martedì, Aprile 16, 2024
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Augusta: il Limbo dei ragazzini

In una scuola inagibile, centinaia di migranti minorenni. Due setti­mane con loro

Si chiama Ousman. Ha diciassette anni. Viene dal Senegal. Ha rischiato la vita per arrivare in Italia. Dopo un lun­go viaggio da Agadez è giunto a Sabha, in Libia. Lì è arrestato perché nero sette mesi fa. È rin­chiuso nelle famigerate carceri libiche per due mesi. Carceri cofinanziat­e dall’Italia e dall’Unione Eu­ropea (Nobel per la Pace) gestite da perso­nale di polizia ad­destrato anche da noi. Poi è riu­scito a fuggire.

Il primo tentativo di evasione fallisce. Lo catturano di nuovo, lo rinchiudono cin­que ore in un armadio e lo sommergo­no d’acqua per cercare di convincerlo a paga­re un riscatto per essere liberato. Fuggito una seconda volta passa due mesi nella campagna di Sabha lavorando come brac­ciante raccogliendo pomodori. Raci­mola abbastanza denaro per partire per Tripoli.

Lì, senza un soldo né conoscenti, lavo­ra altri due mesi facendo le pulizie nelle case di famiglie ricche. Così facendo si è potu­to pagare la traversata. Dopo tutto questo ha ancora la forza di essere ottimi­sta e di sorridere. Adesso Ousman vive ad Augu­sta. Augusta, sulla costa tra Catania e Sira­cusa. Oggi se ne parla solo a propo­sito dei migranti che la raggiungono.

Il porto commerciale, uno dei più gran­di della Sicilia orientale, accoglie dall’anno scorso centinaia di migranti ogni due-tre giorni. In città da alcuni mesi le scuole Verdi, dichiarate inagibili, ma evidente­mente adatte ad accogliere ragaz­zi stranie­ri, ospitano un centro di acco­glienza per minori non accompagnati.

Il centro è stato concepito come posto di passaggio. La legge prevede che la per­manenza in questo posto non possa supe­rare le 72 ore. Tre giorni.

Aspettano anche da tre mesi

La realtà è che molti ragazzi aspettano di essere trasferiti in comunità anche da tre mesi. Per i più piccoli è facile trovare una comunità di­sponibile ad accoglierli. Per chi ha dai di­ciassette anni in su è tutto molto più diffi­cile. I responsabili legali di questi ragazzi sarebbero gli assistenti sociali del Comu­ne. Decido di passare due settimane in questo centro. Arrivo la settimana di Fer­ragosto.

Al mio arrivo ci sono 123 “ospiti”. Non è stato difficile avere la possibilità di pas­sare due settimane con dei minori come volontario. È bastato chiedere. Anche per­ché in questo periodo la maggior parte dei dipendenti preferirebbe essere in vacanza. Purtroppo le centinaia di reportage che sono stati scritti non hanno cambiato per niente la situazione di questi ragazzi. Inol­tre un conto è passare qualche ora nel cen­tro giusto per scrivere il pezzo e andarse­ne e un conto è viverci due settimane. Uno di loro mi ha chiesto di raccontare quello che ho visto anche solo per miglio­rare la situa­zione alimentare.

Non che non siano nutriti. Eppure i pa­sti sono più o meno sempre gli stessi. Pa­sta e pollo o coniglio. E a molti fa impres­sione il coniglio. E non concepiscono il fatto di doverlo mangiare. Inoltre dopo tre mesi che si mangia sempre lo stesso pasto a pranzo e cena si capisce un po’ di insoffe­renza. Come se non bastasse la ditta che fornisce i pasti, vincitrice di un appalto dove era l’unica a presentarsi, ignora la legge rifiutandosi di sigillare le porzioni di cibo. Perché se il cibo è destinato a ra­gazzi stranieri si possono ignorare le mi­sure igieniche più elementari.

Alcuni ragazzi hanno un tutor in attesa di essere affidati ad una comunità. Questo significa che hanno una famiglia che li ac­cudisce e li assiste. Altri non hanno nessu­no. Non hanno niente da fare durante la giornata e sono impazienti di partire per il nord Italia o per il resto dell’Europa.

