venerdì, Aprile 26, 2024
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Un manager di cosa nostra

Estradato dalla Thailandia Vito Roberto Palazzolo, tesoriere di Riina e Provenzano. “Potrebbe chiarire molti misteri italiani”

La Corte penale di Bangkok il 20 dicembre ha ordinato l’estradizione del finanziere italiano Vito Roberto Palazzolo, considerato il riciclatore di denaro sporco per la mafia. Condannato nel 2009 per associazione mafiosa a nove anni con sentenza definitiva, Palazzolo era stato arrestato lo scorso marzo in Thailandia mentre si preparava a lasciare il Paese. L’ambasciata italiana a Bangkok ha condotto nove lunghi mesi di battaglie diplomatiche, con il boss che ha tentato il tutto per tutto, forte della cittadinanza sudafricana acquisita nei quasi 25 anni anni di latitanza vissuti alla luce del sole in Sud Africa.

Protetto dalla falsa identità di Robert Von Palace Kolbatschenko, dal 1988 viveva infatti da uomo libero nello Stato africano, frequentando i salotti buoni dell’alta finanza e dell’imprenditoria locale. Tra i suoi business più conosciuti la produzione di vini, il controllo di sorgenti idriche, l’imbottigliamento dell’acqua “La Vie” (venduta alla compagnia aerea di bandiera “South African Airways”), l’allevamento di struzzi, lo sfruttamento minerario del terreno per l’estrazione di pietre preziose in Angola e la gestione in Namibia di una esclusiva riserva di caccia frequentata da facoltosi personaggi locali.

Palazzolo l’imprendibile

Era ricercato sin dagli anni ’80, ai tempi della storica indagine Pizza Connection, coordinata da Giovanni Falcone. Le autorità italiane e straniere eseguirono importanti sequestri di sostanze stupefacenti in Inghilterra, Canada, Olanda e alla frontiera italiana con la Svizzera.

Le indagini che seguirono alle operazioni, condotte anche negli ambienti bancari, permisero di comprendere che a tirare le fila dell’illecito traffico vi era un’unica organizzazione con molteplici ramificazioni, la quale occupava un circuito operativo e finanziario che vedeva coinvolti paesi di tutto il mondo: dalla Thailandia e l’India (fornitori di eroina e hashish), alla Turchia e il Libano (fornitori di morfina base), dall’Italia agli Stati Uniti, al Canada, alla Gran Bretagna e alla Svizzera. Alla complessa associazione appartenevano diversi gruppi di persone che operavano in sinergia e fra il 1980 e il 1983 trasferirono circa 50 milioni di dollari.

La loro attività, gestita da Cosa Nostra, aveva base centrale in Sicilia, dove veniva raffinata la morfina base proveniente dalla Turchia e dal Medio Oriente e rientravano i proventi delle vendite del prodotto finito, realizzate negli Stati Uniti. Punto di convergenza era invece la Svizzera, paese in cui il denaro, attraverso conti bancari, veniva materialmente incassato e reso disponibile per altri traffici. Tra i tanti conti correnti in uso all’organizzazione ce n’era uno, denominato “Coer Establissement” della UBS di Ginevra, su cui operava /oltre ad Alfonso Caruana, a Giuseppe Cuffaro ed a Pasquale Cuntrera) proprio lui, Vito Roberto Palazzolo, che partecipava attivamente sia come intermediario tra fornitori e boss mafiosi per l’approvvigionamento della droga, sia come collettore dei proventi destinati agli appartenenti all’associazione mafiosa.

Palazzolo contribuì poi, con operazioni bancarie di ridistribuzione delle somme, al rifinanziamento di singoli episodi di traffici che si sono nel tempo susseguiti.

Nel 1984 venne arrestato in Svizzera. La sua pena cinque anni e mezzo di reclusione a fronte delle pesantissime condanne che le autorità italiane e americane distribuirono a decine di altri imputati. A soli pochi mesi dall’inizio della detenzione, durante la quale venne più volte richiesta e mai ottenuta la sua estradizione in Italia, le autorità elvetiche, il 26 dicembre del 1986, commisero un errore concedendogli un permesso premio. Palazzolo non fece più ritorno in carcere rifugiandosi in Sudafrica con un passaporto falso intestato al compagno di cella Domenico Stelio Frapolli.

Il 31 gennaio dell’88 venne nuovamente arrestato nei pressi di Città del Capo e successivamente estradato in Svizzera; le autorità elvetiche lo trovarono in possesso di un passaporto e di una carta d’identità, rilasciati dallo stato del Ciskei, intestati a Robert Von Palace Kolbatschenko. Con questa nuova identità, nel 1994, con l’avvento al potere dell’African National Congress e l’inserimento del Ciskey fra gli stati membri, ottenne il passaporto ufficiale. Anche questa volta il carcere è solo una breve parentesi: 18 mesi di ottimi trattamenti, nonostante la sua precedente evasione, e poi la liberazione, presumibilmente per buona condotta, e il rientro definitivo in Sudafrica.

