giovedì, Aprile 25, 2024
-mensile-

Quella camurrìa” di Rostagno!

Ventiquattro pagine: una ordinanza che non riapre il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, non scrive nuovi scenari, non cancella le ipotesi dell’accusa, il delitto di mafia, l’omici­dio ordinato dal patriarca belicino Francesco Messina Denaro, il killer, Vito Mazzara, mandato ad uccidere dal capo mafia del mandamento di Trapani Vincenzo Virga.

 

C’è sempre qualcuno a dire che quello di Rostagno non fu un delitto di mafia. E’ successo anche dinanzi ad un’ordinanza che invece, se letta bene, svela l’unico in­tento della Corte di Assise di Trapani, e cioè quello di avere un quadro ben chiaro. La Corte ha messo nero su bianco la pro­pria convinzione che tante delle cose ascoltate durante le quarantuno udienze ed i quasi due anni di processo possono esse­re perfettamente vere e vanno, semmai, approfondite. L’ ha fatto con le previsioni dell’art. 507 del codice che prevede, finita l’escussione dei testi, la possibilità di esa­minare nuovi testi o documenti in qualche modo richiamati nella prima fase.

Ci sono state le richieste delle parti, la pubblica accusa che ha puntato dritto con­tro il presunto killer, Vito Mazzara, sicario conclamato della mafia trapanese; ci sono state le richieste delle parti civili a propo­sito delle indagini giornalistiche svolte da Rostagno nel territorio e con la indicazio­ne di alcune fonti; ci sono state le richieste delle difese degli imputati, che hanno pun­tato essenzialmente a introdurre altri sce­nari (corna tipo “Beautiful”, traffici d’armi, Gladio, l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin).

A tutte le richieste la Corte ha concesso tanto, ma il grosso dell’ordinanza è frutto delle valutazioni proprie dei giudici, togati e popolari. Le richieste della Corte guarda­no verso una unica direzione: le colpe del­la mafia nel delitto, ipotesi che resta il ful­cro del processo. “Rostagno, una camurr­ìa”, diceva passeggiando sotto gli aranci del suo giardino il boss di Castelvetrano Ciccio Messina Denaro. Non è escluso che a commettere quel de­litto la sera del 26 settembre 1988 sia an­dato anche suo fi­glio, l’attuale latitante Matteo Messina Denaro, uno che con Vito Mazzara spesso andava a sparare – e per uccidere. Perché quell’ordine partito da Castelvetrano? Per­ché Rostagno aveva puntato l’attenzione in quel 1988 sulla ma­fia belicina, seguen­do il processo per un delitto eclatante, quello dell’ex sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, ammazzato otto anni prima.

Nell’esordio dell’ordinanza i giudici co­minciano subito ad approfondire. Sono stati chiesti atti su perizie balistiche di armi usate da Cosa nostra, trovate all’imputato Vito Mazzara, nochè le peri­zie relative all’omicidio del giudice trapa­nese Alberto Giacomelli, ucciso per ven­detta (era già in pensione) per ordine di Totò Riina. Qualche giorno prima, nelle campagne di Trapani era diventata defini­tiva una confisca, disposta a suo tempo da Giacomelli, contro il fratello di Totò Riina.

Nel corso del processo è emerso con forza il livore dei capimafia contro Rosta­gno: ne hanno parlato diversi collaboratori di giustizia come Angelo Siino e Giovanni Brusca. Il segnale era arrivato anche all’editore di Rtc, la tv dove Rostagno la­vorava. All’imprenditore Puccio Bulgarel­la (deceduto da poco)il pentito Siino ha detto di avere riferito che Rostagno stava “dando fastidio”; la moglie di Bulgarella, prof. Caterina Ingrasciotta (che verrà ria­scoltata dai giudici), ha detto che si coglie­vano fastidi “nei salotti” della città. Un giornalista di Rtc, Ninni Ravazza, a dibat­timento e non prima, si è ricordato che un giorno Bulgarella irruppe in redazione, as­sente Rostagno, per dire, e non con buone maniere, che era ora di abbassare certi toni.

I giudici vogliono conoscere gli affari di Bulgarella, le indagini che lo hanno ri­guardato, gli appalti truccati ai quali la sua impresa avrebbe partecipato, sempre rac­comandato da Cosa nostra. Aveva la stan­za vicinissima a quella di Mauro Rosta­gno: se Peppino Impastato a Cinisi condu­ceva le sue battaglie a cento passi dalla casa di don Tano Badalamenti, Rostagno faceva tv a cinque passi dalla stanza dove di tanto in tanto arrivava Angelo Siino, l’emissario più vicino all’allora latitante Totò Riina. 