La mattina ne approfitto per fare due chiacchiere con i francofoni e gli anglofo­ni. Vengono dal Gambia, dal Mali, dal Se­negal dal Sudan e dal Bangladesh.

Poi ci sono gli egiziani che parlano quasi solo arabo. Sono quasi tutti traumatizzati. Han­no tutti la stessa storia. Vivono in camero­ni da 10-12 brandine ricavati dalle classi della scuola. Nel pomeriggio facciamo le­zioni di italiano e di geografia. Nessuno sa dove si trova né quale sia la forma dell’Europa. E quasi nessuno sa l’italiano.

Dal lunedì al giovedì c’è una permanen­za in infermeria garantita dall’azienda sa­nitaria provinciale e da Emergency. Nel fine settimana il dottor Parisi viene volon­tariamente e gratis a curare questi ragazzi garantendo un servizio che lo stato sareb­be tenuto a pagare. Per molti l’unica atti­vità è chiedere l’elemosina per le strade di Augusta. La gente è molto generosa e re­gala soldi e cibo. Alcuni riescono a raci­molare anche 40-50 euro al giorno.

I volontari delle parrocchie

11/08/2014 Al mio arrivo conosco Enzo. Insieme ad Aldo è il responsabile del cen­tro. Da quel che vedo dedica tutte le sue energie a questi ragazzi. Ha un tur­no mas­sacrante dalle 8 alle 22. Prova a imporre le regole del ben vivere in comu­ne e al tem­po stesso cerca di creare situa­zioni simpa­tiche e di distensione. Chi col­labora e lo aiuta nelle varie mansioni rice­ve una pepsi o più cibo come ricompensa. Mi colpisco­no gli odori: fortissimi e molti acri. Can­deggina e disinfettante si fondo­no all’odo­re di liquami e cibo in decom­posizione. Le pulizie vengono fatte due volte al giorno.

Due volte a settimana un gruppo di vo­lontari delle parrocchie distribuiscono ve­stiti ai ragazzi che ne sono sprovvisti. Mancano mediatori. C’è difficoltà a comu­nicare e sale la tensione. Nel pome­riggio un gambiano tenta di prendere a ba­stonate un egiziano perché qualcuno gli ha rubato il cellulare.

12/08/2014 Entrando alle 8 vedo la sce­na più normale delle due settimane: cin­que ragazzini egiziani di 10-13 anni sono se­duti su una panchina a vedere Kung-Fu Panda. I loro occhi sono persi nello scher­mo e sognano beati. Guardare i cartoni animati è l’unica attività da bimbi che gli sia rimasta.

Grandi cicatrici sulla gola

Abdullah viene trasferito in ospedale. Ha enormi problemi psichici e delle gran­di cicatrici su tutto il corpo e la gola. Rischia di fare del male a sé e agli altri. Viene dal Ghana. Slcuni dicono che lo abbiano ri­dotto così le torture in Libia. Altri che quei tagli sarebbero la trac­cia di un rito fatto in Ghana per cacciare il male.

“Michele” mi chiede di parlami in priva­to. Viene dal Gambia. È orfano di padre. È strabico e ha una cicatrice alla schiena. Il suo dramma su­pera il viag­gio nel deserto, la fatica della traversata e i problemi fisici.

Qualche mese fa un signore inglese de­cide di adottarlo. Michele capisce imme­diatamente che c’è qualcosa che non va: suo “padre” adottivo non si limita ad acca­rezzarlo ed a cocco­larlo come farebbe un padre. Gli propone di rapporti. Michele sco­pre di trovarsi coinvolto in un caso di turi­smo sessuale. Qui la voce si fa molto fio­ca e il suo ingle­se diventa più difficile da seguire. Mi parla di giorna­listi e di poliziotti corrotti che lo accusano di essere omosessuale. Mi rac­conta di aver passato alcuni giorni in cen­trale tenuto chiuso in una stanza. Poi la fuga verso l’Europa.