Dallo stato africano riuscì a evitare la prima richiesta di estradizione, emessa il 24 dicembre del 1991, nascondendosi sotto le ali dell’allora dittatore militare del Ciskei Oupa Gqozo.

Negli anni a seguire la Dia mise sotto controllo le utenze telefoniche intestate al Palazzolo scoprendo, tra l’altro, che questi era in costante contatto con la sorella Sara. In particolare emerse che quest’ultima svolgeva un ruolo di broker nelle attività commerciali svolte dai fratelli Vito, Roberto e Pietro Efisio in Sudafrica.

Nel corso di una telefonata intercettata il 22 marzo del 1996, il Palazzolo chiese alla sorella di prendere contatto con tale Abbate, medico di Cinisi, perché costui avvertisse Giuseppe Bonomo della necessità di contattare suo padre Giovanni, latitante, ospite del Kolbatschenko in Sudafrica. Il contatto tra i due avvenne quello stesso giorno. Due mesi dopo, nell’ambito di un’operazione di polizia condotta nel territorio di Partinico, sfuggirono alla cattura due personaggi strettamente legati al boss Giovanni Brusca. Uno di questi è proprio Giovanni Bonomo, l’altro è Giuseppe Gelardi. Entrambi rifugiati nel paradiso sudafricano del Palazzolo. Il 30 maggio, con una ulteriore telefonata, Giacomo Gelardi comunicava a suo fratello di “non chiamare più per nessun motivo, in quanto sono successe male cose… bruttissime…”. Il riferimento era non solo all’operazione condotta dal Ros, ma soprattutto alla conferma che Bonomo e Gelardi si trovavano in Sudafrica.

Il 19 febbraio del 1997 il giudice per le indagini preliminari di Palermo emise un’ulteriore ordinanza di custodia cautelare nei confronti del boss di Terrasini. L’accusa, questa volta, è di associazione mafiosa, ”per avere, in concorso con numerosi altri associati, tra i quali Riina Salvatore, Bonomo Giovanni e Gelardi Giuseppe”, commesso reati “finalizzati al traffico di sostanze stupefacenti e di T.L.E., nonché di armi e valuta” “e per avere, inoltre, favorito la latitanza, anche in territorio straniero, di associati mafiosi”.

Le indagini che hanno portato alla richiesta di arresto, specificavano i giudici, riguardano fatti commessi successivamente al 29 marzo 1992 e nascono nell’ambito di un complesso procedimento riguardante il riciclaggio internazionale di pietre preziose e l’insediamento in Sudafrica di soggetti di origine siciliana legati a Cosa Nostra.

Nel giugno del 1998 arrivò l’ennesima richiesta di estradizione, ma ancora una volta venne bocciata. Persino Mandela, messo sotto pressione da autorità italiane, americane e stampa si vide costretto ad intervenire ordinando agli Scorpioni, l’élite dei corpi speciali del Sudafrica che raggruppa pubblici ministeri, poliziotti e agenti segreti, di indagare su Robert Von Palace Kolbatschenko. Niente da fare: in tribunale emerse a suo riguardo l’immagine di un uomo rispettabile come le sue amicizie.

Nel 2003, l’intercettazione di una serie di telefonate, sempre con la sorella Sara, avevano rivelato un suo tentativo di “aggiustamento” del processo in corso contro di lui, per il quale il boss aveva detto alla sorella di cercare il senatore Marcello Dell’Utri, specificando: “Non devi convertirlo, è già convertito”.

Come lo aveva definito in passato la Procura di Palermo, Vito Roberto Palazzolo è sicuramente “una delle più importanti e oscure figure dell’associazione Cosa Nostra”, inserito “da oltre vent’anni nelle dinamiche associative mafiose, con funzioni rilevanti di cerniera tra il mondo imprenditoriale internazionale e l’associazione criminale, con lo scopo precipuo di consentire a Cosa Nostra la gestione e il reimpiego dei capitali assunti illecitamente”. Un profilo che risalta ancora di più l’importanza dell’arresto.

In manette grazie a Facebook

L’operazione che nello scorso marzo ha portato al fermo del boss finanziere all’aeroporto di Bangkok, è avvenuta in maniera fulminea per violazione delle leggi thailandesi sull’immigrazione. La Procura di Palermo e l’Interpol erano sulle sue tracce ormai da due mesi, quando lo avevano individuato ad Hong Kong, prima che si spostasse improvvisamente in Thailandia. Per arrivare a lui avevano eseguito una serie di attività investigative, coordinate dalla locale Dda e sviluppatesi attraverso intercettazioni telematiche e acquisizione di notizie da fonti confidenziali. In particolare il Nucleo Investigativo, in collaborazione con il Ros, aveva seguito i profili Facebook e di altri social network riferibili al latitante e al nucleo familiare.

