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Neutrini: ottant’anni di ricerche

Tra speranze e delusio­ni alla ricerca di neutri­ni emessi dal Sole. Ras­segna di ricerche fatte sino al 1980 (parte seconda)

Nella prima parte di questo servizio (I Siciliani giovani, n.7, luglio-agosto 2012, p. 68) ho trattato le ricerche che con­dussero alla prima rivelazione dell’anti­neutrino, annunciata erroneamente da Cowan e Reines nel 1956 come prima ri­velazione del neutrino e ho ricordato che prima del 1956 era stata ipotizzata l’esistenza del neutrino ma non quella dell’antineutrino e questa è la ragione dell’errore di Cowan e Rei­nes.

Ho anche scritto che gli antineutrini ri­velati da Cowan e Reines erano stati emes­si da una sorgente terrestre, più precisa­mente da un reattore nucleare situato a Sa­wannah River (U.S.A.). In questa seconda parte mi occuperò di alcuni tentativi di ri­velare i neutrini (o gli antineutrini) emessi dal sole in varie reazioni nucleari. La co­munità scientifica è pervenuta gradual­mente a condividere il convincimento dei pochi e ostinati ricercatori che conduceva­no queste ricerche che i neutrini rivelati nel corso di questi tentativi fossero stati emessi dal sole, perché per più di un de­cennio, a partire pressappoco dal 1970, al­cune previsioni ottenute facendo uso dei modelli impiegati non andavano d’accordo con i risultati sperimentali. Eppure questi modelli si basavano non solo su teorie ac­cettate ma anche su altri risultati speri­mentali.

L’esperienza ha mostrato che le reazioni nucleari, che l’umanità ha cominciato a conoscere grazie ai lavori di Rutherford a partire dal secondo decennio del XX seco­lo, e che successivamente sono state stu­diate da diversi altri ricercatori, possono dar luogo ad emissione di energia in misu­ra molto più grande di quella che ha luogo nei processi precedentemente conosciuti, come per es. le reazioni chimiche.

Nelle reazioni chimiche la massa totale dei prodotti non differisce in modo ap­prezzabile dalla massa

totale dei reagenti, ciò invece non succe­de in generale nelle reazioni nucleari.

Si definisce come Q di una reazione nu­cleare la grandezza

Q = (Massa iniziale – Massa finale) c2

dove

C = 299.792.458 m/s

è la velocità della luce nel vuoto, Massa iniziale è la massa totale dei reagenti e Massa finale è la massa totale dei prodot­ti.

Vale la relazione (che segue subito da una legge formulata da Einstein nel 1905):

Q = Energia cinetica finale – Energia cinetica iniziale

Dove Energia cinetica finale è l’energia cinetica totale dei prodotti e Energia cine­tica iniziale è

l’energia cinetica totale dei reagenti.

In opportuni processi un sistema mate­riale può cedere parte della sua energia ci­netica

all’ambiente. Se il sistema costituito dai prodotti di una reazione cede all’ambiente l’energia Q senza che avvengano altre tra­sformazioni, allora la sua energia cinetica ritorna al valore iniziale, cioè a quella che era l’energia cinetica totale dei reagenti.

Per dare un’idea quantitativa del fatto che l’energia che può essere emessa in se­guito ad una

reazione nucleare è molto più grande di quella che può essere emessa in seguito ad una reazione chimica porto l’esempio di una fissata reazione chimica e di una fissa­ta reazione nucleare. Esprimo i valori delle grandezze fisiche e dei numeri con un er­rore relativo minore dell’ 1%.

Come esempio di reazione chimica con­sidero la combustione di due moli di mole­cole di idrogeno gassoso con una mole di molecole di os­sigeno gassoso, il prodotto è costituito da due moli di molecole di acqua allo stato gassoso. La reazione è esotermica. Ste­chiometricamente la reazione è rappresen­tata dalla formula:

2 H2 +O2 = 2 → 2H2O.

La massa dei reagenti è costituita da 4 g di idrogeno e 32 g di ossigeno, la massa dei prodotti è costituita da 36 g di acqua. In condizioni standard, cioè a pressione costante di 1 atmosfera e temperatura co­stante di 298 K, la quantità di calore che il sistema cede all’ambiente è di 572 kJ.

La reazione nucleare che porto come esempio è la seguente:

D+T → He4 + n

nella quale D (deuterio) e T (trizio) sono isotopi dell’idrogeno e n è il neutrone.