Un ragazzo maliano parte alle 11 per Si­racusa: va a fare un provino presso la loca­le squadra di calcio. È molto promettente ed ha capito che il suo permesso di sog­giorno passa dalle sue gambe.

I nove ragazzi del Bangladesh mi chie­dono di insegnar loro l’italiano. Sono mol­to felice del loro entusiasmo e della loro forza di volontà. Non immaginavo che ci saremmo fermati solo quat­tro ore. In que­ste ore ripassiamo le pronunce, rive­diamo il verbo essere e avere, i colori, come leg­gere l’orologio, come presentarsi.

Alla fine della lezione sono senza voce e i ragazzi insistono per offrirmi una fetta di pizza, parte della loro cena. Mi racconta­no il loro viaggio: in aereo da Dacca a Du­bai. Da lì al Cairo e infine in Libia, da dove si sono imbarcati per la Sicilia.

13/08/2014 Al mio arrivo i ragazzi mi raccontano che durante la notte un egizia­no è stato derubato e che qualcuno gli ha pure acceso la maglietta con un accendi­no. Dalle 22 alle 8 questi ragazzi, minori, vengono lasciati soli e senza tutele.

Chiacchierando coi ragazzi un nome ri­torna frequentemente: Porto Palo. Qui sor­gerebbe un centro di accoglienza dove i ragazzi sono trattati come ani­mali, con pochissime risorse e gestito dalla mafia.

Alcuni ragazzi mi chie­dono in continua­zione quando saranno tra­sferiti in comuni­tà o saranno affi­dati a un tutor. Altri mi chiedono i docu­menti perché hanno biso­gno di una sim. Pensa­vo che gli fossero già fornite, ma debbono comprare sim in­testate ad altri, che se ne approfittano.

All’improvviso arriva una tv americana. Se questi fossero ita­liani li tuteleremmo e non basterebbe l’autorizzazione del prefet­to per riprender­li e filmarli. Ma evidente­mente la legge non è uguale per tutti, e co­mincia la visita allo zoo. La mia scuola di italiano è l’attrazione principale perché a quest’ora quasi tutti dormono. Siamo in sei nel giardi­no attorno ad una lavagna all’ombra e im­pariamo alfabeto, pronunce, cia, gia, gn, gl, gli oggetti.

La colletta per il pallone

15/08/2014 Molti faranno presto 18 anni. Saranno trasferi­ti in un centro per adulti e lì le condizioni sono molto diver­se. I ragazzi ne sono davvero ossessionati.

Oggi ripenso ad una notizia che circola­va tempo fa. Qualcuno diceva che gli im­migrati non mangiavano il cibo che gli ve­niva fornito e come prova mostravano sac­chi della spazzatura pieni di cibo. La noti­zia era stata diffusa da persone avverse a questo modo di accogliere. Effettivamente ogni giorno vengono buttate dalle 30 alle 40 porzioni di cibo per pasto. Non per­ché i ragazzi siano schizzinosi, ma perché che il catering fornisce più del necessario. Que­sta setti­mana mangio sempre con i ragazzi e sia a pranzo che a cena il menù è stato sempre pasta al sugo, pollo, patatine.

16/08/2014 Per le 5 vedo che alcuni ra­gazzi stanno facendo una colletta e mi in­formo. Vogliono comprare un pallone nuo­vo e stanno radunando 20 euro. Mi intro­metto dicendo che mi pare un po’ troppo per un pallone. Mi rispondono che quello è il prezzo migliore che gli abbiano fatto.

Gli spacciatori nel parco

Decido di ac­compagnarli a comprare il pallone. Al mio arrivo, dopo aver fatto capire che sono ita­liano e che non sono scemo il prezzo scen­de misteriosamente a 5 euro. La gratitudi­ne è tanta che mi invi­tano a dare il primo calcio nel campetto del parco dove gioca­no vicino alla scuola.

Là, un signore mi chiede chi sono. Sem­bra disturbato dalla mia presenza. Mentre gioco cerco di informarmi sul suo conto e mi di­cono che gestisce lo spaccio al parco.

