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La storia di Malli Gullu

“Noi, popolo kurdo in Italia e amici italiani…” Come in un rito sfilarono da­vanti alla bara passandosi il pennarello e firmarono. Alcuni con uno sgorbio, per non far riconoscere il proprio nome; altri per esteso, come per sfida. Si guardarono incerti. Mahsun alzò le braccia. Era fini­ta. Il direttore dello scalo merci annuì: l’aereo attendeva in pista.

I kurdi si posero le mani giunte sul viso in un gesto di raccoglimento, quasi di preghiera, poi le appoggiarono sulla bara. Gli italiani li imitarono. Il funzio­nario tossicchiò, imbarazzato e impa­ziente.

Uno dopo l’altro staccarono le mani dalla bara. Uno degli italiani disse in tur­co, a voce alta: “Un giorno le tue fi­glie torneranno nel tuo paese libero, te lo giu­riamo”. In fila indiana, con un ultimo sguardo alla bara, si avviarono verso l’uscita.

Il moscone saettò verso l’alto, libero…

I venti uomini si scossero, come folgo­rati dalla stessa idea. Si volsero all’uniso­no. Le loro braccia sollevarono la bara con facilità.

Si mossero lentamente, solennemente, verso la pista dove l’aereo per Istanbul scaldava i motori. Gli agenti, sorpresi, li lasciarono passare. Quegli occhi incute­vano rispetto.

Il piccolo corteo raggiunse l’aereo in attesa. A un chilometro di distanza i pas­seggeri si stavano stipando in un bus na­vetta. Ma per loro era troppo tardi. Cari­carono la bara nella stiva, poi salirono la scaletta. Nessuno mosse un dito per fer­marli, neppure quando ordinarono all’equipaggio di chiudere i portelloni e decollare. Non avevano armi e non ce n’era bisogno. Bastarono gli sguardi. Quando l’aereo atterrò sulla vecchia pista dell’aeroporto di Crotone, l’uomo già sa­peva che sarebbero arrivati. Non disse una parola, ma prese per mano le sue bambine e seguì l’anziano.

In cento uscirono dalle roulotte e sali­rono a bordo. Pochi minuti dopo l’aereo lacerò la ragnatela delle nuvole e protese verso il cielo le ali brillanti.

All’arrivo a Istanbul una grande folla lo attendeva. Travolsero i cordoni di po­lizia, guidati e trascinati dalle donne di Gebze. Uscirono dall’aeroporto, la bara di Malli Gullù in testa, ed erano già in mille.

Quando attraversarono i quartieri di Istanbul e furono centomila, fu chiaro che neanche i blindati li avrebbero fer­mati. La notizia volò. Milioni di profughi si misero in cammino dall’Europa e da tutta la Turchia verso oriente.

Verso il Kurdistan, verso il sole, il fie­no e il pane.

27 ottobre 2001

(È tutto vero, tutto… tranne il finale: vi prego, facciamo che un giorno sia vero anche quello…)

 

“Lascio il mio sorriso
A chi sa ancora sorridere…”

IL TESTAMENTO DI DINO

Se morissi adesso o fra due giorni o un anno
ecco il mio testamento.
Il testamento di un comunista
avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso.
Lascio tutto il mio disprezzo a chi mi ha usato.
Lascio tutto il mio odio
a chi mi ha dato un mondo senza gioia,
da attraversare a pugni e denti stretti.
Lascio la nostalgia per le moschee di Gerusalemme e gli ulivi di Puglia
ed ogni roccia pianta finestra stella
che i miei occhi hanno accarezzato nel cammino
Lascio universi di dolcezza
alle donne che ho amato.
Lascio fiumi di parole dette e scritte
spesso con rabbia raramente con saggezza
in malafede mai,
un mare di parole
che già evapora al vento rovente del tempo.
Lascio, a chi vorrà raccoglierlo,
il testimone del mio entusiasmo,
nella folle staffetta mozzafiato
volgendomi indietro dopo vent’anni
non so più se ho corso da solo.
Lascio il mio sorriso a chi sa ancora sorridere
e le mie lacrime a chi sa piangere ancora.
Non è poco. In cambio,
voglio essere sepolto senza cippi e lapidi
fra le radici di un albero grande
in piena nuda terra rossa e grassa
perché il mondo con me respiri ancora
e si nutra con me di ogni mia fibra.
Con me (non vi sembri retorica)
solo una bandiera rossa
e la nave del Ritorno
intagliata con le unghie nella pietra
di un prigioniero assetato di vita
nel deserto del Neghev.

(Dino Frisullo è morto il 5 giugno del 2003)

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