dei colloqui con i ragazzi, per capire quali sono i bisogni e le aspettative di chi abbiamo di fronte.

Tutti i ragazzi che stanno qua hanno un progetto di vita e noi dobbiamo trovare il modo di realizzar­lo. C’è chi vuole fare il rapper, chi vuole giocare al pallone e di­ventare il nuovo Pelè e chi semplicemente vuole andare a Roma per studiare. Sono progetti legittimi e che vanno spronati: se a Roma c’è un centro minori, ma­gari non proprio a Tor Sapienza – qui un sorriso ironico – noi non possiamo far altro che aiu­tare il ragazzo a trasferir­si.”

– Quante persone sono ospitate qui?

“Potremmo accoglierne fino a trenta, ma attualmente qui abitano diciotto persone: quattordici minori, tre adulti e una bambina di appena quindici giorni. 

I ragazzi che vivono qua sono quelli classificati “particolarmente vulnerabili”, ecco perché non vengono lasciati al centro di Pozzallo, dove manca perfino l’acqua calda e le condizioni sono al limite dell’umano. Questi ragazzi hanno una sto­ria particolarmente dura alle spalle: i siria­ni, ad esempio, se vengono lasciati da soli possono diventare violentissimi, proprio per l’esperienza che hanno subito.

Al centro c’è soltanto un ragazzino si­riano, il più piccolo. A volte col cellulare ci fa vedere le foto della sua casa in Siria, con la piscina e la villa, e ora ha perso tut­to. I suoi genitori, per salvarlo, lo hanno fatto imbarcare a forza, mentre loro sono rimasti là. Due dei tre adulti, poi, marito e moglie, sono nigeriani e sono partiti con la speranza di poter ritrovare il figlio che era stato fatto partire poco tempo prima e che ora si trova in affidamento in una fa­miglia a Floridia, in provincia di Siracusa.

A Floridia, però, non c’è un centro d’acco­glienza, quindi fino a quando, la commis­sione territoriale non darà loro un permes­so scritto, non potranno lasciare Scicli e ricongiungersi col figlio.”

– Siete voi a curare gli aspetti giuridici e burocratici degli ospiti del cen­tro?

“Sì, per forza, ma purtroppo non c’è una definizione esatta del nostro modello di centro, anche perché non esiste una legge specifica neanche sugli Sprar, visto che i requisiti sono vari e vaghi. Nella stessa guida ministeriale non c’è nulla di specifi­co, l’unica cosa che è specifica è che la cucina deve essere a norma di HACCP, che è l’unica norma chiara. Dopodiché ci sono i metri quadrati, ci sono altri para­metri, ma sono molto limitati. Noi ci atte­niamo alla legge regionale che disciplina i centri ricettivi, gli alberghi e la case di ri­poso, però non c’è una legge specifica sui centri d’accoglienza, per questo poi si ve­rificano casi gravi come il Cara di Mineo o il centro di Pozzallo”.

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