domenica, Novembre 10, 2024
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Il Patto

Una trattativa infinita fra Stato e mafia

Mentre a Palermo il processo sulla trattativa fra Stato e mafia va avanti, sembra essersi dissolta nella polvere degli archivi, grazie anche alla cronica mancanza di memoria degli italiani, la lunga storia di interlocuzione (sfociata troppo spesso in collaborazione) fra settori dello Stato, dell’economia e della politica e le mafie e in particolare, fino a gli anni ’90 con la mafia siciliana prima della sua parziale ritirata sul piano militare dopo l’emergere del nuovo potere “visibile” delle ‘ndrine calabresi. Una storia, quella dell’interlocuzione, che potremmo far partire dalla Seconda Guerra Mondiale e che già aveva avuto possibilità di mettere radici profonde ben prima.

Forse alla fine la questione sta tutta qui, in questo apparentemente innocuo frammento di diplomazia post-bellica. “L’Italia non perseguirà e non disturberà i cittadini italiani, particolarmente i componenti delle Forze Armate, per il solo fatto di avere, nel corso del periodo compreso tra il 10 giugno 1940 e la data dell’entrata in vigore del presente Trattato, espresso la loro simpatia per la causa delle Potenze Alleate ed Associate o aver condotto un’azione in favore di detta causa”. (Articolo sedici della seconda parte del Trattato di pace fra Usa e Italia, Parigi, 1947). Di fatto questo articolo del Trattato concede l’immunità (con quel “non disturberà” si va ben oltre) a tutte quelle persone che, dichiarando semplicemente simpatia per gli obiettivi degli Alleati, avevano commesso reati, anche gravi.

Si va ben oltre all’aiuto fornito agli Usa da alcuni noti mafiosi italoamericani primo fra tutti Lucky Luciano in chiave di intelligence durante il conflitto. Luciano, per prevenire e bloccare atti di sabotaggio ai convogli diretti verso l’Europa e il Nord Africa dal porto di New York, venne contattato dai servizi statunitensi mentre era detenuto in carcere, a fine guerra venne liberato e da uomo libero si trasferì in Italia e qui venne accolto dal prefetto di Napoli, che gli consegnò un passaporto nuovo di zecca. L’impunità veniva messa nero su bianco nei confronti di quei mafiosi come Calogero Vizzini (all’epoca al vertice della mafia siciliana) e Genco Russo, che gli succedette: uomini d’onore che favorirono lo sbarco in Sicilia nel ’43 partecipando in alcuni casi come logisti e informatori durante l’avanzata e si trovarono a gestire di fatto una buona parte dei rifornimenti (e anche delle risorse farmaceutiche!) delle truppe alleate con loro società, mutuate dall’ organizzazione di borsisti neri, settore di cui avevano il totale controllo.

E fin qui il conto pagato dagli Usa alla mafia siciliana e americana per l’aiuto ricevuto, e imposto anche all’Italia con tanto di articolo nel Trattato. Un Trattato siglato mentre andavano in scena le prime fasi della Guerra Fredda e che in qualche modo riapre la porta ai partner innominabili in chiave Atlantica e anticomunista.

E l’Italia solo vittima passiva di un patto fra Usa e mafia? Non proprio. Anzi per nulla, fin dalle fasi che condussero all’Armistizio del settembre ’43. Per cominciare, grazie a Vito Guarrasi, un giovane sottotenente di complemento dei reparti automobilistici e attendente del generale Giuseppe Castellano, che firmò a Cassibile l’Armistizio per conto di Badoglio dopo numerosi abboccamenti avvenuti nei mesi precedenti a Algeri e Lisbona. Un sottotenente che presenziò informalmente alla firma di quella che fu a tutti gli effetti una resa. Un sottotenente che l’anno successivo compare poi fra i possibili partecipanti a una riunione convocata nel ’44 dal governatore statunitense in Sicilia Charles Poletti su un tema a dir poco sfizioso: se lavorare o no alla secessione della Sicilia dall’Italia per darne il governo alla mafia, come letteralmente scrive al proprio governo Poletti stesso, in due lettere rintracciabili in riproduzione fotostatica fra gli allegati della relazione di maggioranza della Commissione Antimafia del 1976. Nella stessa relazione si legge un brano che ben fa comprendere quale fosse lo scenario in Sicilia nel ’43: “Mentre Galvano Lanza Branciforti di Travia e Vito Guarrasi partecipavano alle trattative di armistizio, don Calogero Vizzini da Villalba, amministratore del feudo Polizzello, di proprietà dei Lanza, svolgeva attività di preparazione dello sbarco degli alleati in Sicilia a livello tattico”.

