venerdì, Aprile 19, 2024
CronacaInchieste

La collina della munnizza

C’è una disca­rica vici­nissima al paese di Furnari (Messina). Chiuderla? Quando mai. Troppi interessi in gioco

La storia di Furnari, piccolo centro col­linare della provincia di Messina, a pre­valente economia agro-turistica è un esempio di come il diritto a vivere in un ambiente sano sia stato ripetuta­mente violato e sacrificato sull’altare del dio denaro a tutto vantag­gio del business delle discariche in mano a po­chi signori dei rifiuti.
Il paese, che conta all’incirca quattro­mila anime, da oltre un decennio vive sotto la minaccia di una discarica.
Più o meno controllata, è allestita su di un sito alluvionale imbrifero a ridosso di un torrente, che negli anni si è mangiata un’intera collina stravolgendo l’assetto del territorio – un tempo fiore all’occhiel­lo dell’agricoltura locale – spazzando via uliveti, vivai e campi di rose per far po­sto a tonnellate di munnizza (spazzatu­ra in dialetto) seppellita senza proteggere l’ambiente o lasciata scoperta per giorni.
La discarica, ubicata in contrada Zuppà al confine tra Furnari e Mazzarrà Sant’Andrea, insiste prevalentemente e amministrativamente sul territorio di quest’ultimo, ma le sue conseguenze ne­faste si riversano sul territorio e sugli abitanti furnaresi che da anni sono co­stretti a convivere con i miasmi.
Essi si sprigionano dagli invasi per via delle perdite continue di biogas e con il costante rischio di inquinamento da per­colato delle falde acquifere. Infatti è da sottolineare come le condotte di approvv­igionamento del civico acque­dotto di Furnari passano proprio sotto l’attuale invaso della discarica.

Il sito nato nel lontano 2001 – su inizia­tiva dell’allora sindaco mazzarrese Seba­stiano Giambò – come discarica com­prensoriale e temporanea, per sopperire alle esigenze di soli sette comuni, com­plice uno stato di “continua emergenza” rifiuti e con l’avallo delle pubbliche isti­tuzioni che hanno sempre trovato molto più comodo continuare a mantenere in vita una discarica che non sarebbe mai dovuta nascere, tra autorizzazioni “sta­bilmente provvisorie”, proroghe e so­praelevazioni è invece cresciuta fino a diventare la più grande e l’unica discarica operativa dell’intera provincia di Messi­na. Solo nel 2009 a Mazzarrà sono state smaltite 261.093 tonnellate di rifiuti a fronte delle 333.472 prodotte nello stesso anno nel territorio provinciale.
Nel recente passato (2010) qui è stata stoccata anche la spazzatura proveniente dagli impianti di Tufino e Gigliano in Campania, in violazione delle leggi vi­genti e con buona pace delle preposte istituzioni regionali e provinciali.
La sua gestione, inizialmente esercitata dal Comune di Mazzarrà Sant’Andrea, nel 2002 è passata ad una società a capi­tale misto pubblico-privato, la Tirre­noambiente, che è la protago­nista assolu­ta di questa storia: una socie­tà diventata monopolista per caso perché ha scelto di investire nei rifiuti e ha fatto fortuna, te­nendo in pugno, di fatto, le varie ammi­nistrazioni comunali, provin­ciali e regio­nali che si sono avvicendate nel tempo e che non hanno mai fatto nul­la per rime­diare allo scempio.
Società che in più di un’occasione è fi­nita sotto i riflettori della magistratura tra accuse di conflitti di interessi e rapporti sospetti con esponenti mafiosi, ed è stata oggetto di diverse interrogazioni parla­mentari (Di Pietro, De Toni e Fava).
Il suo capitale sociale (2.065.840 euro) è detenuto per il 45 per cento dal comune di Mazzarrà Sant’Andrea. Tra i privati, che messi insieme arrivano al 49 per cen­to, le quote maggiori sono detenute dalla Ederambiente (21 per cento), dalla Secit e dalla Gesenu (entrambe con il 10 per cento). Le altre quote private sono dete­nute dalla Ecodeco, San Germano, Cor­nacchini, Themis e Bioener, società che forniscono il know how ne­cessario. In particolare, il know how fornito da Ede­rambiente e Gesenu è stato quello della raccolta e del trasporto dei rifiuti, lavoro che hanno svolto fino al 2010 pro­prio nell’ambito di riferimento dell’impianto (ATO ME 2).

In pratica, chi ha raccolto la munnizza è socio della discarica che li ha smaltiti: un intreccio che lascia spazio a conflitti di interessi, secondo Legambien­te Sicilia e la Commissione bicamera­le per gli ille­citi connessi al ciclo dei rifiuti. La stessa Commissione si è occupata della società mista e della sua discarica anche a seguito dell’avvio dell’inchiesta Vivaio condotta dalla Procura della Re­pubblica di Messina. Qui, si legge nella relazione della commissione, «sarebbe emersa una sorta di gestione non ufficia­le da parte della mafia barcellonese, e in particolare da parte della famiglia mafio­sa di Mazzarrà Sant’Andrea».
L’inchiesta ha coinvolto i vertici della Tirrenoambiente e il 28 marzo nella sen­tenza di primo grado del proces­so Vivaio alla mafia delle discariche, tra gli altri, è stato condannato a 14 anni di reclusione per concorso esterno in asso­ciazione ma­fiosa anche l’ex presidente (dimessosi proprio in seguito al suo coin­volgimento nell’indagine), Sebastiano Giambò. Ciò non ha tuttavia impedito alla società di ottenere ben due autorizza­zioni – rilasciate dalla Regione Siciliana (2007 e 2009) – all’allargamento dell’impianto fino a una capacità d’abbancamento di 1.720.000 metri cubi di spazzatura, che tradotta in introiti potrebbe portare un incasso complessivo superiore ai 130 milioni di euro.
Un business molto redditizio per la Tir­renoambiente. Solo nel 2011 dalle sue molteplici attività (abbancamento dei ri­fiuti, produzione di energia elettrica da fotovoltaico e combustione di biogas, ecc.) si sono ottenuti ricavi netti superio­ri ai 31 milioni di euro (con un incremen­to di oltre 10 milioni rispetto all’anno precedente), che hanno consentito ai soci (pubblici e privati) di spartirsi circa un milione di euro di dividendi.

