martedì, Dicembre 10, 2024
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Amici miei

Bandiere e panni sporchi: tutto in piazza. C’è molto da camminare, quest’anno. Per cui, allacciamoci bene le scarpe, e andiamo avanti

Beh, insomma, nel 2020 ci siamo davvero. Magari qualcuno di noi, a Capodanno, poteva sperare che fosse tutto un gioco, che passata la festa si sarebbe tornati al solito tran-tran degli anni grigi. E invece no. Si ammazza, si urla, si bombarda allegramente come in ogni decennio nero che si rispetti. Perciò, senza tante chiacchiere rimettiamoci al lavoro, almeno noi Siciliani.

Veniamo, per quel che ci riguarda, da un anno impiegato bene. Dal punto di vista giornalistico – siccome fra le altre cose siamo “anche” un giornale – abbiamo fatto abbastanza il nostro dovere. Montante, Saguto, Ciancio – padronato mafioso, malagiustizia, regime – non solo li abbiamo “coperti” ma l’abbiamo fatto per primi, con risultati concreti, noi vincitori e loro nell’angolo o in galera.

Non è stata una lotta di massa – il popolo siciliano, in questa fase, si fa gli affari suoi – ma una battaglia di pochi. Questi pochi, però sono stati sufficienti (Never was so much owed by so many to so few“) e giovani giornalisti, anche stavolta, hanno raggiunto la vecchia banda mettendosi al lavoro. Martedì, il primo incontro con i ragazzi nuovi di quest’anno.

Sul piano “politico” (la “politica” nostra, che è una cosa di strada) è stato pure un buon anno. Il cinque gennaio, il giorno in cui riepiloghiamo tutto quanto, è stata una giornata corale. Non solo antimafia ma anche antirazzismo. Viviamo in un paese in cui signore perbene ridono davanti al cadavere di una bambina, se è una bambina negra. Noi sappiamo benissimo che cosa ci avrebbe detto di fare Giuseppe Fava, in un paese del genere, e l’abbiamo fatto. Lamentele e minacce, ovviamente, dappertutto: ma non ce ne frega di quelle dei mafiosi, figuriamoci di quelle dei poveri politicanti razzisti.

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(Piccolissima nota personale: è bellissimo avere tanti amici. Gli auguri dei settant’anni, per dirne una, sono stati un casino, manco ne avessi fatto diciassette: e tu pensa che c’è gente che si arrabatta a diventare a diventare ministro e onorevole quando sarebbe così facile vivere fra gli esseri umani).

Ai nostri amici chiediamo – se possiamo permetterci – di essere vicini ai Siciliani, concretamente, in quest’anno fortissimo che andiamo ad affrontare. I Siciliani in tanti anni hanno coinvolto, dappertutto, le persone più belle. Ogni tanto, in un’occasione qualunque, si voltano e si ricordano di quel che sono, non solo singolarmente ma proprio come storie vissute, come storia comune. E se questo non fosse solo un momento? Se ci riuscisse – in quest’annata drammatica eppure così piena di promesse – a mantenerci insieme per più di un istante, non dico come organizzazione ma come presenze, idee, scambio, magari come semplice “ci sono anch’io”?

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I Siciliani, a Catania, sono uno dei luoghi della società civile. Ce ne sono vari altri, gruppi, centri sociali e parrocchie, che negli ultimi anni sono molto cresciuti come lavoro concreto e come capacità di stare insieme. Di questi, alcuni sono strettamente legati ai Siciliani e sono il Giardino di Scidà e il Gapa. Il Giardino – bene confiscato alla mafia – esiste da pochi anni ed è gestito da un nucleo di efficientissimi giovani compagni. Il Gapa fa antimafia sociale a san Cristoforo e il fondatore, con Toti Domina, nonché figura storica è Giovanni Caruso.