La Corte di Assise ha deciso di guardare negli armadi dei segreti sui traffici di armi passati per Trapani, e in quelli delle inda­gini sul Gladio trapanese: verranno sentiti il senatore Massimo Brutti, che a livello nazionale per il Pci si occupò di Gladio, l’ex vice presidente dell’Ars Camillo Oddo, che da segretario del Pci a suo tem­po fece un documento legando il delitto Rostagno a Gladio, ed i più alti ufficiali di Gladio, Piacentino, Fornaro e Martini – se ancora in vita – ed è stato chiesto alla Pro­cura di depositare senza omissioni il ver­bale di interrogatorio del capo centro Vin­cenzo Li Causi, morto misteriosamente durante una missione in Somalia proprio mentre i magistrati di Trapani si appresta­vano a risentirlo.

La difesa ha molto insistito su questi aspetti (ma non sono state ammesse testi­monianze eccezionali come quella dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro): non fu un delitto di mafia, ma un delitto ordito da altre entità perché Rostagno ave­va scoperto affari segreti dei “servizi se­greti”. La Corte vuole scanda­gliare anche questo terreno, ma anche in questo caso l’ombra della mafia c’è: è sta­to il pentito Sinacori a fornire un dato sto­rico, che Cosa nostra nei traffici di armi c’è sempre entrata. E quindi Rostagno po­teva essere diventato una “camurrìa” -come andava sbraitando il patriarca della mafia France­sco Messina Denaro – perché avrebbe po­tuto mettere gli occhi su questi interessi. 

Intanto però c’è una smentita rispetto alla storia che lui, in compagnia di una donna, avrebbe scoperto un atterraggio se­greto su un aeroporto chiuso (Chinisia o di Milo, tutti e due in punti opposti ed esterni rispetto al centro urbano trapanese): la donna che lo accompagnava, Leonid Heuer, moglie di un generale dei servizi segreti, Angelo Chizzoni, sentita di recente a verbale, ha smentito di avere mai cono­sciuto Mauro Rostagno. Verrà il giornali­sta Sergio Di Cori (palesatosi d’improvvi­so amico di Rostagno e suo buon conosci­tore nell’estate del 1996, quando la Polizia arrestò per favoreggiamento la compagna di Mauro, Chicca Roveri, e per omicidio una serie di ospiti di Saman: la pista cosid­detta interna totalmente caduta) a dire come seppe di quel traffico e come parlò con Rostagno, cosa gli disse il giornalista, a lui, amico fidato, “all’insaputa dei fami­liari di Mauro”.

Ma tutto questo si troverà nella parte fi­nale dell’ordinanza, perché prima di arri­vare a questi punti la Corte di Assise ne ha posti altri, come la necessità di interroga­re Giacoma Filippello, compagna del boss campobellese Natale L’Ala, mafioso e massone, ammazzato dai suoi rivali cor­leonesi dopo tre tentativi andati a vuoto, che prima di morire avrebbe incontrato Rostagno e a lui avrebbe svelato segreti della massoneria.

In secondo piano è passata la circostan­za che Rostagno aveva ottenuto informa­zioni importanti proprio sulle logge segre­te trapanesi, come le ripetute presenze nel trapanese del gran maestro della P2 Licio Gelli: se questa conoscenza oggi sembra poca cosa mentre all’epoca l’Italia veniva attraversata da strane trame, forse si com­mette un grave errore di sottovalutazione. E’ Licio Gelli in quegli anni a “benedire” con il rito massonico la loggia segreta di Trapani dove si troveranno iscritti mafiosi, politici, burocrati, banchieri, colletti bian­chi, professionisti, funzionari di prefettura, questura, loggia frequentata da cardinali e anche da emissari di Gheddafi.

La Corte di Assise vuole sapere di più sull’omicidio di Vincenzo Mastrantonio, ammazzato pochi mesi dopo Mauro Rosta­gno. Mastrantonio era il tecnico dell’Enel che faceva le manutenzioni a Lenzi, sul luogo del delitto, e quel 26 settembre 1988 c’era buio nella zona, un corto circuito aveva spento i fanali: ma Mastrantonio era anche l’autista di Vincenzo Virga, e il pen­tito Milazzo ha detto che fu ucciso perché non era capace di tenersi dentro i segreti, e con lui parlò del delitto di Mauro Rosta­gno. Per questa ragione in aula tornerà l’ex capo della Mobile di Trapani, oggi questore di Piacenza, Rino Germanà.