Rosee le previsioni per l’anno in corso, infatti gra­zie ai numerosi “accordi transattivi” «sottoscritti» con i singoli comuni, la so­cietà mista prevede di recuperare «crediti pregressi di rilevante entità», con la Re­gione siciliana che nei primi mesi del 2012 «ha erogato una somma pari al 15% del credito vantato nei confronti della spa Ato Me 2 (ammontante a oltre 30 milioni di euro)». Inoltre, è in dirittu­ra d’arrivo il completamento di due nuo­vi impianti che trasformeranno il sito di contrada Zuppà nel più grande polo indu­striale dei rifiuti della regione.
Proseguono infatti i lavori per la realiz­zazione dell’impianto di biodigestione anaerobica e biostabilizzazione dei rifiu­ti. Secondo quanto riportato nella rela­zione di bilancio 2011 della società pro­prietaria della discarica, «sono in fase di ultimazione i lavori dei cementi armati affidati alla ditta Co.Gedis di Messina», mentre la Sicep (affidataria dell’appalto) si occuperà del «montaggio della struttu­ra prefabbricata». L’opera – i cui lavori erano stati autorizzati dalla Regione Sici­liana nel lontano 2009 – dovrebbe entra­re in esercizio «prima del termine del corrente anno».

Sempre secondo la citata relazione, per l’inizio del prossimo mese di agosto è previsto il collaudo dell’«impianto di trattamento dei percolati (la cui autoriz­zazione risale addirittura al 2006). pro­dotti dalle discariche di Mazzarrà Sant’Andrea e Tripi», che dovrebbe smaltire un volume pari a 50 mc giorna­lieri, ma a quanto pare, sarà richiesta l’autorizzazione ad un ulteriore amplia­mento di 200 mc/giorno.
Un notevole risparmio di costi per la società mista che attualmente smaltisce il percolato inviandolo su gomma a Gioia Tauro, senza considerare l’ipotesi – tutt’altro che inverosimile – che la stessa Tirrenoambiente potrebbe mettere a di­sposizione il nuovo impianto (che ver­rebbe ad essere l’unico siciliano) al ser­vizio di altre discariche, incrementando in tal modo il giro d’affari dei signori dei rifiuti.
Oltre ad essere stata coinvolta in fatti di mafia, bisogna aggiungere che per i carabinieri del Noe di Catania e la procu­ra della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto (ME) – titolare di più di un’inda­gine sulla gestione dell’invaso di Mazzar­rà – i vertici della Tirrenoambiente avrebbero tralasciato di rispettare tutte le leggi in materia (l’ex presidente del Cda Giambò e l’Ad Innocenti sono imputati, in concorso, per interruzione di pubblico servizio e per avere omesso di predispor­re strumenti idonei alla captazione del biogas, le cui esalazioni hanno arrecato danni e molestie alla popolazione di Fur­nari; per l’Ad Innocenti è stata inoltre di­sposta l’imputazione coatta per il reato ambientale di gestione di rifiuti non auto­rizzata; mancanza di autorizzazione per la realizzazione degli impianti per la pro­duzione di energia dal biogas, sequestrati recentemente dai carabinieri del Noe) e quindi legittimamente non possiamo non porci il dubbio se, di fatto, oggi, contrada Zuppà non sia una discarica illegale.
Non bisogna difatti dimenticare che la direttiva europea 1999/31 CE, recepita – tardivamente – in Italia con il decreto le­gislativo 36/2003 e la cui applicazione è stata rimandata di anno in anno fino al luglio 2009, proprio con l’intento di ri­durre i rischi connessi alle discariche, impone lo smaltimento in discarica solo dei rifiuti trattati e non dell’indifferenzia­to che in Sicilia costituisce ancora il 90% dei rifiuti conferiti e dove il sistema della raccolta differenziata stenta a partire per­ché condizionato dal conflitto di interessi di chi, come la Tirrenoambiente e i suoi soci, gestisce raccolta dei rifiuti, raccolta differenziata, discariche e impianti per il recupero dell’energia.

Lo stato deve garantire ai suoi cittadini il diritto a vivere in un ambiente sano e ha l’obbligo di gestire in maniera virtuosa il ciclo dei rifiuti. Lo dice la sentenza (10 gennaio 2012) della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato l’Ita­lia per la malagestione dell’emergenza ri­fiuti in Campania dal 1994 in poi.
Anco­ra una volta l’Europa sanziona vent’anni di politiche italiane dei rifiuti che hanno avuto come prevalente filo conduttore la costruzione di impianti di incenerimento – i quali aggiungono al danno per la salu­te dei cittadini anche la beffa dell’essere stati finanziati con i soldi pubblici trami­te lo scandalo della truffa dei Cip6 – e apertura di nuove discariche. Un sistema, questo, dietro cui si celano conflitti di in­teresse e intrecci più che sospetti con la mafia.

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