lunedì, Ottobre 7, 2024
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Le mani di Cosa nostra catanese su Messina

Operazione “Beta”, scoperta una cellula dei Santapaola nel Messinese

L’operazione antimafia “Beta” del Ros dei carabinieri sgomina l’operatività nel capoluogo peloritano di una cellula di Cosa nostra catanese, diretta emanazione della più nota famiglia mafiosa dei Santapaola e sovraordinata rispetto ai clan che tradizionalmente operano nei quartieri cittadini.

L’operazione condotta dal Ros dei carabinieri e dal Comando Provinciale di Messina nelle province di Messina, Catania, Siracusa, Milano e Torino ha portato all’arresto di trenta soggetti, gravemente indiziati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione di tipo mafioso, estorsione, corruzione, trasferimento fraudolento di valori, turbata libertà degli incanti, esercizio abusivo dell’attività di giochi e scommesse, riciclaggio, reati in materia di armi e altro.

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L’indagine, avviata nel 2013, riscontrando quanto già riferito da alcuni collaboratori di giustizia, coinvolge esponenti della società che conta: professionisti, l’ex presidente dei costruttori di Messina, imprenditori, titolari di società, funzionari del Comune: tutti connessi da un disegno di gestione di interessi economici illeciti contrassegnati da riservatezza e reciproca affidabilità.

Il capoluogo di quella che storicamente era sempre stata definita la provincia “babba” ovvero tranquilla era divenuta il centro delle attività e dei loschi affari di un’entità criminale partorita da Cosa nostra catanese, in quanto gestita da soggetti appartenenti ai Santapaoliani, Francesco e Vincenzo Romeo, il cognato e il nipote del boss Nitto Santapaola, perché rispettivamente marito e figlio della sorella Concetta Santapaola.

Il sodalizio criminale, volutamente distante dalle bande armate locali (Mangialupi, Giostra, ecc.) alle quali era addirittura sovraordinata, a tal punto che gli esponenti di queste ultime, ogni qualvolta si imbattevano negli interessi della predetta associazione si arrestavano, obbedendo. Il sodalizio era collocato all’interno dell’economia reale e delle relazioni socioeconomiche, con agganci in settori della società che conta.

Un’entità, secondo gli investigatori, capace di teorizzare – come emerge dalle intercettazioni – l’abbandono delle forme criminali violente e del rituale mafioso per gestire società di servizi, controllare in modo diretto appalti su scala nazionale (emergono interessi sulla autostrada SA-RC ed Expo), gestire il gioco illegale e le scommesse della massima serie calcistica, operare attraverso la corruzione e il clientelismo il controllo sull’attività di enti pubblici, attivare informatori e complici presso uffici pubblici (anche presso organi di polizia e uffici della Procura). Una struttura criminale che ha sostituito i manager ai padrini e che opera per il profitto col “concorso esterno” delle squadre che sparano: così rovesciando il tradizionale rapporto dei ruoli tra società bene e società violenta rispetto al conseguimento degli scopi associativi mafiosi.

Risulta inoltre singolare la sostituzione del pizzo con altre forme di intervento economico, grazie anche a società che forniscono servizi alle imprese (come le cooperative nel settore delle forniture alimentari) ovvero gestiscono in subappalto la fornitura di prodotti parasanitari per conto delle ASL.

Le attività investigative hanno consentito di ricostruire le dinamiche associative del gruppo mafioso e il ruolo di vertice rivestito da Vincenzo Romeo, sotto la supervisione del padre, Francesco, con la collaborazione dei fratelli, Pasquale, Benedetto e Gianluca. I rapporti con l’articolazione territoriale di Cosa nostra catanese sono risultati solidi e perfettamente funzionali alle esigenze dell’associazione, come quando Vincenzo Romeo dovette farsi carico del finanziamento economico dei sodali catanesi dopo il sequestro, nel 2014, per un valore di oltre dieci milioni di euro che ha riguardato la ditta “Geotrans s.r.l.”, operante nel settore dei trasporti e della logistica nei confronti dei fratelli Vincenzo Ercolano e Cosima Palma, eredi di Giuseppe Ercolano, quest’ultimo esponente di vertice della famiglia di Catania, vivendo quel frangente come una messa alla prova delle proprie capacità di gestione economico-criminali.

L’attività investigativa ha restituito l’immagine di un’entità criminale ancorata alle tradizioni mafiose: Vincenzo Romeo, nel corso di un’intercettazione ambientale, narrava di aver ripreso un giovane di Barcellona Pozzo di Gotto (ME) che si era relazionato con lui senza rispettare la riservatezza e la “presentazione rituale” di Cosa nostra.

“No, io sono di Barcellona, tu non sei Enzo?”

“Chi cazzo sei tu?”

“Noi ci siamo conosciuti con Tizio, Caio, Sempronio…”

“Ah, va bene non nominare più nessuno per favore!!”.

Un’entità al tempo stesso moderna e capace di agire in maniera quasi silente, limitando al massimo il ricorso ai tradizionali “reati di visibilità”, tipici dell’associazione mafiosa.

