mercoledì, Dicembre 11, 2024
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“Il giocattolo dell’antimafia”

Tanti modi di fare “an­timafia:” alcuni onesti, altri no. Ma anche fra gli onesti si litiga, qual­che volta…

Recentemente il pittore Gaetano Porcasi ha dipinto un quadro con questo titolo, dove si raffigura un palcoscenico con una tenda aperta da una mano, al cui polso sta un vistoso cronometro: sul palco entra un cavallo bianco con due rotelle a pedali, dietro il cavallo ci sono alcuni scheletri, un libro a terra, quattro fari in alto e uno in basso a illuminare il palco e, in bella evidenza una telecamera e un microfono; sullo sfondo il pubblico. Difficile illustra­re tutti i simbolismi dell’opera, anche per­ché Porcasi, nelle sue raffigurazioni, si serve spesso di riferimenti simbolici non sempre di facile lettura o in linea con i normali parametri di coerenza logica. E d’altronde l’irrazionalismo è stato sempre uno dei moventi che alimentano alcuni aspetti della creatività artistica. 

L’antimafia 

Comincerei dal titolo: personalmente non ritengo che l’antimafia sia un giocat­tolo, né che con essa si possa giocare.L’antimafia è una cosa seria, fatta di lot­te durissime, bagnata del sangue di centi­naia di uomini barbaramente uccisi per avere creduto nella possibilità di avere una Sicilia, un’Italia, un mondo migliore.

Sulla via scoscesa dell’antimafia c’è una fila di morti, come ben sa Porcasi, perché con lui abbiamo realizzato un libro che è una sorta di storia illustrata della mafia. Dietro di essi, malgrado i tentativi di di­luire l’antimafia in una sorta di “bro­do” co­mune trans-ideologico, c’è in gran par­te il colore rosso, come il sangue delle vit­time e come il colore delle idee nelle quali esse hanno creduto.

E pertanto con l’antimafia non si gioca, non si possono fare affari in suo nome, non si può mettere in vetrina una vittima di mafia per conseguire profitti o non si possono nutrire fini segreti per costruire carriere politiche, per sciacquarsi la boc­ca, per confermare equilibri sociali sedi­mentati nel tempo, al punto da sembrare immutabili.

L’Antimafia è lotta contro l’immobilità, contro la conservazione, contro il privile­gio, contro la divisione in classi della so­cietà, contro l’iniqua distri­buzione della ricchezza, contro l’illegalità strisciante, contro il mostruoso circuito del pizzo, della corruzione, della tangente, dell’estorsione, del ricatto, del clienteli­smo, della violenza, del mancato rispetto per la vita oltre che per la dignità alla qua­le ha diritto ogni uomo.

Si sostiene da qualche parte che l’anti­mafia sia nata con la mafia, come forma di lotta contro di essa, con forti movimen­ti sociali di rivolta e di ribellione contro le prepotenze, con martiri spacciati per de­linquenti e delinquenti ai posti di governo.

Di fatto tutti coloro che hanno cercato di far carriera attraverso le idee di rivolta, ma anche quelli che le hanno seguito o in­seguito con la nobile bandiera dell’illusio­ne, sono stati quasi sempre fagocitati dalla violenza del potere.

Quando Falcone e Borsellino mostraro­no che si poteva fare antimafia facendo bene il proprio lavoro di magistrati, ma a condizione che anche altri settori della so­cietà si dessero qualche elementare regola d’onestà, di colpo spuntò una serie di per­sone, sino ad allora sommerse, che comin­ciarono a fare “professione d’antima­fia”.

Sciascia fu il primo a sollevare la que­stione e a rilevare che per alcuni l’Anti­mafia era lo strumento e la via più facile per far carriera. (Corriere della Sera 10 gennaio 1987). “In nome dell’antimafia si esercita una specie di terrorismo, per­ché chi dis­sente da certi metodi o da certe cose è su­bito accusato di essere un mafio­so o un simpatizzante” (Intervista al Tg2). 

I “professionisti” 

Tra costoro secondo lui c’era Leoluca Orlando, ma anche Paolo Borsellino. Si ricordi che a quella data Sergio Mattarel­la, oggi presidente della Repubblica, era commissario della Dc in Sicilia e lo fu sino al 1988, quindi, anche lui con Orlan­do, è da considerare uno degli artefici di quella “primavera siciliana” che sembrò davvero far credere che il mondo potesse cambiare di colpo.

