martedì, Ottobre 15, 2024
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Patologia di una decadenza: da Tatum ad Allevi

Di solito i giornali “impegnati”, quelli seri, non hanno una rubrica musicale, e se talvolta accennano all’argomento ne limitano l’interesse a quella di estrazione classica

Ultimamente bisogna dire che anche il jazz qua e là trova spazio tra le righe, magari per parlare di Bollani, Rava, Jarrett o Miles Davis, un po’ meno di Art Tatum, Ben Webster o Wayne Shorter. Perché succede questo è forse un po’ complesso spiegarlo in poche parole, ma diciamo che fattori come l’ignoranza e il condizionamento culturale giocano ruoli tutt’altro che secondari. Ignoranza è una parola forte e il tono potrebbe anche apparire sprezzante, ma se si pensa che Nina Simone è stata conosciuta in Italia grazie a uno spot pubblicitario di Chanel… A proposito di pubblicità, piccolo inciso, anche Giovanni Allevi, niente a che vedere con Nina Simone, ma definito dai media “la reincarnazione di Mozart”, ha beneficiato di uguale destino, e venduto milioni di dischi a destra e sinistra grazie a una seducente pubblicità televisiva. E sempre a proposito di Allevi e delle altre cose cui si accennava prima, mai sentito nulla di un certo Wim Mertens? Chiusa parentesi. Perché nei giornali “seri” non si parla di musica o al più solo di quella classica? Il flauto di Ulm, il più antico strumento musicale finora rinvenuto, risale a 35.000 anni fa. Prima di allora, chissà quanto prima, probabilmente ci si limitava a strumenti percussivi o alla riproduzione  con la voce dei suoni della natura.
35.000 anni fa, presumibilmente, i nostri antenati  producevano una varietà di attività mentali di quantità inferiore a quelle prodotte adesso, ed è opportuno supporre, per lo più asservite a funzioni basilari. Cibarsi, difendersi, procreare, e così via. Tra queste però c’era già la musica, che forse non serviva per mantenersi in vita, ma per crescere. Rimane un mistero perché la nostra natura abbia fatto ricorso alla musica, ma questo è, e a prescindere dalla distinzione tra colta e popolare. La musica, come il cibo, anche se non così legata alle capacità di sopravvivenza, è evidentemente un bisogno della razza umana, e come il cibo, non deve solo rispondere a requisiti quantitativi, ma anche qualitativi. Non sappiamo neppure perché si faccia ricorso alle metafore, ma ne conosciamo l’importanza. E la musica cos’è se non metafora o iperbole? Realtà virtuale. Naturalmente non bisogna dimenticare che si tratta di un linguaggio, e come tale soggetto a capacità di interpretazione, ma questo non rappresenta un limite, e sta nell’ordine naturale delle cose. Il punto allora potrebbe essere: a distanza di 35.000 anni nell’uomo è venuto meno il bisogno di musica?
Ma la risposta appare talmente ovvia che evidentemente la domanda da porsi è un’altra:
Di che musica abbiamo bisogno?  Naturalmente non è ipotizzabile una soluzione unica, ma va individuata singolarmente, come il fabbisogno energetico, culturale, etc… di ognuno di noi. E allora forse è a questo punto che cominciamo ad avvicinarci al vero problema. Chi gestisce la fornitura musicale? In base a cosa opera le scelte? E queste scelte sono funzionali al nostro bisogno di crescita? Le risposte stavolta sono facili: chi gestisce sono società, imprenditori, manager, le scelte sono operate in base alla risposta economica, e quindi non hanno alcuna corrispondenza con i nostri bisogni, gli stessi che ci hanno spinti molti anni fa a costruire il primo flauto. Non è una novità perché tutto ormai funziona così, ma sarebbe quantomeno auspicabile prenderne atto, averne coscienza, in modo da capire almeno perché ad esempio Fabio Fazio conceda ampio spazio nel suo talk show televisivo trasmesso in prima serata da Rai 3 all’ultimo disco di Tiziano Ferro, definendolo “interessante”, e quasi nessuno sa invece dell’esistenza di un CD che si intitola Alavò, la Sicilia nei canti della naca (pubblicato anni fa dall’ottima etichetta palermitana Teatro del Sole).  La musica è anche intrattenimento, e anche in questa forma le va riconosciuta dignità, ma se viene limitata a questa sola funzione, da qualche parte in noi si manifesta un decadimento, una mancata crescita, un impoverimento delle aspettative, e altrove, ben lontano da noi, la solita grassa corsa al profitto che tutto muove e tutto spiega.
Compreso forse il motivo per cui anche nei giornali “seri” non si parla di musica.

 

SCHEDA

Joachim Kühn
Free Ibiza
Out Note Records
OTN 012
Genere: Jazz

Un disco di solo piano jazz, nonostante la bellezza intrinseca dell’argomento, non sempre riesce a far scattare all’ascolto quel senso di coinvolgimento tale da spingere oltre un pur notevole apprezzamento. Spesso i pregi di cui ci si gratifica sono la raffinatezza del tocco, la fantasia, la particolare interpretazione del pianista, la perizia tecnica, l’ispirazione. Terminologia non vuota questa, ma che perde di interesse quando a essere toccate sono altre corde, quelle più profonde e nascoste di cui non conosciamo esattamente il nome. In questi casi diventa difficile parlare di un disco in quei termini, e non idonea la sapienza critica. In altre parole diremo allora che Joachim Kühn in quest’opera è riuscito a toccare vertici di interiorità impressionanti, facendoli emergere in totale e indifesa libertà. E ne è venuto fuori un ritratto crudo, complesso, commovente, e di rara bellezza e ricchezza musicale.

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