Perché quindi il giovane attendente a trattare l’armistizio? La vicenda mostra la necessità che venissero rappresentati determinati poteri: quello del latifondo agrario, della produzione mineraria, della finanza siciliana e non solo, legata direttamente e indirettamente a determinati poteri occulti.

Da un lato le logge massoniche tuttora fiorenti soprattutto nel trapanese, dall’altro quella che nel dopoguerra diverrà Cosa nostra, la mafia contadina e padronale che stava già puntando a urbanizzarsi.

E proprio per questo ecco materializzarsi Guarrasi, di un’ottima famiglia di Alcamo, avvocato, industriale, banchiere, “ingegnere” del piano di salvataggio con soldi pubblici delle miniere di zolfo dell’isola, ricco senza ostentazione e rispettato da tutti, morto nel suo letto a Mondello. Per un periodo aveva anche dimostrato simpatie per la sinistra entrando perfino nel consiglio di amministrazione del quotidiano L’Ora e candidandosi come parlamentare con il Fronte popolare nel ’48. Guarrasi il cugino di Enrico Cuccia, (sì, proprio il Cuccia di Mediobanca), nel consiglio di amministrazione dell’Eni di Mattei fino a poco tempo prima che questi morisse. Guarrasi era anche amico del giornalista Mauro De Mauro (che proprio su Mattei e il fallito Golpe Borghese indagava), rapito e ucciso da Cosa nostra, e venne sfiorato dal sospetto di essere uno dei depistatori delle indagini sulla scomparsa del giornalista. Non a caso il suo amico e commercialista Antonino Buttafuoco entrò nella vicenda facendo balenare il sospetto di una vera e propria gestione delle indagini in corso da parte di Guarrasi.

Il potere politico e economico in Sicilia e non solo ha collaborato e ha usato spesso il potere di Cosa nostra. E’ un dato accertato, documentato. Cosa nostra a volte scendeva in politica direttamente con i suoi uomini (Vizzini, Russo, Navarra e poi anche Salvo Lima, tanto per fare alcuni nomi), ma molto più spesso “si metteva a disposizione”: sia per la propria capacità di raccogliere denaro e voti sia per la propria forza (militare e violenta) di condizionare affari e andamento della politica. E ciò fin da prima della Seconda Guerra Mondiale (basti ricordare ad esempio il vortice di intrecci solo parzialmente individuabili attorno a due omicidi a cavallo dell’inizio ‘900, Notarbartolo e Petrosino), e sia durante che dopo: si è sempre trattato, collaborato, dialogato. Sempre fra l’enorme mole di documenti della Commissione Antimafia che produsse il rapporto del 1976, non resa pubblica perché di fonte in parte anonima, esiste una lista di oltre 600 politici locali e nazionali all’epoca ancora in attività collegati con la mafia se non appartenenti ad essa, come ricorda Michele Pantaleone in Omertà di Stato.

La Seconda Guerra Mondiale aggiunge solo un nuovo fattore: gli Stati Uniti e le loro due paroline magiche, “anticomunismo” e “guerra fredda”. E Cosa nostra americana e la mafia siciliana (il termine “Cosa nostra” per definire la mafia siciliana arriverà poi, come vedremo in seguito) “si mettono a disposizione”: prima per lo sbarco, poi per garantire il governo civile nel periodo di transizione (quanti sindaci mafiosi vennero imposto dagli Alleati durante l’occupazione?) e in seguito per cancellare i “comunisti” e il movimento sindacale contro il latifondo dall’Isola.