Sciascia, per dirla in siciliano, la “sca­sciò”, cioè individuò come bersaglio da affondare alcuni settori dell’antimafia senza preoccuparsi di di­stinguere quanto, tra di essa era dovuta a una normale affer­mazione delle proprie qualità e dei risulta­ti del proprio lavoro, come nel caso di Borsellino, quanto po­tesse essere frutto di una autentica volontà politica di rinnova­mento, come nel caso di Orlando, e quan­to solo ricer­ca di visibi­lità o strumento per far carrie­ra.

Borsellino non replicò e continuò a pro­fessare la sua ammirazione per Sciascia come scrittore, ma l’amarezza che provò sarà stata certamente profonda se, un mese dopo la morte di Falcone, il 26 giu­gno 1992, ebbe a dire: “Giovanni ha co­minciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, comincia­rono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse comin­ciò a morire l’anno prima: quando Scia­scia sul Corriere bollò me e l’amico Leoluca Orlando come professionisti dell’antimafia” 

La caccia 

Da allora è diventato di moda andare alla caccia di professionisti dell’antimafia, affibbiare questa etichetta a chiunque pro­fessi l’antimafia, a chi mette a rischio la propria persona, pur di operare per creare una svolta, per tracciare solchi ben defini­ti tra l’onestà e il malaffare.

E’ la vendetta mafiosa, l’arma di resi­stenza e di offesa con cui la mafia tenta di demolire chi può rappresentare per lei un ostacolo, un peri­colo, un potenziale o rea­le nemico, specie quando tenta di convin­cere gli altri, crean­do aggregazioni politi­che, usando mezzi di diffusione delle idee, facendo ricorso, se ne ha il potere, alla repressione, attra­verso l’operato delle forze dell’ordine e della magistratura, op­pure realizzando progetti di educazione alla legalità, solu­zioni artistiche, leggi e quant’altro serva a costruire alternative non violente o forme d’economia non fon­date sullo sfruttamen­to.

A volere avventurarsi in una ipotesi psi­canalitica, si potrebbe pensare che la “ma­fiosità” introiettata attraverso la trasmis­sione ereditaria di modelli di comporta­mento, idee, luoghi comuni, modi di pen­sare, di giudicare, di condannare, si espli­cita anche attraverso queste forme di con­danna, all’apparenza giustificate, ma co­munque determinate e manifestate dall’originario e incancellabile “sentire mafioso”. Ma questa è una cattiveria nella quale non è opportuno avventurarsi, altri­menti dovremmo spianare la strada a quelli che affermano che “siamo tutti ma­fiosi” o che, come dice Alfio Caruso, “i siciliani non possono non dirsi mafiosi”.

La guerra 

E andiamo ai termini del contendere: a Partinico si è scatenata una guerra senza esclusione di colpi tra il “pittore antima­fia” Gaetano Porcasi, che, da qualche anno ha rinunciato a questa autodefinizio­ne e si è ridefinito “pittore d’impegno so­ciale”, e Pino Maniaci, portavoce di Tele­jato, autodefinitasi anch’essa “TV antima­fia” . Due modi di fare antimafia su bi­nari diversi, uno attraverso l’arte, l’altro attra­verso il giornalismo e l’informazione me­diatica. Entrambi da tempo conducono an­che una battaglia contro alcuni aspetti del mondo dell’Anti­mafia, parlando di “ma­fia dell’Antimafia”. Porcasi sostiene che le associazioni antimafia, a partire da Li­bera e Addio Pizzo, vanno al di là dei loro obiettivi di emancipazione sociale, realiz­zando redditizie attività commerciali o usando i vari canali del potere per ottene­re contributi spesso spesi senza consegui­mento di risultati.

Maniaci sostiene che è l’Antimafia pro­fessata da alcuni settori della magistratu­ra, soprattutto nell’appli­cazione delle mi­sure di prevenzione, ad avere creato una sorta di circuito perverso dove lucrano fi­gure poco oneste e incapa­ci di ammini­strare i beni confiscati e ma­gistrati spesso­complici di queste situazio­ni. Accomuna entrambi l’accusa che si fanno reciproca­mente di utilizzare l’eti­chetta dell’antima­fia, il primo per vendere quadri, il secon­do per fare audien­ce.

