martedì, Aprile 23, 2024
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Le stanze che non abitiamo

Stanze vicine di case diverse

All’incirca al tempo in cui Margherita Emme scoprì con disappunto e un po’ di piacere che in effetti – e nonostante tutto – amava Fabio Bì e decideva mettendosi il calzino sinistro di andare a riprenderselo, in un palazzaccio al numero 40 di Via ///, il vecchio, Viola e Nazario abitavano tre stanze vicine di case diverse.

01-finestre sul cortile

Tutte le finestre del secondo piano erano sporche, tranne una. Lì viveva Viola, chiara di viso, scura d’occhi, dal dolce sorriso. Era affascinata dalle parole. Capitava di vederle incomprensibili fiumi di blu sulla mano destra (era mancina) se era inverno, o segnarsi chissacché a lato della gamba nella bella stagione, poggiata a un muro o in equilibrio come una gru.
Nazario la vide per la prima volta a inzupparsi di sole un pomeriggio in cui pioveva luce gialla. Parlava al telefono in un giardino assediato dal cemento armato con due melograni tristi a segnarne il confine; si esibiva in una danza strana, incrociando le gambe in saltelli irlandesi, come un folletto o una fata nei boschi. Poterla guardare lo rendeva felice d’avere occhi.

Il vecchio aveva fatto per molti anni il manutentore di cisterne dell’acqua sparse come funghi per i paesi della regione. Abitava tra il primo e l’ultimo piano.
Da giovane gli piaceva guardare cose e persone dall’alto, per questo aveva scelto di fare l’idraulico su quelle torri un po’ tristi e dopo di prender casa lontano dal suolo: da lì poteva vedere la gente e non essere visto, accoglierli senza paura d’esser cacciato. La sua Lisa invece amava guardare in alto: amava le storie di stelle, con Alnitak, Alnilam e Mintaka a far da cintura e “la guerriera” poggiata sulla spalla d’Orione. L’aveva conquistata così, portandola su uno dei funghi e lì, tra cielo e terra, su un faro di cemento tra mari di nebbia, avevano fatto un figlio che si chiamava Raffaele, come l’arcangelo che Dio aveva mandato a proteggere l’aria nel giardino dell’Eden.02-camera-studente

Ai nipoti, finché passavano da loro quei pomeriggi in cui il filo è una fune e lo spillo una spada, raccontava storie di contadini che per zappare meglio la terra sollevavano l’ombra degli alberi per grattare via l’inverno e i ricordi lontani, o quella di tre ragazzi che giravano dando soprannomi agli altri finché non avevano scordato i nomi veri e quel che significavano (persino i loro!), dimenticando il mondo e sé stessi. Elena e Lorenzo ascoltavano attenti, con le labbra a forma di “Ooohh” e gli occhi grandi grandi sotto i capelli a caschetto. Li aveva cari diversamente che i figli, perché loro non erano suoi. Li amava come si ama il secondo amore: senza mettersi al centro, con meno paure e aspettative, durasse quel che doveva. E durò qualche anno appena.

Nazario stava al piano terra e lavorava al mercato comunale per pagarsi da fumare e poter progettare di continuo il momento in cui avrebbe smesso. Aveva iniziato per una ragazza che gliela faceva sembrare una questione intellettuale. Diceva di sentire il sapore, di gustare il tabacco e il suo aroma come alcuni uomini amano la compiutezza di certi orologi.
Non sapeva cosa risponderle, la odiava perché non riusciva a trovare le parole adatte a dirle cosa credeva, ossia che mentiva a sé stessa perché fumare era un modo per essere accettata dagli altri all’inizio, diventato un rito poi e infine perché s’era guardata farlo nei ricordi di quelli che vedono nel passato un momento migliore d’adesso.

La desiderava, arrabbiato e insicuro di tutto tranne del fatto che lei avrebbe di certo trovato una risposta tale da farlo sentire uno stupido se le avesse parlato o – peggio – non gli avrebbe risposto affatto per cui, aspettando di schiarirsi le idee, fumavano in silenzio.
Lei studiava per fare il dottore e si lasciarono dopo la scoperta che ogni due settimane faceva dire messa per uno scheletro trovato chissà in quale cripta e tracciava progetti di bare, dove farlo riposare una volta laureata. La cosa che più lo aveva turbato era il disegno di quella a maniche corte, contro il caldo d’agosto.

Il vecchio era solo da tanto e ormai, chiuse le tende per non guardare più fuori e incartato il salone, viveva in una stanzetta al piano terra per non spendere troppo tenendo viva la casa. Non gli importava più. Il figlio gli aveva mandato una donna di servizio.