Si colloca ugualmente nel filone degli appalti mafiosi l’approfondimento investi­gativo su mafia e riciclaggio dei rifiuti che proprio in quel 1988 conosceva il suo api­ce: il boss Vincenzo Virga, che gestiva tranquillamente un impianto di riciclaggio costruito a Trapani con finanziamenti pub­blici, andava dicendo sornione: “trasi munnizza e nesci oro”.

 Nomi eccellenti quelli che la Corte vuo­le pure sentire, come il giornalista Corrado Augias che dedicò una puntata della sua serie “Telefono Giallo” al delitto Rostagno quando si parlava tanto di pista interna, o ancora i giornalisti Palladino e Scalettari, che di recente sul Fatto Quotidiano hanno scritto di contatti tra servizi segreti e uno dei sospettati del delitto, poi archiviato: Giuseppe Cammisa, il famoso Jupiter, braccio destro del guru Francesco Cardel­la. Anche Cammisa la Corte vuole sentire, così come il giornalista maltese Stagno Navarra che si occupò degli interessi ille­citi a Malta del guru Cardella. Ed infine la giornalista Valeria Gandus, per delle di­chiarazioni rese mentre la Procura di Tra­pani indagava sulla pista interna.

Siamo a quasi due anni dall’inizio del processo (prima udienza 2 febbraio 2011). Si sono tenute sino al 14 dicembre 41 udienze, la prossima è il 18 gennaio, e nel frattempo si attende il deposito di una super perizia a proposito dei reperti che vengono ricondotti all’abile tiratore Vito Mazzara, campione di tiro a volo della na­zionale italiana e tiratore scelto della ma­fia trapanese, molto bravo ad ammazzare cristiani. La Corte di Assise con la sua or­dinanza vuole ancorare a precisi riscontri fatti dibattimentali molto importanti, a co­minciare dalla cosiddetta firma di Cosa nostra su quelle cartucce che Vito Mazzara era solito sovraccaricare e sparare a freddo per sovrapporre diverse striature. Lui che poteva permettersi di girare con il suo fu­cile calibro 12 in auto, pronto ad andare ad uccidere per ordine dei boss, se fosse stato fermato avrebbe detto che stava andando ad esercitarsi per la sua passione sportiva pluripremiata, e invece, come hanno rac­contato i pentiti, spesso andava ad uccide­re in compagnia di Matteo Messina Dena­ro o ancora con coperture eccellenti come quella dell’allora consigliere comunale del Psi Franco Orlando che, sebbene condan­nato per mafia, fu assolto dalle accuse di avere partecipato a delitti.

Però c’è un giallo da risolvere: la scom­parsa di un proiettile calibro 38 dai reperti. Un proiettile estratto dal corpo di Mauro Rostagno durante l’autopsia. Mistero, gial­lo, c’è una indagine in corso ma sembra che se qualcuno abbia voluto togliere di mezzo una prova: di fatto di quel proiettile esistono fotografie che pare siano più niti­de del proiettile stesso, e poi con la perizia su Mazzara non c’entra nulla.

Potrebbe en­trarci con qualche altro ac­certamento ora chiesto dalla Corte, tra le comparazioni per le quali i giudici hanno mostrato atten­zione e curiosità non fine a se stessa ma per potere giudicare. Se ciò è vero, quella sparizione potrebbe essere stata frutto di una azione preventiva, non per aiutare agenti di servizi segreti, gladia­tori o altro, ma solo e sempre mafiosi, per­ché i delitti sui quali la Corte ha puntato attenzione sono omicidi di mafia, decisi dalla cupola, la stessa che volle Rostagno morto.

Ma diamo tempo al tempo, la Procura di Marcello Viola sta indagando e il giallo non resterà tale ancora per molto. Intanto, scorrendo l’ordinanza della Corte di Assi­se è difficile che il processo Rostagno pos­sa concludersi nel 2013.

Si arricchirà ancora di ulteriori elementi lo scenario trapanese di quel 1988. Un puzzle che si va componendo, presentando elementi molto attuali. Il processo Rosta­gno ci sta raccontando la Trapani di 25 anni fa, ma molte cose oggi sembrano proprio le stesse. A cominciare dalle dele­gittimazioni e dai falsi gialli grazie ai quali mafia e poteri forti hanno piantato qui sal­de radici. E Mauro Rostagno era una “ca­murrìa” perché le sue denunce irridevano quella mafia che non era più fatta da con­tadini ma da menti fine.

salvatore.ognibene

Nato a Livorno e cresciuto a Menfi, in Sicilia. Ho studiato Giurisprudenza a Bologna e scritto "L'eucaristia mafiosa - La voce dei preti" (ed. Navarra Editore).

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