Ed ora gli sforzi compiuti potrebbero davvero essere ripagati con la notizia dell’estradizione. A risultare decisivo sarebbe stato il ruolo della Farnesina che, in collaborazione con l’Ambasciata, è riuscita a far pesare il mandato di cattura internazionale emesso dall’autorità giudiziaria italiana ai sensi dell’articolo 416-bis del Codice penale (associazione a delinquere di stampo mafioso). Infatti lo scorso 20 aprile le autorità thailandesi hanno disposto l’arresto a fini di estradizione di Palazzolo, accogliendo la richiesta italiana e il 9 luglio si è svolta a Bangkok la prima udienza del processo di estradizione.

In quella data l’Ambasciata italiana ha trasmesso alle autorità thailandesi la richiesta di rogatoria della Procura della Repubblica di Palermo, volta ad ottenere l’interrogatorio a Bangkok di Palazzolo da parte dei pm Ingroia e Paci. Un’istanza accolta lo scorso 10 ottobre da parte del ministero thailandese. Ora, dopo anni di richieste andate a vuoto, potremmo essere davvero ad una svolta anche perché il fascicolo su Palazzolo, nel frattempo, si era arricchito di nuovi elementi. Tra le carte presentate dall’ex procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, e dal sostituto, Gaetano Paci, alle autorità di Bangkok, vi era anche un verbale del pentito Giovanni Brusca, reso nel 2010, che chiama in causa Palazzolo come il fornitore di droga e dell’esplosivo di tipo Semptex (provenienti entrambi proprio dalla Thailandia). “Quest’ultimo è lo stesso utilizzato -sostiene il gip di Napoli Alessandro Modestino nell’ordinanza di custodia sui mandanti e gli esecutori della strage del rapido 904 del 23 dicembre 1984- anche per la strage di via D’Amelio”. Questo verbale è stato acquisito anche dalla Procura di Caltanissetta, che indaga sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.

“Nel 1986 -racconta Brusca durante una delle udienze del maxi-processo- io ero libero, Pippo Calò e Antonino Rotolo, che invece erano detenuti, mi chiesero di far sparire del materiale esplosivo che faceva parte di un arsenale che avevamo occultato a San Giuseppe Jato, e che aveva la medesima provenienza del materiale e della droga che erano stati rinvenuti nel casale vicino Roma, ove, nel 1985, era stato scoperto, dietro una parete , quell’esplosivo che era nella disponibilità del Calò e che venne poi ricollegato alla strage del Rapido 904”. Prosegue il pentito: “Tale materiale -e anche la droga- proveniva tutto dalla Thailandia, tramite il medesimo canale, ovvero Vito Roberto Palazzolo, attualmente latitante forse in Sudafrica”.

Ma il nome di Palazzolo emerge anche tra i partecipanti a una riunione con una delegazione italiana in Angola e compare nell’inchiesta sugli affari di Finmeccanica e Agusta condotta dalla Procura di Napoli.

Le accuse sono sempre state smentite dal prestanome dei boss. In un’intervista del 2010, rilasciata al quotidiano La Stampa, Palazzolo aveva dichiarato di essere un perseguitato, negando di conoscere i capimafia Riina e Provenzano. Tuttavia non negava di aver conosciuto i latitanti Giovanni Bonomo e Giuseppe Gelardi e, rispondendo alle domande, interveniva anche sul tema delle stragi. “È impossibile che i mafiosi abbiano fatto tutto da soli -sosteneva- Come potevano sapere gli spostamenti di un magistrato che viaggiava con voli privati di Stato? E poi che interesse avevano a colpire Falcone, quando ormai si era trasferito a Roma?”. Sull’ipotesi di una trattativa tra Stato e mafia aggiunse: “solo i capi del Ros lo sanno”: rivelazioni che il boss potrebbe tornare a fare di fronte ai pm.

Lo scorso giugno il suo legale, Baldassare Lauria, si era detto disposto a non opporsi all’estradizione “a condizione che venga celebrato un nuovo processo. Palazzolo è stato condannato in contumacia, nel 2007, a 9 anni di reclusione per mafia, in violazione dei diritti della difesa”. Ma oltre a ciò aveva anche sostenuto: “Vito Roberto Palazzolo potrebbe chiarire molti irrisolti misteri italiani”. E a quanto pare con l’estradizione sarebbero state portate avanti le premesse per una possibile collaborazione con la giustizia. Raggiunto da alcuni quotidiani, il legale di Palazzolo avrebbe infatti confermato: “Questo non è un pentimento ma un accordo alla luce del sole”.

“Per potermi difendere dall’accusa di essere un mafioso devo raccontare chi sono e cosa ho fatto nella mia vita di finanziere”, avrebbe detto il finanziere ai pm che l’hanno raggiunto in Thailandia nei mesi scorsi. Entro venti giorni è previsto l’arrivo in Italia, con destinazione top secret così come segreti restano i nomi che Palazzolo avrebbe citato nel corso dei suoi colloqui con i magistrati.

Quel che è certo è che la sua collaborazione potrebbe aprire scenari inediti e di grande rilevanza investigativa in particolare sui metodi del riciclaggio internazionale. E in tanti, forse, iniziano già ora a tremare.

 

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