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L’anima della Sicilia

“Questi giornalisti, que­sti giudici, questi sinda­calisti ammazzati, sono l’anima dura della nostra Isola, ciò che ci fa dire con forza: Sono siciliano”

Cinque gennaio. Perché la Sicilia è “vecchia”? Socialmente, voglio dire. Trop­po piccola per autogestirsi, troppo grande per essere mantenuta con la for­za, per due­mila anni è stata regolar­mente “invasa” e altrettanto regolar­mente affidata alla classe dirigente di prima: latifondisti romani, feudatari spagnoli, notabili borbonici o “uomini di rispetto”.

Cosa Nostra dialoga­va ufficialmente col governo italiano. Ge­stissero la Sicilia a modo loro. In cambio, ordine e disciplina e – quando richiesto – appoggio al governo “alto”. Perciò classi dirigenti obsolete, ser­bate artificialmente al potere e società du­ramente divisa in due: viddani e baronia, coppole e capped­di. Questa Sicilia dura tuttora. E questo marca, fra l’altro, i suoi intellettuali.

In nessun’altra regione si scrive bene come in Sicilia. Tomasi, Bufalino, Verga, Pirandello, Sciascia – la lingua italiana, già elegante di suo, qui tocca i vertici della raffinatezza. E in nessun’altra terra i grandi scrittori, alla fine della loro carriera, ripie­gano così fiocamente su se stessi; sovente, con esiti reazionari e di destra. Pirandello s’iscrisse al fascio. Sciascia combattè l’antimafia. Verga elogiò Bava Beccaris.

Come mai? E’ che nessun altro uomo al mondo come il siciliano è costretto a sce­gliere senza mediazioni. Qui non si può barare. La povertà, la violenza, il mondo ferocemente diviso ti gridano ogni mo­mento “da che parte stai?”. Alla fine devi rispondere, e la risposta ti marchia. Qui, la libertà la ritrovi fra gli scrittori “minori”; messi da parte cioè; quelli che muoiono all’alba, da giacobini impenitenti, su una forca alla Marina; oppure per un colpo di pistola, in una serata qualunque, mentre stai uscendo dal tuo teatro.

Io non sono orgoglioso della nostra bel­lissima letteratura “ufficiale”: lo sono in­vece dei nostri cantastorie, dei nostri poeti di strada, dei nostri giornalisti; quelli “mi­nori” e rimossi, anche stavolta. Ne abbia­mo perso una decina, uccisi perché scrive­vano contro i potenti; questa decina di uo­mini, coi nostri cento sindacalisti e compa­gni e giudici assassinati, sono l’anima dura della nostra Isola, ciò che ci fa dire con forza “sono siciliano”.

* * *

Giuseppe Fava, figlio di maestri di scuo­la, nipote di contadini, giornalista, fonda­tore dei Siciliani, scrittore, fu uno di costo­ro. I padroni di Catania lo uccisero il 5 gennaio del 1984, mentre usciva dal teatro in cui, poche settimane prima, aveva rap­presentato un durissimo atto d’accusa con­tro il regime mafioso cittadino. Lo uccise­ro tranquillamente, sapendo che nessuno avrebbe reagito e che dopo un paio di giorni di chiacchiere tutto sarebbe tornato come prima. Non fu così. Qualcosa si ri­svegliò nella città, e uscì fuori al sole.

Io sono stato molti anni a Catania, e ho visto molte cose. Ho visto morti ammazza­ti e giudici venduti. Ho visto giornalisti prostituti, politici miserabili, e quanto più laido e osceno si possa immaginare.

Ma se tu mi chiedessi, ora, cos’è Cata­nia, rispon­derei: ho visto due vecchi con­tadini, mari­to e moglie, davanti alla loro casa con la lava dell’Etna a cinquanta me­tri. Smonta­vano il cancello, tranquillamen­te, perché sarebbe servito al momento di ricostruire.

Questa era la Catania cui s’era rivolto Giuseppe Fava. E questa Catania, incolta e qualunquista, facile da imbrogliare, politi­camente rozza, aveva tuttavia in sè qualco­sa di bello e antico.

Venivo a Catania – per “fare il giornali­sta” e dunque, a modo mio, per “sistemar­mi” – da un decennio di militanza a tempo pieno nel movimento. Un “rivoluzionario professionale”, insomma: corretto, sofisti­cato e presuntuoso, con tanto di puzza al naso e destinato, probabilmente, a un po­sto nella sinistra perbene e poi nel regime. Dei giovani di Catania, avevo un’opinione molto precisa: qualunquisti e paesani.

Ma quando il Direttore morì e la Città fu chiamata, come in tempo di Resistenza, a scegliere fra occupanti e patrioti, si vide quanta civiltà e quanto coraggio vi fossero in questi giovani “comuni”.