Il Q della reazione è

Q = 17,6 MeV.

Da questi dati si ricava facilmente che se da una mole di atomi di deuterio che reagisce con una mole di atomi di trizio si ottiene una mole di atomi di più una mole di neutroni n, allora il sistema che reagisce può cedere all’ambiente 169 × kJ. Pertanto 5 g di reagenti costituiti da 2 g di deuterio più 3 g di trizio che reagiscono secondo la reazione nucleare dell’esempio possono cedere all’ambiente circa 2954545 volte l’energia che può essere ceduta all’ambiente da 36 g di reagenti che reagi­scono secondo la reazione chimica del re­lativo esempio.

I vari tentativi oggi noti, volti a spiegare l’emissione osservata di energia da parte del Sole, fatti a partire dagli antichi Egizi fino a circa cento anni fa, davano per la durata della “vita” trascorsa dal Sole in condizioni simili a quelle attuali valori estremamente più piccoli di quelli che si potevano stimare sulla base di altre consi­derazioni, per es. osservazioni geologiche e teorie sulla evoluzione delle specie (Frank Close, Neutrino, Raffaello Cortina Editore, ISBN 978-88-6030-452-0, capitolo 4) . I valori misurati dell’energia emessa in varie reazioni nucleari lasciavano sperare che la spiegazione di una durata dell’emissione di energia solare compatibile con diverse informazioni, quali per es. quelle riguardanti la geologia e la paleontologia, si potesse trovare in reazioni nucleari che avevano avuto e che avevano luogo nel Sole.

Nel 1920 (cioè dieci anni prima che Pauli formulasse l’ipotesi del neutrino) Francis Aston, in seguito a esperienze da lui compiute, aveva osservato che la massa di un atomo di elio è di 1/120 più piccola della massa di quattro protoni (nuclei dell’atomo di idrogeno). Lo stesso anno Sir Arthur Eddington, appreso il risultato di Aston e sapendo anche della presenza di elio sul Sole, cercò di spiegare l’emissione energetica di questo astro ipotizzando una reazione nella quale quattro atomi di idro­geno venivano a formare un atomo di elio, ma in seguito si vide che l’ipotesi di Ed­dington non reggeva (il lettore interessato può vedere il perché al capitolo 4 del libro di Frank Close già citato).

Un progresso significativo fu compiuto da Hans Bethe nel 1939 (Hans Bethe, Energy Production in Stars, Phys.Rev. 55, 434-456, 1939; un riassunto si trova su prola.aps.org/abstract/PR/v55/i5/p434_1 )

Bethe riuscì a trovare una successione ciclica di reazioni che differivano netta­mente dalla proposta di Eddington, tutta­via lo stesso Bethe vide che il suo ciclo avrebbe potuto funzionare solo per stelle più grandi e più calde del Sole. Non riferi­sco di altri progressi che furono compiuti, in ogni caso se i calcoli mostravano che certe reazioni erano compatibili con i dati osservati, ciò non significava che quelle reazioni avvenissero realmente nel Sole.

Dalle conoscenze che man mano si an­davano accumulando sia per via teorica che sperimentale appariva che tra le reazioni nucleari so­lari ce n’erano varie che conducevano alla produzione di leptoni e di neutrini. Per al­cune di queste reazioni erano state ottenu­te informazioni sulla distribuzione di ener­gia dei neutrini prodotti, ma non si cono­scevano tutte le possibili reazioni. Al­cuni ricercatori si proposero di confrontare i risultati deducibili dalla conoscenze di cui disponevano con quelli ottenuti me­diante nuove misurazioni che si propone­vano la rivelazione di neutrini solari.

