giovedì, Aprile 25, 2024
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Mafia accademica, seconda stagione

Carmine Mancone

Perché il sistema sa bene che per fare in modo “che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Scrivevo così nel mio precedente articolo sui Siciliani (https://www.isiciliani.it/mafia-accademica/#.YXfYRi98rYU), e infatti il Gattopardo accademico è tornato a cacciare. Si poteva fare peggio della riforma Gelmini? Si, è quello che sta accadendo in parlamento con il disegno di legge 2285, già approvato alla Camera e ora in discussione al Senato, che introduce cambiamenti nel pre-ruolo e reclutamento nelle università. Entriamo nel merito facendo un passo indietro. Ad oggi qual è il percorso canonico che porta un giovane scienziato neolaureato “eletto” dal sistema ad arrivare ad una posizione di ruolo (Professore di II fascia)?

Dottorato di ricerca: 3 anni; si accede per concorso pubblico dove il candidato interno ad un gruppo di ricerca risulta normalmente il vincitore; 12 mensilità da circa 1100€; attività di ricerca finanziata dal laboratorio dal professore che lo ha “eletto”.

Assegni di ricerca: fino a un massimo di 6 anni; figura atipica di lavoro subordinato senza un vero inquadramento e relativi diritti; si accede per concorso pubblico su fondi quasi sempre finanziati da un gruppo di ricerca in cui la figura da selezionare ha svolto il dottorato; 12 mensilità da circa 1600€; attività di ricerca finanziata dallo stesso laboratorio.

Ricercatore a tempo determinato A (RTDA): 3 anni rinnovabili per altri e 2; rapporto di lavoro subordinato (ricerca e didattica) ma che non garantisce l’inquadramento nelle università; si accede per concorso pubblico con una commissione che prevede almeno un membro interno al Dipartimento che emana il bando; la figura scientifica selezionata nella procedura è nella stragrande maggioranza dei casi interna al Dipartimento; 13 mensilità da circa 1800€; attività di ricerca finanziata dallo stesso laboratorio (salvo poche eccezioni).

Ricercatore a tempo determinato B (RTDB): il ruolo più ambito, rapporto di lavoro subordinato (ricerca e didattica) di 3 anni con posizione “tenure track”, cioè se al termine dei tre anni il candidato ha acquisito l’abilitazione scientifica nazionale (ASN, non un concorso ma la verifica di requisiti previa presentazione di un curriculum) il ricercatore è finalmente inquadrato come  Professore di II fascia;  si accede per concorso pubblico in cui i candidati devono avere alle spalle il triennio di RTDA o tre anni di assegno di ricerca; nel bando la figura scientifica da selezionare nella procedura è presente nel Dipartimento che spesso non emette un bando se quel candidato non ha già acquisito l’ASN. In sintesi, dal momento della laurea alla posizione di professore di II fascia trascorrono sempre più 10 anni, anni in cui il giovane ricercatore è precario e “dipendente” solo dalle volontà del proprio capo “famiglia”, a cui con molta devozione è costretto ad affidarsi.

Cosa prevede il DDL 2285 in merito al flusso appena descritto. Intanto permangono gli assegni di ricerca post-dottorato, alle medesime condizioni non accettabili per un dottore di ricerca. Ma peggio, vengono introdotte le borse di ricerca, rivolte esclusivamente a laureati, con esclusione di chi è in possesso di titolo di dottore di ricerca, per un periodo di tempo fino a 36 mesi. Ma perché un tale provvedimento? Se da un lato si vuole dare la possibilità di estendere misure retributive a figure di ricerca altro non si fa che allungare tempi e precarizzazione delle carriere, arrivando ad un inquadramento nelle università solo dopo i 40 anni. Sono poco stupito se penso che nelle materie scientifiche, il mio ambito, la vera “manovalanza” nei laboratori universitari è a carico di tesisti, dottorandi e assegnisti. Figure precarie, a basso costo, senza vincoli di inquadramento e obblighi di didattica frontale. Il futuro borsista di ricerca andrebbe ad aggiungersi a questo caporalato accademico. Ma c’è di più. Il DDL 2285 andrebbe a normare anche la struttura delle commissioni concorsuali. La legge in discussione prevede che i componenti vengano estratti a sorte da una lista in cui si iscrivono tutti coloro che sono interessati a far parte della commissione stessa, escludendo la presenza d’ufficio di un rappresentante interno all’ateneo che bandisce il concorso. Ad un primo giudizio la norma potrebbe evitare comportamenti illeciti come quelli dell’inchiesta “università bandita” di Catania, purtroppo derubricati da associazione a delinquere ad abuso di ufficio e, più attualmente, della procura di Milano che vede indagati 17 docenti della Statale, ma in realtà non è così. I docenti delle rispettive aree concorsuali si conoscono, si frequentano nei congressi delle rispettive associazioni, sanno sempre chi è il candidato interno all’ateneo più vicino al docente di riferimento del bando e…canis canem non est…

Esiste una soluzione? Si, e passa per due inderogabili volontà: finanziare di più la ricerca e togliere dalle mani di noi docenti la possibilità di cooptare personale. È quello che ha fatto nel 2014 la ministra Carrozza introducendo il concorso nazionale di accesso alle scuole di specializzazione di medicina. Il potere decisionale fu tolto ai “baroni” delle Facoltà di medicina, affidando ai giovani medici il proprio destino con un concorso nazionale che prevede prove a punteggio e valutazioni obiettive (criteri matematici) dei curricula. E allora, via le figure del borsista e assegnista di ricerca, che avviliscono il giovane scienziato, portandolo nel tempo a scegliere o un altro paese o opportunità nel privato. Aumentiamo il numero dei bandi per ricercatore universitario introducendo un’unica figura post dottorato che abbia la possibilità di lavorare per un tempo congruo (5 anni) a progetti di ricerca che abbiano un alto impatto nella propria disciplina. Selezioniamo questa figura con un concorso nazionale simile a quello previsto per la scuola di specializzazione di medicina, con la sede di lavoro assegnata mediante graduatoria di merito. Ma soprattutto diamo al ricercatore un portafoglio. Finanziamolo in partenza in maniera congrua per sostenere il suo quinquennio senza che dipenda esclusivamente dalle risorse del laboratorio che lo accoglie. Lasciamo che sia lui a costruire il suo curriculum, valutandolo con criteri matematici basati non tanto sul numero ma sul valore e il reale contributo dell’attività di ricerca. E alla fine di questo percorso, se meritevoli, essere inquadrati come docente di ruolo.

Così facendo si costruirebbe una rete di giovani accademici liberi dai cosiddetti baroni e con il futuro esclusivamente nelle proprie mani. E con buonapace degli animalisti porteremmo all’estinzione il gattopardo, per il quale, ricordiamolo, “è meglio un male sperimentato che un bene ignoto”.

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