All’inizio l’aveva cacciata, offeso. Poi, senza parlare − anche perché erano poche le parole che l’una riusciva a capire e l’altro a sentire − avevano raggiunto un’intesa. Lei arrivava alle 7.30 ogni mattina, si cambiava d’abito e dopo aver sistemato il poco che c’era e che lui comunque riusciva a sparpagliare da bravo esecutore dei desideri dell’universo (vedi entropia), si acciambellava su una poltrona in un angolo, gli occhi socchiusi fino alla sera. Lui cucinava e, nei pomeriggi d’inverno, le metteva una coperta sul grembo che lei pareva non notare, persa in pensieri d’Europa dell’est. Era paffuta, pallida, coi capelli raccolti in una crocchia, i pantaloni di lana e dei dolcevita che, nonostante i vari colori, sembravano tutti tinti nella sfumatura tenue della malinconia.

03-stanze
Lui era magro e goffo, un po’ pelato, un minestrone di brontolii col naso a patata e a modo suo contento di poterle badare. Era come avere un camino di cui lei era il focherello. Discutevano solo la domenica pomeriggio guardando una trasmissione di viaggi condotta da una signora simpatica coi riccioli biondi e il sorriso al latte. Per l’occasione lui aggiungeva –oski alla fine delle parole e lei lo toglieva o metteva un –are e –ino in ogni frase. Passò poco e scoprirono che a parlare ognuno il suo dialetto ci si capiva meglio.

Viola aveva uno spietato pupazzo di pezza, Poffo, a fare da guardiano alla sua prigione di sogni di bimba. Aveva talvolta accettato di cedere il posto a nuove passioni; persino di essere messo sulla libreria a guardar la parete, ma solo perché sapeva che prima o poi sarebbe tornato al suo posto, sul letto accanto al cuscino. Era spietato perché viveva del bisogno di lei, delle lacrimose carezze, delle sue delusioni di ragazza e donna che cresce. Era sempre lì ad aspettare con feroce sorriso su labbra di stoffa il passo di Viola quando qualcosa non va.

04-stanzeSpesso la camera veniva invasa dalla televisione ad alto volume del vicino più anziano, ma non un rumore dal piano di sotto, se non lo sbattere di porte invisibili.
Nazario incuneato tra mura sottili aveva imparato i nomi dei nipoti del vecchio e degli amanti della ragazza e a volte avrebbe voluto essere al posto dei secondi, altre dei primi, mai al suo. Povero Nazario, si diceva quando era stanco. Stupido Nazario, rispondeva una parte di sé che aveva in odio l’altra e ne disprezzava la mollezza, la rassegnazione. Si dibatteva immobile, come certi pesci esposti sui banchi al mercato. Quando gli prendeva questa sensazione doveva uscire di casa, camminare lontano finché non gli fosse passata, consumata sotto la suola delle scarpe o fischiata via dalle fisarmoniche degli zingari.

Proprio in quel momento il signor Settimo sente sbattere forte una porta: “ancora quella specie di torello della casa accanto” pensa, e per la prima volta quella settimana scosta la tenda con le dita d’osso ritorto. La signorina del piano di sopra è in strada, vicino i bidoni della nettezza urbana, sembra indecisa se buttare qualcosa, quando un autobus fa la curva troppo larga e… oddio oddio oddio, chiude di scatto la tenda.
L’autobus si ferma in uno stridore di freni e strisciare nero di gomme. Qualcuno grida. Il vecchio riappare un attimo dopo, il bus sta già ripartendo. Il torello si batte le mani sui pantaloni per allontanare la polvere, la signorina è seduta sul marciapiede, pallida più del solito. Sembra spaventata, ma sta bene.

05-ingresso– Grazie mille…ehm…
– Nazario. Sono Nazario, del piano rialzato. Tu vivi al piano di sopra, vero?
– Sì, abito lì. Grazie, Nazario. Io sono Viola e… Davvero, non so come mai fossi lì in mezzo, è che stavo pensando a una cosa e mi sono… bloccata. Se penso che stavo per morire davanti a un cassonetto della spazzatura con un pupazzo tra le mani…assurdo, eh? Cioè, ok, purtroppo a qualcuno capita, la storia dei bidoni intendo, non del pupazzo però, cavolo, non pensi più a te dopo i sei mesi! Mi aspettavo qualcosa di brutto prima dei vent’anni, ma dopo avevo un po’ archiviato la cosa. Non c’avevo proprio voglia di finire sotto un autobus oggi e….
– Aspetta, aspetta, piano, per favore. Ma stai bene? Non è che hai sbattuto la testa? Che c’entrano i pupazzi?
– Ah, sì scusa. No, è che sono nervosa. Sei fortunato, parlo poco quando sono nervosa. Ah, ah sì, proprio fortunato. Il pupazzo, cioè, lui è Poffo e non lo so, stamattina lo guardavo e all’improvviso volevo buttarlo. Hai presente quando vuoi tagliarti i capelli? Ecco io… beh, forse visto che tu sei un po’ pelato non puoi sapere la storia dei capelli. Vabbè, il punto è che ho sto pupazzo da quando ero piccola e ha sempre dormito con me, mi faceva compagnia e cose così però davvero, a un tratto mi è sembrato così sbagliato averlo lì e sono corsa in strada, ma poi allo stesso modo era sbagliato pure buttarlo. Cioè, non è giusto, in fondo è un capriccio e magari poi mi manca. Ma che mi ha fatto? E comunque è solo uno stupido pupazzo. Beh, mi sono piantata lì come una cretina…