Noialtri redat­tori – ragazzi spaventati, in realtà, con una bandiera molto più grande di noi – deci­demmo, più per affetto che per coscienza, di continuare. E il giorno dopo ci presen­tammo in redazione, per riaprire la sede. Ma fuori dai Siciliani, timidi ma risoluti, c’era un piccolo capannello di ra­gazzi. “Chi siete?”. “Siamo la Fgci di Bat­tiati. Siamo qui per distribuire il giornale”. Noi non sapevamo ancora se avremmo avuto il coraggio di farlo, il giornale. Ma loro ave­vano già quello di distribuirlo.

* * *

Quei tre anni durissimi, l’ottantaquattro l’ottantacinque e l’ottantasei, furono gli anni dei ragazzi catanesi. Non l’entusia­smo delle manifestazioni (ci furono anche quelle, le più grandi mai viste a Catania) ma l’impegno concreto e operativo, giorno dopo giorno, per – almeno – trentasei mesi. I Siciliani – con scritto sotto: fondatore Giuseppe Fava – e SicilianiGiovani sono stati i miei giornali, e anche qualcosa di più, l’elemento centrale della mia, delle nostre, della nostra vita. E mi è difficile scriverne di più; non ora, non in questo giorno.

Dirò soltanto che a Catania, in Si­cilia, in Italia, di nuovo come in tempi di garibal­dini o di partigiani, cresceva palpi­tando e lottando qualcosa di veramente nuovo. Non dirò, per non offendere quelli di noi che erano di altre idee (c’era persino un fa­scista), come mi verrebbe naturale, che stava nascendo una sinistra. O forse sì: ma sinistra nel senso antico del termine, allon­sanfan e compagni. Una bella sini­stra; la sinistra, quella davvero espressa profonda­mente dal Paese. “La meglio gio­ventù” per me fu questa.

* * *

Vent’anni sono una vita; t’insegnano, fra le altre cose, una difensiva autoironia. Così, ora chiudo in fretta. Farò dei nomi – non posso farli tutti: e dunque, questi sono qui solo in rappresentanza di tutti. Il più giovane, e la più anziana; il primo è Fabio D’Urso, “Fabiolino”; e davvero aveva solo tredici anni quando suo padre lo portò, il sette gennaio, alla sede dei Siciliani. Il si­gnor D’Urso era stato, molti anni prima, giovane giornalista con Giuseppe Fava; poi uno era andato avanti, e l’altro aveva scelto un mestiere normale. Ed ora eccolo qui, a presentare suo figlio, che certo si sa­rebbe fatto onore.

La signora Roccuzzo era la madre di uno di noi; si parlava, la mattina presto, di cosa sarebbe potuto suc­cedere anco­ra. Per suo figlio, la rassi­curavo, il pe­ricolo era relativamente mino­re; l’avremmo sistema­to fuori Sicilia al più presto. “Aspetta – disse lei – se c’è da ri­schiare dovete ri­schiare tutti insieme, an­che lui”.

* * *

Questi erano i Siciliani. Nessuno di loro ha mai avuto il minimo riconoscimento – da partigiani quali erano, da garibaldini – per le cose grandi e eroiche che, ciascuno di loro al suo momento, seppero tirar fuori da sè stessi in quel tempo di guerra.

C’è la signora, amica del Direttore, che due giorni dopo la sua morte si presenta ai Siciliani e abbandona la carriera universi­taria per venire ad amministrare il giorna­le – lo fece per dieci anni di seguito, per­dendovi ogni avere ma garantendone fin­chè possibile l’uscita. C’è il compagno che per quattro anni dà notizie dall’interno del nemico, rischiando a ogni momento non la morte, ma una morte con torture. Ci sono i liceali dello Spedalieri, uno ora or­ganizza scuole internet in Italia e un’altra è volon­taria a Città del Messico. C’è il vecchio giudice, il prete, l’ingegnere – il nostro Cln, i capi del movimento civi­le.

Ci sono quei ragazzini che alla manife­stazione antimafia portarono i loro coeta­nei tossici, convinti uno per uno nelle piazzette della droga; a un tratto, in mezzo agli slogan contro Santapaola e i Cavalie­ri, uno di loro impallidisce per una crisi e fa per cadere: ed ecco tutti gli altri ragaz­zi, quelli che in un’altra società sarebbero sta­ti i “normali”, far capannello attorno a lui, aiutandolo e nascondendolo e conti­nuando a sfilare.

C’erano loro, e altri esse­ri umani attorno a loro, e altri ancora più in là, a Catania, a Palermo, in Sicilia, e poi – man mano che quella pianta germo­gliò, con al­tri nomi – a Roma, a Milano, a Napoli, dappertutto.

C’ero anch’io, e credo che a quest’ora sappiate che il mio tratto peggiore è la su­perbia. Eppure, pensando a quello, che fu il tempo più nobile della mia vita, non ne provo affatto. “Uno dei Siciliani”. Un compagno. Che cosa si potrebbe essere di più? Davvero vale la pena, di fronte a cose come queste, di perder tempo a met­tere puntini sulle i? No. Noi siamo quelli di Giuseppe Fava. Ognuno può dirlo, e ognu­no ne risponde – a se stesso – a modo suo. Il resto, non ha importanza.