Altri mi confermano la stessa sto­ria dicen­domi che la sera alcuni egiziani sono soliti com­prare hascisc e marijuana.

Mi faccio coraggio e ne parlo ai Carabi­nieri appostati di fronte alla scuola, che non fanno assolutamente nien­te tutto il giorno. Mi chiedono tutti i dettagli e mi promet­tono che mande­ranno qualcuno a presidiare il parco. In realtà dopo due settimane non è cam­biato nulla.

Enzo mi conferma che se non vedo più da tre giorni Beletsa, il ragazzo eritreo, il motivo è che è scappato seguendo le indi­cazioni di un suo contatto.

Rientrando conosco Lamin, 17 anni, del Gambia. E’ orfano di madre e per questo dopo le medie il padre gli ha chiesto di cominciare a lavo­rare. Ma lui vorrebbe studiare informatica. Mi racconta che la sua famiglia si era tra­sferita inizialmente in Senegal e poi lui era stato costretto a partire per l’Europa. Ri­percorriamo insieme le tappe del viag­gio nel deserto.

Oramai quei posti, quelle prigioni, sem­pre gli stessi mi sono quasi familiari. Ne ho sentito parlare così tanto in questi gior­ni che per certi versi mi sembra di esserci già stato. La settimana scorsa ho scoperto che la maggior parte degli immigrati arriva via aereo grazie a documen­ti falsi. Chi arriva in bar­ca è proprio dispe­rato.

Lamin ha passato tre mesi nelle pri­gioni di Tripoli. È stato arrestato durante una retata della polizia li­bica contro i neri. Ha passato tre mesi in carcere stando an­che tre giorni senza ve­dere cibo. Ora capi­sco perché molti di questi ragazzi non vo­gliano avere a che fare con gli egi­ziani: li confondono coi libici.

Mentre ceno c’è una rissa tra un egizia­no ed un senegalese. Rissa tanto violenta che intervengono i carabinieri. Senza man­co ascoltare le due voci in capitolo viene data ragione all’africano e il ragazzo egi­ziano piange. Mi fa capire che l’altro lo stava strozzando perché gli dava fastidio che intonasse la preghiera serale ad alta voce. Non posso far altro che chiedergli scusa a nome di tutti coloro che non l’han­no voluto manco ascoltare.

Bruciata la brandina

17/08/2014 Questa mattina non trovo per strada Ibrahim. A scuola non c’è. Dopo la colazione vado a vedere se è ancora nel­la sua brandina ma scopro che è stata par­zialmente bruciata. Chiedo agli altri egi­ziani. Mi dicono che è partito per Milano.

18/08/2014 Alle 17 mi avvertono che sta per avvenire uno sbarco. Quando arrivia­mo al porto scopro che lo sbarco sarà di 181 siriani. Mi dicono che sarà uno sbarco di lusso: sono calmi, puliti e non avranno problemi a lasciare subito il Paese.

Arrivano su una nave mer­cantile, un portacontainer che li ha imbarcati in acque greche. La nave non può attraccare nel porto e i pas­seggeri vengono fatti salire su una piccola imbarcazione all’imboccatura

Mentre aspettiamo sulla banchina la portacontainer si spartisce il panorama con la San Giusto della Marina Militare. Enor­me, armatissima, puzzolente, accesa tutto il tempo. Prende parte anche alle missioni di Mare Nostrum. Sono le 19, siamo stati chiamati alle 17 e prima delle 20.30 l’attracco non avverrà. Con a noi sono pre­senti Croce rossa, Medici senza frontiere, Misericordia, Protezione Civile, Polizia, Guardia di Finanza, Carabinieri, Marina, Guardia Costiera, Autorità portua­le… Sono più le persone pronte ad acco­gliere che quelle che effettivamente arrive­ranno.

Fotografati senza permesso

C’è anche un giornalista di Catania che lavora per Repubblica. Non dico nulla sul suo operato siccome non lo conosco ma è immorale, oltre che illegale, scattare foto­ a minori che sbarcano sul suolo ita­liano.

