giovedì, Dicembre 12, 2024
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Scoprì la mafia grigia e si alleò con lei

“Spero che qualcuno si ravveda e si penta del male fatto a me e alle istituzioni”, dice Bru­no Contrada pochi mi­nuti dopo la scarcera­zione notificatagli nella sua abitazione paler­mitana dalla poli­zia pe­nitenziaria. Il fine pena di Bruno Contrada è stato antici­pato di tre mesi

Si conclude così la ventennale vicenda giudiziaria e detentiva dello 007 arrestato dai suoi stessi colleghi della Polizia di Stato il 24 dicembre del ’92. In piena sta­gione delle stragi.

Vent’anni di autentica pena, prima nel dubbio delle accuse, poi, dal maggio 2007, nella certezza della condanna in via definitiva sancita dalla corte di Cas­sazione. Per gli ermellini, è un uomo del­lo stato al servizio della mafia militare e di quella stessa zona grigia di cui Contra­da parla in un rapporto del 1982 dopo l’uccisione del segretario del Pci, Pio La Torre.

Bruno Contrada rivendica i risultati di quelle indagini ma i magistrati di primo grado e la cassazione non la pensano allo stesso modo. Già nel 1979 Bruno Con­trada avrebbe agevolato l’espatrio da Pa­lermo del mafioso americano John Gam­bino sul quale indagava il capo della mo­bile, Boris Giuliano, ucciso pochi mesi prima. Un’indagine che porta al finto se­questro del banchiere Michele Sindona e all’omicidio a Milano dell’avvocato Mi­chele Ambrosoli.

Le accuse di concorso esterno contro Bruno Contrada non si basano solo sulle testimonianze dei pentiti. L’inchiesta ri­vela il suo interessamento per il rinnovo del porto di pistola per Alessandro Vanni Calvello principe di San Vincenzo espo­nente di quel gotha della borghesia ma­fiosa siciliana che Contrada rivendica di aver svelato e combattuto.

Contrada, per i giudici di Palermo con­fermati dai revisori di Roma, favorì la fuga e l’espatrio nell’84 di Oliviero To­gnoli indagato per riciclaggio di denaro di origine mafiosa.

Insomma, Bruno Contrada conosce, frequenta e favorisce la mafia grigia. In­vece, rende difficili gli ultimi giorni di vita dei suoi colleghi Boris Giuliano, Ninni Cassarà e Beppe Montana che in­seguono sin in Svizzera l’odore dei soldi di Cosa Nostra portando all’arresto di Vito Roberto Palazzolo. Tutti e tre muo­iono uccisi dalla mano nera della mafia militare, sopravvive il commissario Sa­verio Montalbano, destinato a compiti di routine dopo avere incrociato più volte e disdegnato i consigli autorevoli del colle­ga Bruno Contrada.

Quando Contrada parla di qualcuno che avrebbe danneggiato non solo lui ma le stesse istituzioni, il riferimento è chia­ro. Dietro gli agenti della Criminalpol che bussano alla porta di Contrada alla vigilia di Natale del ’92 ci sono Gianni De Gennaro, allora dirigente generale della Polizia, in procinto di assumere la direzione della DIA e Antonio Manganell­i, a quel tempo già insediato al verti­ce dello Sco, il Servizio centrale operati­vo della PS. L’ex capo della poli­zia e l’attuale, furono i veri registi dell’inchie­sta tesa a fare piazza pulita dei colletti bianchi fiancheggiatori che con la loro connivenza avevano consentito alla ma­fia militare di crescere indisturbata e uc­cidere decine di dirigenti, funzionari e agenti a Palermo. Tra loro gli uomini e la donna di scorta a Falcone e Borsellino. Contrada nel suo appartamento di via Maiorana ammette la sorpresa per il cla­more mediatico. “Non capisco perché ci siano tutti ‘sti giornalisti sotto casa, mica sono stato assolto. E’ finita la mia pena”.

salvatore.ognibene

Nato a Livorno e cresciuto a Menfi, in Sicilia. Ho studiato Giurisprudenza a Bologna e scritto "L'eucaristia mafiosa - La voce dei preti" (ed. Navarra Editore).

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