Non ha importanza nemmeno, dopo vent’anni di bavaglio “nemico”, comincia­re a sentirsi addosso anche il bavaglio “po­liticamente corretto”. A Catania, da tre anni in qua, non si fa altro che cercar di di­videre il Monumento a Giuseppe Fava (lo­devole intellettuale siciliano) dal rozzo giacobinismo dei Siciliani, specie di alcu­ni. Perciò, fra le altre cose, non ci fanno parlare. Ma che importa? Fra noi e i Ca­valieri, abbiamo vinto noi. Loro sono scom­parsi, noi siamo ancora qui: poveri, ma ci siamo.

Catania irredimibile e rozza? Ma c’è pure una Catania che può vincere, una Ca­tania a maggioranza popolare: noi ci sia­mo arrivati vicinissimi, abbiamo dimo­strato che si può fare. E altri no. Catania del monopolio, Catania in mano a Cian­cio? Ma c’è anche una Catania dei liberi giornali: basta avere il coraggio di farli. Noi l’abbiamo avuto, e tuttora ci tentiamo. Altri no.

* * *

“Non si può chiedere a tutti di fare il lupo solitario”, disse una volta Giuseppe Fava, ed è una frase bellissima, romantica e spavalda al tempo stesso. I lupi solitari, tuttavia, hanno un senso solo se da qual­che parte c’è un branco. Magari in quel momento distratto, ma però vivo, con le sue storie “ordinarie” di lupi e lupacchiot­ti, impegnati nella loro quotidiana soprav­vivenza materiale e morale.

Molto spesso divisi, qualche volta (troppo di rado…) uniti, essi sanno co­munque, o quanto meno intuiscono, di es­sere un branco e non un gregge qualun­que; una razza a par­te. Questo è tutto ciò che può fare per loro uno come me, ricor­dargli chi sono e cosa possono fare. Il re­sto, se lo devono ritrova­re e reinventare da sè, se no non funziona. Così è sempre stato nei branchi, da che mondo è mondo.

* * *

Di Fava si parlerà nelle lette­rature uffi­ciali – come fu per Stendhal – fra qualche cinquantina di anni. Non è fa­cile, per l’accademia italiana, distinguere fra coca­cola e vino: poiché la critica è aste­mia, e vino se ne passa poco; e quando per caso ne trova, giù col “sicilianismo” e con la “ci­vile tensione”, che è un modo per cer­care di mettere quella roba aspra e for­te in bot­tiglie di plastica e già cono­sciute.

Fava e Tomasi di Lampedusa sono co­munque i massimi scrittori siciliani, e fra i massimi italiani, del dopoguerra. In più, Fava era uno scrittore amico. Parla dei contadini siciliani (La Violenza), degli operai emigranti (Passione di Michele, il suo capolavoro), della dignità del resistere (La Ragazza di Luglio), dell’atrocità del potere (L’Ultima Violenza). Ne parla po­polarmente, in lingua densa e forte, dove la maestria dell’artista ottiene il premio più difficile – la semplicità. I suoi perso­naggi più sentiti sono donne e questa, in una let­teratura misogina come la nostra, è anche una bella cosa.

Di tutte le creature che vivono nei suoi libri, nessuna è monolitica, nessuna priva di sfaccettature umane; il vecchio avvoca­to mafioso conserva – persino lui – una sua inquietudine, un suo dolore. Eppure Fava non “parla d’altro” mai, non è mai arcadi­co; tutti i suoi personaggi stanno in una loro precisa metà di mondo, o quella dei potenti o quella degli oppressi.

Perché – giornalista, scrittore, fondatore dei Siciliani e quant’altro – egli era prima di tutto un rivoluzionario. Nel senso vero, vissuto, ottocentesco, della parola. Per questo, incontratolo una volta, non lo si abbandona mai più.

* * *

Così è stato per me. Vent’anni. Eppure non pesano affatto, non come nostalgia. Nè si riesce a non sorridere, pensando a una persona viva come lui. E’ morto sem­plicemente, facendo quel che doveva, da soldato. Non credo che gli sia stato diffi­cile. E’ molto più difficile vivere, nel sen­so pieno e profondo in cui viveva lui.

La vita che passa fra le persone care e gli amici, da uno all’altro, da un cerchio all’altro, da una generazione all’altra. La vita che te lo fa riconoscere in persone lontanissime, che non l’hanno mai cono­sciuto. La vita che si trasforma lentamente in cose umane da fare, in chiari pensieri e affetti, in mili­tanza disciplinata e anarchi­ca non più per un partito o una patria, ma per gli esseri umani in quanto tali. La vita che ti fa sor­ridere, ripensandolo, quando sei solo.

“Ma insomma, si può sapere che cos’è lei, politicamente?” gli chiesi una volta, da quel fighetto “di sinistra” che ero.

“Io? Io sono tolstoiano…” sorrise lui, e ci ho mes­so vent’anni prima di decidere se par­lava sul serio o mi pigliava per il culo.

(5 gennaio 2004)

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