Non si trattò solo di una “prestazione“ mercenaria bensì, in più fasi, di un vero e proprio patto di cooperazione fra diversi poteri. E la mafia si presta, a conflitto appena terminato, a alimentare e gestire (anche affiancandosi alla banda di Giuliano, o viceversa consentendo a Giuliano di agire in suo concorso) atti di intimidazione, assalti a sedi sindacali e di partito, attentati, omicidi e partecipando, con ogni probabilità, alla logistica se non alla gestione diretta della strage di Portella della Ginestra nel ’47.

Ed è proprio in questa fase storica (il conflitto e la guerra fredda) che compare un altro giovanotto che diventerà il protagonista di un’altra anomalia: Tommaso Buscetta. L’anomalia in questione è la riunione fra i capi di Cosa nostra americana e i vertici della mafia siciliana all’Hotel des Palmes a Palermo nel 1957. Una riunione in cui ci sono tutti i boss di peso del momento da una parte all’altra dell’Atlantico, compreso Lucky Luciano, e un unico “picciotto”: Tommaso Buscetta. Un incontro in cui vengono decise due cose: la partnership fra americani e siciliani per prendere il controllo del traffico dell’eroina verso l’Europa e gli Usa sostituendosi ai marsigliesi, che ne avevano il controllo logistico e i rapporti con i produttori proprio grazie a un’alleanza con Lucky Luciano, e la creazione a Palermo della Commissione, la formula organizzativa di Cosa nostra.

E in tutto questo venne invitato un “picciotto”? Da qui la domanda: a che titolo Buscetta partecipò a quella riunione? Lui, Buscetta, davanti alla Commissione Antimafia nel 1992 nega, anzi dice che non si trattò di giorni di lavoro, come riportato da altre fonti, ma solo di una cena. Anche Giovanni Falcone, probabilmente sposando la ricostruzione di quello che fu il primo e il più importante pentito di mafia e sul quale si costruì gran parte dell’impianto del maxi processo di Palermo, sembra dargli ragione.

Ma dall’ottobre ’57 cambiò tutto, cambiò la mafia siciliana, cambiò il suo rapporto con la politica e la finanza, e Cosa nostra -come si chiamerà l’organizzazione dopo la nascita della Commissione- prenderà il controllo del traffico mondiale di eroina. Solo una coincidenza?

La presenza a quella riunione non sarebbe e non è l’unica anomalia della lunga carriera di don Masino Buscetta, che pur non essendo un boss -anche se la stampa lo chiamò “il boss dei due mondi”- fino alla “mattanza”, ossia la seconda guerra di mafia che portò al comando Totò Riina all’inizio degli anni ’80, fu presente e protagonista di innumerevoli passaggi criminali e misteriosi della storia italiana. Dal tentato golpe Borghese a una trattativa poi abortita con le Br per la liberazione di Aldo Moro, dal traffico internazionale di eroina all’ascesa di un ganglio di potere collegabile, attraverso Stefano Bontade, Michele Sindona e i cugini Salvo, alla corrente andreottiana e a Salvo Lima. E non è certo una partecipazione da “soldato”, quella di Buscetta: lui è parte, fungendo a volte da garante di quei passaggi.

E’ un caso che più di una volta Buscetta sia stato indicato negli anni ’60 e ’70 (soprattutto negli USA) come un informatore della CIA? Di sicuro l’ipotesi non ci stupirebbe. Bisogna studiare bene gli inizi della sua carriera per capire come questo sospetto sia attendibile: il periodo trascorso in Argentina e in Brasile subito dopo la guerra e proprio nel momento in cui l’America latina era di fatto il supermarket delle spie, i probabili rapporti con i contrabbandieri brasiliano-marsigliesi a Rio De Janeiro.