Giovanni sarebbe quello, ironico e grande e grosso, col basco dietro allo striscione dei Siciliani. Potrebbe essere anche quello che corre in macchina con me (io reporter di mafia e lui fotografo d’assalto) ai tempi del Giornale del Sud, oppure con Dino Frisullo ai tempi del Kurdistan, oppure nel Chiapas quando c’era Marcos. Insomma, è un personaggio, anche se lui non lo sa. “Vediamo cosa dicono i ragazzi” è la sua frase. Oppure “Forza, allacciamoci gli scarponi e andiamo avanti”. Litighiamo spesso, perché lui è un buono e paziente mentre io, che buono non sono, ho sempre fretta. Il Gapa, con lui, è andato avanti per trentatrè o trentaquattro anni, preciso come un orologio fra difficoltà d’ogni genere, pallottole sul balcone e ricorrenti minacce. Queste ultime (“Vi tagliamo la testa”) si sono moltiplicate da quando ci hanno assegnato il bene mafioso su cui abbiamo fatto il Giardino.

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Giovanni “non è migliore di quel Salvini che critica pubblicamente, né  del sindaco di destra di Catania che almeno ai poveri ci ha pensato veramente”. “Si dice contro la guerra e pacifista” ma in realtà non lo è affatto. “Inveisce e scrive contro i boss mafiosi” ma poi è come loro. Difende gli mmigrati ma “non crede che esiste un proletariato bianco”. “Butta le braccia al collo agli immigrati” e “vive bene di immigrazione”. E così via.

Tutte queste belle cose non vengono dalla locale sede di Casa Pound (che a Catania, alla fine, ha chiuso i battenti) ma direttamente dall’interno del Gapa, dove da qualche tempo c’è una cordata che vuole, con sano realismo, smetterla col vecchio Gapa per impiantare al suo posto un “Gapa nuovo” adeguato ai tempi: l’antimafia è una bella cosa, ma è meglio che la facciano gli altri. Una manifestazione di protesta nella piazzetta occupata dagli spacciatori? Boh: ma ora no; poi se ne parla. Spiegare ai ragazzi che fanno sport che il potere mafioso è quello che gli ammazza il quartiere? Che c’entra: qua si fa sport, mica politica. Aiutare le ragazze a fare la “Scuola e libertà” per le vie del quartiere? Nooo, quelle vogliono solo farsi i soldi col pretesto della scuola.

Aggiungi qualche signora perbene di quelle che al Gapa ci vengono  una volta l’anno, un po’ di gelosie classiche “soggira-nuora”, un pizzico di grilleria (ma quella brutta, leghista, non quella generosa) e il gioco è fatto: anche il Gapa ha i suoi bravi “rottamatori”, che magari non concluderanno granché ma intanto rallentano scuola, interventi sociali e tutto quanto.

Quello che deve “fare politica” ma ha sbagliato indirizzo. Quello che ai ragazzi insegna tutto meno le cose scorbutiche che salvano la vita. Quello che non trova il coraggio di farsi una bella risata e tornare indietro. Quello che per forza deve fare il liderino perché nel mondo moderno ormai si usa così – tutti questi, ci sono, e anche qualcuno in più. In genere sono brave persone, generose, incazzose, con molte cose buone alle spalle ma nella pancia un rimuginìo di rancori. Adesso devono scegliere, non perché lo dice qualcuno ma perché la vita va avanti e lascia indietro. Mi piacerebbe aiutarli, trovare le parole buone e giuste, davvero. Ma purtroppo in questi casi ognuno se le deve trovare da sè.  

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Ma scusa, ma perché ci racconti tutte queste belle cose? Ma i panni sporchi non si lavavano in famiglia?

Eh no, caro mio. Da noi si lavano al lavatoio pubblico, davanti a tutti. Perché non siamo il circolo dei cari amici che debbono fare il dibbattito il sabato sera. Siamo la banda dei disgraziati che debbono camminare, un giorno dopo l’altro, con le vesciche ai piedi ma senza fermarsi mai. Perché stanno andando da qualche parte, sparpagliati ma insieme, e sanno che serve a qualcosa.

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