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Il sangue di Genova scorre da vent’anni

Carlo Gubitosa
 
Il sangue di Genova scorre sotto il mare, ogni volta che affoga un migrante, uno di quelli che nel 2001, nel “corteo dei migranti” che ha aperto le contestazioni al G8, volevamo tutelare con corridoi umanitari e salvataggi europei, invece di abbandonare migliaia di esseri umani al trasporto degli scafisti e ai salvataggi del volontariato.


 Il sangue di Genova scorre nelle nostre piazze, ogni volta che un agente abusa del suo potere, forte di un’impunità garantita dall’anonimato, uno di quelli che dopo le violenze di Genova volevamo responsabilizzare con l’uso di codici identificativi sulle divise, come si fa in tanti altri paesi europei più civili del nostro.
 Il sangue di Genova scorre tra le comunità indigene dei paesi impoveriti, colpite dal nostro stile di vita che richiede lo sfruttamento intensivo di terra, acqua ed energia nelle zone pià povere del mondo, uno stile di vita che favorisce solo il consumismo e le multinazionali, quelle che volevamo arginare e contenere, per mettere “le persone prima del profitto”, come diceva uno dei nostri slogan.
 Il sangue di Genova scorre nelle nostre carceri, ogni volta che si consuma una tortura grande o piccola, una violenza fisica o psicologica, un trattamento inumano e degradante, o anche un semplice gesto di disprezzo verso chi non andrebbe disprezzato seguendo gli istinti, ma riabilitato seguendo la Costituzione, quella che abbiamo invocato invano quando a Genova sono stati sospesi i diritti civili nella caserma di Bolzaneto, mentre il ministro della Giustizia Castelli dimostrava l’altissimo senso dello stato che caratterizza da sempre l’area eversiva padana, e diceva al comitato Parlamentare d’Indagine che a Bolzaneto “dal punto vista formale sicuramente non abbiamo violato la legge, spero anche non dal punto vista sostanziale”.
 Il sangue di Genova scorre da vent’anni, tra le ferite ancora aperte di una società malata di violenza. Da vent’anni i movimenti per la globalizzazione dei diritti cercano di lenire quelle ferite, da vent’anni una società sorda e una politica cieca pensano di aver chiuso e cicatrizzato quelle ferite con la pietra tombale sulle indagini per l’omicidio Giuliani, le prescrizioni per le torture di Bolzaneto, la sentenza definitiva per la “macelleria messicana” della scuola Diaz, le sentenze con condanne sproporzionate alle azioni compiute per la decina di manifestanti finita nel tritacarne giudiziario. Tra questi c’è Marina, condannata a una pena superiore ai dieci anni per aver diretto la sua rabbia contro le ingiustizie verso il massiccio portone di legno del Carcere di Marassi, un gesto simbolico che per i nostri tribunali è stato un atto di “devastazione e saccheggio”, a differenza dei semplici “danneggiamenti” che si consumano quotidianamente a margine delle competizioni calcistiche.
 Dopo vent’anni, col sangue di Genova e di tante altre vittime di malagiustizia e malapolizia che ha rivelato ciò che accade quotidianamente nelle carceri italiane, possiamo dire che quel gesto non era legalmente accettabile dallo stato, ma resta moralmente condivisibile da molte coscienze che si ribellano agli abusi anche quando sono legittimati dallo status giuridico di chi li compie.
 “Non lavate questo sangue”, c’era scritto nella scuola Diaz quando sono entrati i primi giornalisti a testimoniare la brutale mattanza della polizia deviata. Non laviamoci la coscienza, e nemmeno le mani, di fronte alla violenza strutturale che vent’anni fa è stata contestata per le strade di Genova, ricevendo in cambio soltanto altra violenza.

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