Nella prima parte di questo servizio si sono viste alcune esperienze di rivelazione di neutrini. L’efficienza dei rivelatori di neutrini, sempre molto piccola, dipende, tra l’altro, dall’energia dei neutrini. Per potere ottenere dati statisticamente atten­dibili la piccolezza dell’efficienza richiede grandi volumi per i rivelatori e di conse­guenza costi pecuniari elevati. Inoltre per ridurre la probabilità di rivelare anche eventi non dovuti a neutrini di origine so­lare ma non distinguibili da quelli prodotti da neutrini di origine solare si cerca di schermare i rivelatori mediante grandi spessori di materia e questo in certi casi si ottiene collocando i rivelatori a grandi profondità, per esempio in miniere o sul fondo del mare o in gallerie che attraversa­no montagne. Anche queste scelte portano all’aumento dei costi. In una esperienza compiuta attorno al 1966 negli Stati Uniti d’America, della quale scrivo un po’ più avanti, si giunse a un costo di 600.000 $; i costi delle esperienze in corso o progettate per il futuro, di cui mi propongo di scrive­re successivamente, superano di gran lun­ga questo valore. Sia chiaro che i grandi spessori di materia non servono a scher­mare i neutrini spuri, perché i neutrini non si lasciano schermare, ma a schermare par­ticelle che, interagendo con i rivelatori, dànno luogo a segnali non distinguibili da quelli prodotti dai neutrini.

Un ricercatore che si è dedicato alla ri­cerca dei neutrini solari con grandissimo acume e impegno è stato Raymond Davis (Washington 14 Ottobre 1914 – New York 31 Maggio 2006), premio Nobel per la Fi­sica nel 2002 per i risultati ottenuti in que­sto campo. Una breve e affascinante auto­biografia di Davis (in Inglese) si può tro­vare sul Web all’indirizzo http:///www.no­belprize.org/nobel_prizes/physics/laurea­tes/2002/davis-autobio.html .

Per le vicende che portarono Davis alla ricerca dei neutrini solari e per le ragioni che lo portarono alle scelte che fece nei primi anni di questa ricerca rimando alla sua autobiografia. Col senno del poi (ma Dio solo poteva avere il senno del prima) oggi si può dire che Davis partì col piede sbagliato almeno per due ragioni. Spero di spiegare questo in una parte che debbo an­cora scrivere. Qui mi limito a riassumere che cosa fece Davis e quali risultati otten­ne nell’arco di tempo trattato nella parte presente, cioè fino al 1980.

Nel 1948 Davis prese servizio al Broo­khaven National Laboratory. Si recò subi­to da Richard Dodson, direttore (chair­man) del suo dipartimento, per chiedere cosa doveva fare. Il direttore, con sorpresa e piacere di Davis ( “ To my surprise and delight “ scrive Davis nella autobiografia) gli consigliò di andare in biblioteca, con­sultare libri e riviste e scegliere lui stesso un progetto. Davis fece così, lesse sulla Reviews of Modern Physics un articolo di rassegna di H.R.Crane e decise di proget­tare un esperimento sulla fisica dei neutri­ni; lavorerà su questa tematica per più di cinquant’anni, quasi fino alla morte.” Thus began a long career of doing just what I wanted to do and getting paid for it ”; che colpo!

Nel 1955 Davis aveva approntato il pri­mo rivelatore. Esso si basava su una rea­zione nella quale un neutrino avente suffi­ciente energia che interagisce col cloro lo trasforma in argon (un gas raro), successi­vamente l’argon viene separato dal resto. Davis realizzò un apparecchio con cui si potevano separare piccolissime quantità di argon. Il cloro era introdotto utilizzando tetracloruro di carbonio. Il primo rivelato­re era interrato ad una profondità di 6 m e conteneva 4000 litri di tetracloruro di car­bonio.

Dopo venticinque giorni si vide che il ri­sultato era completamente negativo, i neu­trini solari non erano stati rivelati. Attra­verso una serie di esperimenti nella quale il volume del rivelatore, la profondità a cui era posto e il costo dell’esperimento anda­vano aumentando si arrivò alla fine dell’estate del 1966 ad approntare un espe­rimento nel quale si impiegavano 400.000 litri di tetracloruro di carbonio, posti in una vasca appositamente costruita in una miniera dismessa ad una profondità di 1370 m. Il costo per realizzare questo apparato era stato di 600.000 $. Anche questa volta il risultato fu negativo. Con successivi perfezionamenti si procedette con altri esperimenti.

Quando nel 1978 i risultati erano ancora negativi Davis cominciò a pensare che il modello che tutti usavano per il Sole fosse sbagliato, mentre la maggior parte dei ri­cercatori che seguivano questa ricerca sen­za condurla in prima persona ritenevano che l’errore fosse dovuto al rivelatore di Davis . Vedremo nel seguito che entrambe le opinioni erano sbagliate e che i risultati negativi erano dovuti a fenomeni allora sconosciuti.

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