Contrabbandieri collegati al corso Pascal Molinelli, personaggio quasi leggendario che, subito dopo la fine della guerra, fu l’uomo centrale del traffico di stupefacenti dall’Europa agli Stati Uniti. Molinelli, braccio destro e socio di Lucky Luciano da prima della guerra e -ancor prima della droga-, presente in ogni tipo di contrabbando -dai tabacchi agli esseri umani-, ebbe rapporti dopo il conflitto mondiale anche con i servizi israeliani in relazione all’emigrazione ebraica clandestina in Palestina. Dopo qualche anno, al suo ritorno in Sicilia, Buscetta entra nella famiglia del boss La Barbera e diventa uno degli uomini chiave a Palermo, e da Palermo agli USA e all’America Latina. Uomo simbolo anche poi, da sconfitto che resuscita inchiodando con la sua testimonianza i suoi nemici mortali: i corleonesi.

E’ la Guerra Fredda, vale tutto in chiave anticomunista. E’ la ricostruzione, vale tutto per conquistare e mantenere il controllo del potere economico e finanziario. E’ la politica atlantica, e vale tutto pur di tenere lontano dal potere il PCI e il sindacato. Vale anche allearsi, collaborare, farsi infiltrare, ibridarsi con il potere mafioso. Vale tutto. E in questo scenario ha gioco facile Cosa nostra, non più mafia rurale ma impero finanziario grazie all’eroina e parte integrante del potere legale grazie alla compenetrazione e alla coincidenza di interessi con pezzi fondamentali della Democrazia Cristiana, non solo nell’Isola ma anche a livello nazionale. Ha gioco facile la Cosa nostra nata dalla strage di Viale Lazio, messa in atto per far fuori Cavataio, che aveva soffiato sulle rivalità fra le famiglie prima e poi si era preso il potere negli anni ’60, nella prima guerra di mafia. Hanno gioco facile Stefano Bontade e gli Inzerillo, i Cugini Salvo e don Tano Badalamenti, Vito Ciancimino e Salvo Lima. Con l’aiuto discreto di don Masino Buscetta che tesse, media, organizza, consiglia, si tiene ai margini e agisce, e fa avanti indietro dall’Italia agli Stati Uniti e all’America Latina.

E’ la trattativa continua benedetta dal patto Atlantico e dall’alleato imperialista, che lascia fare ai suoi amici poco raccomandabili pur di mantenere il controllo di quel dente piantato al centro del Mediterraneo. E’ la trattativa continua benedetta dai soldi della Cassa del Mezzogiorno e della ricostruzione del Belice dopo il terremoto. E’ la trattativa dei voli diretti da New York carichi di valigie di narcodollari, dei processi aggiustati, delle talpe nei palazzi di giustizia. E’ la trattativa continua, quella che ti fa immaginare che l’omicidio Mattarella sia la posta lanciata sul tavolo di una partita fra Palermo e Roma. Una trattativa che proseguirà, inarrestabile, anche durante e dopo la mattanza e l’ascesa dei Corleonesi, dopo che avevano ammazzato il poliglotta e raffinato Stefano Bontade, chiamato il Principe di Villagrazia, e la Sicilia era un campo di sterminio. Vincenti e perdenti trattavano tutti, continuavano a farlo nonostante la tragedia in atto, chi dai covi di lusso con vista sulla casa di Falcone, chi dai luoghi protetti offerti oltreoceano, chi dagli attici milanesi.

Fino alla caduta del muro di Berlino. Fino alla fine della Guerra Fredda. E dopo, negli anni ’90, con il paese stravolto dalle stragi, e ancora poi, meno in evidenza, nascosti, usando il denaro e non la violenza come merce di scambio, il potere finanziario al posto del tritolo, l’informazione al posto di una lupara.

Se fosse ancora vivo Michele Sindona, “il salvatore della lira”, come lo definì Giulio Andreotti, cosa direbbe oggi della P3 e della P4, dell’infiltrazione capillare delle ‘ndrine nella politica e negli affari del nord, delle cricche e dei derivati, della finanza creativa e delle speculazioni sui titoli di Stato? Sorriderebbe, Sindona. E poi direbbe, sempre con un sorriso: “Non vi siete inventati nulla”.

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