giovedì, Ottobre 3, 2024
Società

I cinque passi di Mauro Rostagno

Trentacinque e ventiquattro. Due nu­meri che hanno segnato la data del 26 settem­bre, quando nell’aula bunker “Falcone” del Tribunale di Trapani, sono ri­prese le udienze dinanzi alla Cor­te di Assi­se del processo per il delitto del sociologo e giornalista Mauro Rostagno.

Questa è stata la 35ma udienza, ha coin­ciso con il 24° anniversario dal delitto di Mauro Ro­stagno. Un processo che va avanti da un anno e 8 mesi, la prima udienza risale al 2 febbraio del 2011.

Imputati sono due conclamati mafiosi in carcere da tempo a scontare condanne per delitti e mafia: l’imprenditore Vincenzo Virga, riconosciuto capo del mandamento di Cosa nostra trapanese, e l’ex campione nazionale di tiro a volo Vito Mazzara, kil­ler di fiducia della mafia trapanese, uno che andava a sparare assieme all’attuale super latitante Matteo Messina Denaro.

Dalla scorsa primavera l’accusa ha con­cluso l’esame dei propri testi, e per ades­so vengono ascoltati i testi della difesa dell’imputato Virga. Il 26 settembre è stata conferita dalla Corte di Assise una nuova perizia sui reperti balistici.

Mauro Rostagno, come ha ricordato in aula la figlia, Maddalena, aveva scelto a Trapani di fare il terapeuta: dentro la co­munità di recupero per tossicodipenden­ti “Saman” da lui fondata assieme alla com­pagna, Chicca Roveri, e a Francesco Car­della, e lavorando da giornalista a Rtc, occupandosi di una città, Trapani, che era da recuperare per essere stata per tanto tempo terreno fertile di mafia e poteri cri­minali. Questo suo impegno lo ha portato a suscitare fastidi presso i vertici di Cosa nostra, e l’ordine di morte, come hanno ri­ferito i collaboratori di giustizia sentiti nel processo, partì da Castelvetrano, dal pa­triarca della mafia del Belice, Francesco Messina Denaro.

 A 24 anni dal delitto questa però non è una verità giudiziaria ancora consolidata. Non c’è una sentenza e non ci sarà a bre­ve. E’ però vero che questa è una verità che appartiene oramai alla società civile, a quella società che non esitò alcuni anni fa a raccogliere grazie all’associazione “Ciao Mauro”, 10 mila firme per evitare che l’indagine potesse andare in archivio, e così un poliziotto, brigadiere vecchio stampo, sfogliando nuovamente quelle carte si accorse che chi fino ad allora ave­va indagato aveva dimenticato a fare una comparazione balistica, prassi normale per indagini su delitti, prassi dimenticata per l’omicidio di Mauro Rostagno. In quella comparazione saltò fuori la firma di Cosa nostra sul delitto.

A Milano il ricordo del delitto è stato ri­cordato con una serata dove è stata ribadi­ta la necessità di fare chiarezza sul perché Mauro Rostagno è stato ucciso, si sono messi in evidenza come tante circostanze sono le stesse di quelle che si scorgono ne­gli scenari di quella che può essere defini­ta la “trattativa infinita” tra Stato e mafia.

Le cosche e i killer delle cosche mafiose siciliane spesso hanno fatto da service ad altri poteri compiendo delitti e stragi, l’omicidio di Mauro Rostagno potrebbe starci tutto dentro questa oscura storia del nostro Paese, ma c’è anche un altro dato che emerge e che lo ha ricordato molto bene il giornalista Rino Giacalone tra le pochissime “voci” che raccontano questo processo: “Se Peppino Impastato a Cinisi era a 100 passi dal potere mafioso, Rosta­gno era a meno di 5 passi, Puccio Bulga­rella l’editore della tv dove lavorava era uno di queli che ogni giorno andava a par­lare di appalti con Angelo Siino quando questi era il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina.

 Dava fastidio Rostagno, lo hanno detto i pentiti di mafia che sono sta­ti sentiti, per­ché parlava di mafia, appalti, traffici di droga, tutti affari della mafia tra­panese e lo faceva dalla stanza a fianco alla quale c’era quella dell’editore Bulga­rella, cinque passi e forse anche meno”.

Il processo ha evidenziato l’inesistenza per 23 anni dal delitto di alcun serio lavo­ro investigativo, i carabinieri e per un pe­riodo anche la Polizia indagarono su “cor­na” e “gelosie”, i carabinieri dimenticaro­no che Rostagno aveva la prova della pre­senza non rara del capo della P2 Licio Gelli nel trapanese a casa di mafiosi, c’è un verbale nel quale Rostagno racconta di questa sua conoscenza, ma nel processo quel verbale è entrato a dibattimento in corso: era finito in altri faldoni.

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