giovedì, Aprile 18, 2024
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A volte ritornano. E non bisogna dimenticare

Uscito nel 1985 dalla finestra di un frettoloso trasferimento dalla procura di Catania a quella di Messina, Aldo Grassi (questo il nome), rientra nella cronaca 27 anni dopo, ma dalla porta principale del Palazzo di piazza Cavour, Roma, dove ha sede la Corte di Cassazione.

Passati quasi tre decenni e mutato lo scenario nazionale (non c’è più il Muro di Berlino, né la prima Repubblica, né la Lira e neanche Falcone e Borsellino, ma ci sono telefonini e i-Pad e Berlusconi è stato tre volte premier), Grassi ora siede sulla poltrona di presidente di sezione penale della Suprema Corte. Quella corte che ha sancito la cancellazione con rinvio in appello del processo di secondo grado al senatore Marcello Dell’Utri, accusato di concorso esterno a la Cosa nostra siciliana.

Il principio della presunzione di innocenza fino a sentenza passata in giudicato è talmente sacro che non si discute (magari cercando di non dimenticare che il vero garantismo giudiziario è fatto anche di “leggi uguali per tutti”) ed è democraticamente pericoloso pensare che nei tribunali “il sospetto” sia “l’anticamera della verità”, ma fuori dalle aule dei tribunali bisognerà pur parlare delle sentenze e di chi le fa.

E allora, Aldo Grassi? Chi era costui e perché andò frettolosamente via da Catania?

Il suo nome apparve per la prima volta sulle cronache sul finire del 1982, esattamente negli atti del Consiglio superiore della magistratura.

A palazzo dei Marescialli, sede del Csm, in quei mesi il “caso Catania” teneva banco e per la prima volta affiorava anche sui giornali nazionali: il generale Dalla Chiesa, appena ucciso a Palermo, aveva detto che la mafia aveva messo radici anche nella Sicilia orientale. Rocco Chinnici, Pio La Torre, il procuratore Costa, il presidente della Regione Piersanti Mattarella e tanti altri uomini (giudici, poliziotti) ai vertici dello Stato in Sicilia erano stati uccisi. La rivista “I Siciliani” stava per uscire in edicola.

Il “caso Procura d Catania” fu il primo, gravissimo (e forse insuperato) caso di presunta corruzione a palazzo di giustizia che la storia giudiziaria italiana ricordi.

Il nome di Grassi era, più precisamente, scritto negli atti della relazione firmata dagli ispettori ministeriali (guardasigilli era Mino Martinazzoli) inviati nella città siciliana anche su sollecitazione

dell’allora capo dello Stato Sandro Pertini, a sua volta sollecitato da una lettera del professor Giuseppe D’Urso, urbanista catanese autore di una storica denuncia sulla presenza di un sistema “massomafioso”a Catania.

A Catania, in quegli anni, la denuncia di D’Urso non la poteva leggere nessuno perché il quotidiano “La Sicilia” – unico organo di stampa in città – non ne dava notizia e allora “I Siciliani” colmarono anche quella vistosa lacuna informativa.

A palazzo dei Marescialli, i cronisti ventenni del giornale di Giuseppe Fava arrivarono armati degli unici strumenti dell’epoca: taccuino e curiosità di sapere e di andare alle fonti. Nella loro corposa relazione, gli ispettori del ministro avevano scritto il romanzo della corruzione a palazzo. Gli atti erano pubblici e alcuni consiglieri (il laico Alfredo Galasso e il togato Raffaele Bertone) confermarono a “I Siciliani” la gravità delle notizie contenute nella relazione ministeriale.

Da alcuni mesi, la guardia di finanza aveva inviato in Procura una denuncia su un giro miliardario (in lire) di evasioni fiscali, gestito da un faccendiere di Agrigento, tal Giuseppe Cremona, alcuni anni dopo ucciso misteriosamente in un agguato mafioso.

Il rapporto della Guardia di Finanza accusava, tra gli altri, i quattro cavalieri del lavoro Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro (tra i più potenti e ricchi costruttori dell’epoca in Italia, i primi due tra i primi dieci nelle classifiche nazionali per fatturato) di essere parte dell’affollato sistema di evasione fiscale (ampiamente documentato nei controlli della Finanza): ma la cartella contenente quel rapporto era chiusa da circa un anno in un cassetto della Procura, con su scritto “atti relativi a….”, ma senza atti investigativi e senza indagati (allora si diceva “inquisiti”).

Perché quella denuncia non andava avanti? Perché – questo il “sospetto” del professor D’Urso – i vertici dell’ufficio della pubblica accusa di quell’epoca a Catania non erano estranei al sistema di

potere a Catania. Su cosa si fondava l’accusa? Su cose anche banali, per esempio il cartoncino di presentazione di un convegno di una corrente della magistratura associata, “Magistratura Indipendente”, alla quale aderivano il procuratore reggente Giulio Cesare Di Natale e il sostituto procuratore di punta Aldo Grassi.

Quel convegno era sponsorizzato da Rendo, Graci e Costanzo.

Domanda: può un pm, chiamato a indagare su un imprenditore, andare a chiedere al suo potenziale indagato soldi per sponsorizzare un convegno della propria corrente sindacale?

La risposta a chi legge, detto che chiedere una sponsorizzazione non è un reato, ma detto anche che la Costituzione e alcune ovvie leggi morali non scritte dicono che i giudici devono essere e apparire indipendenti e super partes.

Ma nel 1982 nella relazione ministeriale degli ispettori di Martinazzoli e che poi diventò un pezzo in apertura del primo numero de “I Siciliani” (titolo in stile anni 80: “L’ermellino, la volpe e la lupara”) e nelle relazioni successive di Csm e mnistero, era scritto anche altro.

Roba dura e da film giallo: gli ispettori avevano trovato le prove di una “correzione a penna” a margine dei certificati dei carichi penali pendenti intestati a Rendo e Costanzo.

Qualcuno aveva retrodatato a mano l’iscrizione dei due nomi eccellenti come inquisiti in alcuni processi. E ciò per permettere alle loro imprese di partecipare a gare d’appalto: la legge La Torre vietava che imprenditori con “precedenti penali” potessero prendere parte a gare.

Bene. Questo scrivevano gli ispettori e proponevano alla prima commissione di aprire un procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale a carico di Di Natale e Grassi. E per entrambi segnalarono al ministro anche l’esigenza di aprire un processo disciplinare.

Più tardi, nel corso del 1983 e 1984, questa vicenda andrà avanti e alla fine, di fronte alla prospettiva di essere trasferiti o sanzionati disciplinarmente dal Csm, i due alti magistrati sceglieranno di evitare le sanzioni: Di Natale chiedendo di andare anticipatamente in pensione; Grassi chiedendo il trasferimento alla Procura di Messina.

All’inizio degli anni 90, ecco Grassi in Cassazione a Roma, dove lo ritroviamo ora presidente della sezione penale che cassa la sentenza d’appello a Dell’Utri.

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