Era, in questo caso, Stefano Barbera a spiegare al proprio interlocutore l’ordine imposto da Cosa nostra messinese “fanno, costruiscono, sistemano, cercano di fare attività … hanno eliminato del tutto il pizzo… il primo che chiede il pizzo lo ammazzano loro … perché dice ci stiamo rovinando da soli … non esiste più l’antica … addio pizzo… sarà qualche clan a Palermo, ma qua non esiste più, le posso garantire che non esiste più …”.

Preferivano proiettare i propri interessi in diversi settori dell’imprenditoria, che non si è limitata a sfruttare parassitariamente, ma che ha pesantemente infiltrato e finanziato. Il tutto grazie a un’ottima capacità di interlocuzione con professionisti e ambienti istituzionali, in un percorso trasversale in cui il ricorso alla violenza è rimasto sullo sfondo, limitato ai momenti di particolare criticità e nei rapporti con i clan di quartiere.

L’attività investigativa ha permesso di ricostruire gli interessi del sodalizio in alcuni importanti settori, in particolare: quello degli apparecchi da intrattenimento e dell’online gaming, vero e proprio business su cui si stanno concentrando gli appetiti di diverse organizzazioni criminali a livello nazionale. Sono stati, infatti, accertati i cospicui interessi della compagine indagata nella gestione di centri scommesse e nella distribuzione di macchinette videopoker in provincia di Messina attraverso le società “Start S.r.l.”, “Win play soc.coop.” e “Bet srl”. Dal complesso delle acquisizioni è emersa, ancora, l’influenza di Vincenzo Romeo sulla Primal s.r.l., società titolare di una concessione con diritti su ventiquattro sale e settantuno corner. Ed è stato proprio Romeo, nel corso di alcune intercettazioni ambientali, a spiegare di aver preso parte a Roma a un incontro con i finanziatori di detta società e che nell’occasione sarebbero stati presenti numerosi rappresentanti di diverse “famiglie” della Sacra corona unita e della ‘Ndrangheta, i quali avrebbero riconosciuto a Romeo il suo ruolo.

Le indagini hanno permesso di documentare l’interesse del gruppo nell’organizzazione di corse clandestine di cavalli, tenute solitamente alle prime luci dell’alba lungo alcune vie cittadine, con contestuale raccolta di scommesse, e la somministrazione agli animali di farmaci per aumentarne le prestazioni.

L’entità, inoltre, era direttamente interessata al settore immobiliare e dei lavori edili in genere, gestendo in proprio gli appalti e non per chiedere il pizzo o per ottenere lavori secondari, come accade normalmente per le compagini mafiose.

Vincenzo Romeo interveniva personalmente per tutelare i propri interessi determinando qualificate compartecipazioni con esponenti della ‘ndrangheta, rendendosi protagonista di un’interlocuzione con esponenti della cosca dei Barbaro di Platì (RC) per definire la “messa a posto” delle società messinesi “Demoter S.p.a.”, riconducibile all’ex presidente dell’Ance di Messina Carlo Borella e “Cubo S.p.a.”, che – essendo state finanziate dall’entità mafiosa – si erano avvicendate nei lavori di realizzazione e parziale adeguamento della “S.S. 112 Dir. SGC Bovalino – Platì – Zillastro – Bagnara.

Il dato è emerso, ancora una volta, dalla narrazione autentica di Vincenzo, che nel sottolineare di aver investito nelle attività del Borella cospicue somme di denaro, ha chiarito di aver fatto valere il proprio lignaggio mafioso per mitigare le pretese dei calabresi per i lavori svolti in Calabria dalla “Cubo S.p.a”.

L’indagine ha, inoltre, evidenziato l’interesse dei sodali verso i più rilevanti appalti pubblici e privati del capoluogo messinese, realizzato anche tramite l’imposizione di forniture e manodopera. Un episodio, in particolare, ha messo in luce le ingerenze della compagine mafiosa nella procedura di acquisto di immobili, da adibire ad alloggi popolari, deliberato dal Comune di Messina – dopo un episodio di corruzione – ai fini del risanamento dell’area cittadina denominata “Fondo Fucile” e ha fatto emergere l’inquietante rapporto collusivo con alcuni esponenti dell’ufficio Urbanistica dell’amministrazione locale, funzionale all’aggiudicazione dell’appalto, al quale non si è data esecuzione per rinuncia degli stessi indagati che, in corso d’opera, hanno ritenuto economicamente più vantaggioso alienare gli immobili sul libero mercato.

Gli elementi raccolti nel corso dell’indagine hanno condotto alla contestazione del reato di concorso esterno in associazione mafiosa a carico dell’avvocato Andrea Lo Castro, che avrebbe messo a disposizione del sodalizio le proprie competenze professionali per consentire il riciclaggio di denaro proveniente da reati, la falsa intestazione di beni e l’elaborazione di strategie per la sottrazione, in frode ai creditori, della garanzia patrimoniale sulle obbligazioni, prestandosi in prima persona anche a fungere da prestanome per l’intestazione di beni.

Dalle intercettazioni è emersa, inoltre, la disponibilità di armi in capo al gruppo e l’esistenza di collusioni con esponenti delle istituzioni finalizzati a ottenere notizie su eventuali indagini in corso.

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