Fino a poco tempo fa Porcasi ha realiz­zato diverse tele su Maniaci e sul lavoro di Telejato, che sinora hanno fatto bella mostra presso gli studi della piccola emit­tente. A inasprire gli animi è stata la bar­bara esecuzione dei due cani di Pino Ma­niaci, trovati strangolati col fil di ferro, chiaro avvertimento mafioso. E tuttavia alcuni settori di Partinico, bersaglio degli strali di Maniaci, per ven­dicarsi ed estrin­secare la loro ostilità han­no messo in giro la voce che era stato lo stesso Maniaci ad assassinare i suoi due cani per farsi pub­blicità e aumentare la sua audience. Non è la prima volta che questo accade: la macchina del fango ha coinvolto spesso Maniaci in una serie di altre maldi­cenze, secondo tutti i canoni praticati dal­le socie­tà mafiose: iso­lare le persone sco­mode, togliere loro cre­dibilità, additarle al pub­blico ludibrio e, in ultima soluzione, eli­minarle.

Porcasi sem­bra avere prestato il fianco a queste mal­dicenze, attraverso al­cune di­chiarazioni avventate e qualche insinua­zione compar­sa sul suo profilo face­book. Lui sostiene di avere solo parlato di “ma­schere piran­delliane”. Una volta in pos­sesso di inop­pugnabili prove, Maniaci si è scatenato, replicando alle maldicenze e accusando un giornalista locale e Porca­si di vergognose insinuazio­ni, degne dei peggiori mafiosi.

Successivamente è com­parso un artico­lo del solito giornalista (che una volta la­vorava a Telejato) sul Giornale di Sicilia: in esso si sostiene che la telecamera e i microfoni raffigurati nel quadro sono un chiaro riferimento a chi, attraverso l’anti­mafia cerca di ridare una verginità al suo discusso passato, cioè a Maniaci. Imme­diata la risposta di Maniaci che, già scot­tato, ha accusato il giornalista di svendere la sua dignità per i pochi soldi con cui gli viene pagato un articolo e Por­casi di esse­re un imbrattatele, di non sape­re esprimer­si in taliano, di avere svendu­to la sua no­mea di “pittore antimafia”, di usare la pit­tura antimafia per vendere i suoi qua­dri.

Il quadro 

Ma torniamo per qualche minuto al qua­dro: mi pare indovinata la metafora del cavallo di Troia, ridotto a giocattolo, di cui alcuni si servono per penetrare nella cittadella della legalità, cioè nel circuito delle istituzioni.

Si potrebbe pensare ai tanti commer­cianti, anche a esponenti del­la Confindu­stria siciliana, che professano l’antimafia e si iscrivono a Libero Futuro o ad Addio Pizzo, pur non avendo del tut­to rescisso i legami con il circuito mafioso che costi­tuisce il brodo di cultura dei loro affari.

Ma si può pensare a politici che fanno professione d’antimafia. Gli schele­tri alle spalle sono il chiaro retaggio di complici­tà che si cerca di occultare.

Si po­trebbe anche pensare che il palco­scenico dell’antimafia, servendosi del ser­vizio complice delle telecamere e dei giornalisti asserviti al potere, tenta di dare una im­magine positiva di sé e del suo operato. Forse questa sarebbe la maschera piran­delliana. Volendo si potrebbe anche dire, dalla presenza del libro, che anche gli in­tellettuali spesso si associano a que­sta an­timafia da facciata. Sul cronometro non saprei che dire: forse che il tempo passa ma tutto resta uguale.

Per contro l’articolo in questione finisce col distruggere il significato generale del quadro, e lo legge come un momento di ripicca di una vicenda perso­nale. Porcasi, non ha comunque sinora smentito l’inter­pretazione del giornalista né le maldicen­ze attribuitegli su Maniaci canicida. 

Il vero nemico dell’antimafia 

E sia­mo alle solite: il vero nemi­co dell’Anti­mafia non è da ricercare all’esterno, nel mafioso, ma all’interno, nella pretesa di essere depositari della ve­rità e considerare nemici gli amici che, per qualche ragione, dissentono.

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