venerdì, Aprile 26, 2024
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Il fallimento delle città povere

La Corte dei Conti dichiara il dissesto finanziario di Catania. L’inevitabile conseguenza dell’austerità.

Sarebbe facile e comodo per chi negli ultimi anni a Catania ha contestato le Giunte di centrodestra e centrosinistra agitare la delibera di dissesto della Corte dei Conti come una bandiera alla ragione. Ma non sarebbe giusto.

Chi difende i diritti delle cittadine e dei cittadini, chi chiede interventi per rafforzare i servizi sociali, chi reclama risorse per assicurare il diritto alla casa, alla scuola, alla felicità anche di chi è più vulnerabile e in difficoltà economica, non può tifare per la Corte dei Conti, per il rispetto dei vincoli di bilancio, per l’austerità economica. Perché a farne le spese non sono i potenti spendaccioni, i corrotti faccendieri ma la città intera e soprattutto chi sta peggio.

Abbiamo il dovere di dirci la verità e fare i conti con essa: in questi anni mettere in atto alla lettera il piano di rientro finanziario e le indicazioni della Corte dei Conti, rispettando la normativa finanziaria sugli enti locali in pre-dissesto avrebbe portato alla privatizzazione o alla chiusura delle società partecipate con perdita di centinaia di posti di lavoro, alla svendita del patrimonio comunale, all’azzeramento di molti servizi sociali, alla chiusura di asili nido e scuole materne. Dobbiamo dirci la verità: quei centinaia di milioni di euro di debiti i gruppi bancari e lo Stato li chiedono proprio a noi, cittadine e cittadini di Catania. Non sono soldi virtuali. Vorrebbero che le nostre tasse e i pochi fondi destinati agli enti locali invece di essere investiti sul territorio fossero spesi per pagare interessi speculativi milionari. Dobbiamo dirci la verità: ammesso che sia giusto pagarli, non siamo nelle condizioni di pagarli.

Sulla richiesta di dissesto per il Comune di Catania l’ormai ex Sindaco Enzo Bianco, individuato dalla Corte dei Conti come uno dei responsabili maggiori del fallimento, ha fatto appello all’unità per la salvezza della città, proponendo (che furbo!) di non mettersi a controllare le responsabilità di ognuno ma di marciare uniti contro una delibera ingiusta che non tiene conto del risanamento dei conti pubblici (che vede solo Bianco!) per scongiurare il default attraverso chissà quali stratagemmi finanziari. Antonello Piraneo invece, sulla prima pagina del giornale dell’imputato Ciancio, si appella alla responsabilità. Ma di quale responsabilità parla? Quella di tagliare nei prossimi mesi qualsiasi servizio sociale per far quadrare i conti? Oppure quella di privatizzare ogni società partecipata per impoverire ulteriormente la città e consegnare alle logiche di profitto i servizi essenziali?

Oggi a Catania non servono paladini della città, azzeccagarbugli e nemmeno “responsabili” sceriffi di Nottingham, occorre invece che la comunità intera faccia lo sforzo di individuare prospettive credibili non per far quadrare i conti, ormai definitivamente scassati, ma per uscire dalle povertà nelle quali si trovano imprigionati tanto i cittadini quanto le Istituzioni.

Da anni i movimenti pongono ai Governi centrali una questione: i tagli agli enti locali, i vincoli di bilancio, il federalismo fiscale hanno impoverito a tal punto i comuni da costringerli a ridurre o addirittura azzerare i servizi essenziali. I comuni del sud poi, con una scarsa ricchezza e con scarsi introiti dalle tasse, attraverso la rottura dei meccanismi di solidarietà e redistribuzione finanziaria, con leggi che hanno trattato allo stesso modo Milano e Napoli, Arcore e Catania sono stati spinti verso il dissesto. Non vi è cosa più ingiusta che fare parti uguali tra disuguali diceva Don Milani.

Allarmi però inascoltati. Mentre i municipi crollavano Sindaci, Giunte e consigli comunali hanno continuato a mettere la polvere sotto il tappeto (i debiti fuori bilancio), a prendere tempo attraverso le anticipazioni di cassa, ad accumulare debiti per coprire la spesa corrente da restituire con gli interessi agli strozzini di turno (banche private, Cassa depositi e prestiti). Hanno scelto politicamente di ignorare la realtà pur di assecondare le fandonie sulla necessità di tagliare, di risparmiare, di privatizzare, di svendere il patrimonio, mentre sotto sotto truccavano le carte.

Sindaci e ministri sfilavano declamando tagli, sacrifici e risanamento. Alla povera gente che chiedeva il pagamento puntuale dello stipendio o una casa popolare veniva detto che non c’era una lira perché si stavano mettendo a posto i conti. Ma il fallimento inesorabilmente è arrivato lo stesso e, udite udite, la mole di debito da restituire è aumentata vertiginosamente. Un miliardo seicento milioni di euro il debito della città di Catania.

A vantaggio esclusivo di pochi istituti di credito intenti a speculare sul debito dei comuni e imprese pronte a rilevare i servizi locali per fare affari, un’intera classe politica si è venduta ed è fallita. Non si tratta di responsabilità finanziarie, di cattiva gestione della cassa ma di un attentato alla città: condotta nelle grinfie di chi guarda i cittadini come clienti di servizi privati e la spesa pubblica come un’inutile regalo ai falliti.

Certo sono stati odiosi in questi anni gli sperperi delle risorse pubbliche: milioni di euro scialacquati in inutili consulenze, centinaia di migliaia di euro sperperati in eventi di propaganda, fontane e fuochi d’artificio, decine di milioni di euro regalati a speculatori senza scrupoli, spesso parenti o amici degli amministratori oppure quei diciotto milioni di euro destinati ai più bisognosi spariti nei primi anni del 2000 e che ora ci chiedono indietro con quattro milioni di interessi. Sperperi continuamente denunciati e sui quali la magistratura agisce sempre con troppa prudenza e colpevole ritardo. Ma non sono questi i motivi del dissesto.

La crisi finanziaria che vive la città, come si evince dalla delibera della Corte dei Conti non è solo legata alla mole di debiti pregressi, ma all’impossibilità di mantenerci da soli e di garantire i diritti senza indebitarci. Ogni anno per gestire la città si spende molto di più di quello che s’incassa e ogni cittadina e ogni cittadino sanno quanto basso sia già il livello dei servizi erogati.

La procedura di dissesto, come dimostrato già in tante altre città italiane, non avrebbe per le condizioni sociali che vive la città di Catania alcun effetto salvifico per le casse comunali. Nel giro di pochissimi mesi il debito si accumulerebbe di nuovo. Basti pensare che una buona fetta della popolazione non può pagare la tassa sui rifiuti, paradossalmente e incostituzionalmente non calcolata in base al reddito. Milioni di euro ogni anno messi in bilancio di previsione ma mai riscossi: nuovi debiti.

E allora bisogna rovesciare tutta la logica che ci ha portato a questo. Al rigore finanziario dobbiamo contrapporre la solidarietà e la redistribuzione della ricchezza: tra nord e sud, tra ricchi e poveri, tra zone del paese produttive e zone ormai desertificate. È una questione grande, certo, nazionale, ma noi che abitiamo la nona città d’Italia per numero di abitanti abbiamo il diritto e il dovere di sollevarla.

Servono i soldi per far vivere con dignità le cittadine e i cittadini di Catania. Soldi che Catania, pur con un contrasto senza quartiere all’evasione fiscale e una lotta agli sprechi, non ha.

In alternativa c’è la povertà.

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