Capisco la necessità di fare un re­portage ma se fossero bambini italiani dovre­sti far firmare la liberatoria ai genitori.

La legge parla chiaro: i minori hanno tutti gli stessi diritti sul suolo europeo. Ma nessu­no ci fa caso.

Fincalmente arrivano i siriani

Passo il tempo chiacchierando con tutti coloro che trovo sul molo per farmi rac­contare un po’ di esperienze e per chieder loro le prospettive che si aspettano. Uno mi dice che secondo lui l’Italia non spara ai barconi come fanno gli altri paesi solo perché costano troppo le munizioni. Final­mente i siriani arrivano. Se non sapessi che sono rifugiati che vengono da un pae­se in guerra che sta facendo migliaia di vittime penserei ad un traghetto turistico con destinazione Ischia o Lipari.

Appena toccano col fianco il molo parte l’applau­so. Ci salutiamo con la mano. Ci vogliono 10 minuti per trovare una scalet­ta per farli scendere.

Vengono condotti a 200 metri di distan­za, dove vengono offerti loro un panino, acqua, mela biscotti. Subito dopo vengono “identificati” dalla polizia: sono fotografa­ti e ad ognuno viene affidato un numero.

Nome, cognome, data…

Gli viene chiesto nome, cognome e data di nascita. Nessuna impronta. Mi dicono che quello è compito della scientifica ma lo fanno solo per i presunti scafisti. Per le 22 parte il primo autobus per Melilli. In­tanto sono tutti attaccati ai loro cellulari per chiamare i parenti in Siria ma soprat­tutto per organizzare la loro partenza per il nord Europa. Una ragazza mi dice che il fidanzato sta venendo a prenderla. Domani mattina partiranno in macchina per la Sve­zia, dove richiederanno asilo. Vengono trattati bene i siriani.

19/08/2014 Sempre risse fra egi­ziani. Un ragazzo lancia una bottiglietta d’acqua contro Enzo. Tensione, Carabi­nieri.

Questa mattina all’improvviso è tornato il ragazzo del Ghana con problemi psichici che era stato ricoverato in ospedale ad Au­gusta… era riuscito ad andarsene.

Per for­tuna gli uomini di Terres des hommes l’hanno riconosciuto per strada e hanno fatto in modo che fosse riportato in ospe­dale.

Pane duro

23/08/2014 Quando arrivo trovo la scuola in mano ad un dipendente comuna­le con gravi problemi psichici che gli im­pediscono di operare degnamente in que­sto contesto difficile. Questa persona non può essere assegnata ai turni delle scuole Verdi. È realmente pericoloso. Al mio arri­vo i ragazzi si lamentano perché il pane è duro. Scopro che il signore ha deciso di dare per colazione il pane del pranzo del giorno primo, duro e dal caratteristico sa­pore di cartone, perché “se hanno fame de­vono mangiare”.

L’inviato del grande giornale

Nel pomeriggio arriva l’ennesimo gior­nalista americano, del Washington Post, che dedica a questi ragazzi l’onore di un’intervista. Mi chiede se conosco ragaz­zi con storie tragiche. Gli faccio notare ce già il fatto di dover lasciare la famiglia a 13 anni mi sembra una storia tragica. Dice di no. Sta cercando qualcuno che magari sia stato torturato in Libia. E dice che non gli interessano i bengalesi. Peccato che tra di loro ce ne sia uno che ha fatto tre mesi nelle carceri libiche ed ha ancora il polso rotto.

Come se visitassero uno zoo

Decido di non aiutare il giornalista, sempre più disgustato verso questa gente che visita questi posti colmi di dolore come se visitasse uno zoo. Vengono qui, danno un’occhiata, ascoltano due storie e scrivono inutili reportage colmi di pieti­smo. L’atteggiamento è quello di che non vuole approfondire, cercare di capire e provare a dare un contributo per cercare possibili soluzioni. Io pensavo che ogni giornalista dovesse avere questo spirito. Qui non ne ho incontrati. Molti ragazzi ri­spondono alle domande del giornalista. Pensano che raccontando quello che non va le cose si sistemeranno.

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