06-il-pesce-rosso
– E poi arriviamo al punto che rotoliamo insieme per terra, giusto?
– Esatto. Sei sveglio.
– E tu sei logorroica.
– E tu anche se mi hai salvata sei un po’ stronzo. Senti, vedere un paraurti a due centimetri dal naso mi mette sempre fame chimica, che ne dici se andiamo a prendere un kebab e mi racconti qualcosa? Tipo com’è che non ti si vede tanto in giro?
– Ma sono le cinque e mezza!
– Dai, ma che eroe sei? Su, su cammina…
– D’accordo. Senti, ma se ti racconto qualcosa e nel frattempo mastichi stai un po’ zitta?
– Parola di scout.
– Oh Gesù, sei pure scout?!
– Ma ti sembrano domande da fare con questo tono?! E comunque no!
– Settimio – era la prima volta che la signora si rivolgeva a lui di settimana, dalla poltrona – Ma che è successo?
– Oh, niente Costelia, un quasi incidente, ma per fortuna non è successo niente – silenzio per un po’, poi:
– Settimio, Lei non vuole muore, vero? – Era sorpreso.
– Ma che domanda è? Mi sembra Don Paolo quando veniva a trovarmi dopo che mia moglie se n’è andata!
– Risponde lei sincero, io prega.
– Ogni tanto forse, ma questo prima… – prima di avere un focherello in casa, voleva dire, prima quando le mani erano un rosario di solitudine, quando aveva smesso di dare la buonanotte e il buongiorno a qualcuno, prima che…
– Perché me dispiace se noi non viaggia più insieme domenica pomeriggio, me piace, quindi preoccupa io di resto sola – Le prende la mano da una sedia vicina, come farebbe con quella della nipote, la sinistra sotto a coppa e la destra secca e piena di tendini e vene a carezzare piano.
– Ma adesso ho l’aria di uno che voglia morire? Ancora alla televisione non hanno fatto vedere il paese dove sta suo figlio, Signora, e sono curioso… – lei apre le palpebre, lo fissa un po’ per capire se ha detto la verità, poi soddisfatta torna a socchiudere gli occhi, stringe impercettibilmente la mano.

07-una-spaghettata

Si sente come un’anfora sul fondo del mare da tanto, tanto tempo. Da giovane il suo corpo gli apparteneva, poi delle “cose” avevano iniziato a crescere e altre a morire, fuori e dentro di lui, indipendentemente dalla sua volontà. Queste cose erano alghe e coralli e animali e piante, figli del tempo che lo avevano reso vecchio e gobbo, stanco e lento. Prima gli dava fastidio questo cambiare forma, questo non sentirsi più proprietario, ma solo inquilino del proprio corpo, con lo sfratto di Dio sul collo, senza poter più decidere se mettere mensole, di che colore dipingere le pareti, senza poter spostare i mobili né acquistarne di nuovi, sempre precari ma sempre qui. Adesso però non gli pesa più tanto questo suo corpo, gli è più lieve ora che c’è Costelia.

Nel frattempo, in un parco poco lontano, su una panchina di legno, tra alberi e foglie cadenti…

– Dunque, Nazario da Mirasòlo, io ti ho raccontato del posto da dove vengo e tu del tuo, ma tu sai di Poffo e del mio tentativo di abbandono. Ora, conosci il mio segreto e dovrei ucciderti per questo, ma sono troppo stanca e tu sembri discretamente resistente… Ma li pesi cento chili?
– Macché… – sospirò – no, novanta… Certo che sei strana…
– Ehi, non offendere! Comunque dicevamo, tu conosci un mio segreto, per cui ora ne voglio sapere uno tuo!
– E io non ti rispondo.
– E io ricomincio a parlare a velocità supersonica.
– Hai vinto. Mi piace prendere le foglie prima che tocchino terra, così posso illudermi che stiano scendendo dai rami solo per me.
– Che hai contro quelle per terra? Sono sporche o non sai distinguerle?
– No, il fatto è che non mi hanno aspettato.
– Non credi di essere un po’ egoista? Magari sei tu a essere in ritardo all’appuntamento.
– Forse, ma chi me lo assicura?
– Proprio nessuno. È questo il bello.
– Non ci riesco.
– Lo so, me ne sono accorta. Tieni.
– Poffo?
– Sì, voglio che lo tenga tu. Con me non è più al sicuro.
– Me lo dai solo per liberartene.
– Te lo dò per metterti alla prova, soldato. Se resisti una settimana con lui che ti fissa da quei bottoni malvagi (ecco, l’ho detto!) allora sei proprio un eroe!
– Torniamo verso casa? Le zanzare mi stanno sbranando.
– Sì, ciccione.

08-ragazzi-in-cucina

Il vecchio Settimo è ancora alla finestra quando i ragazzi attraversano la strada. Sembrano diversi vicini. Pensa alle coincidenze e alle distanze, alle sale e alle stanze che non abitiamo.

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