giovedì, Dicembre 12, 2024
-mensile-Inchieste

“Il caso è chiuso” E quei dati sospetti? E Provenzano?

Chiuse definitivamente a Viterbo le indagini sulla morte di Atti­lio Manca. “Suicidio – af­ferma il magistrato – non esecuzione mafio­sa”. Ma restano molti dubbi

Quel che colpisce è la tempistica. Una tempistica che mal si concilia con un silenzio fin troppo imbarazzante. Il silenzio di una Procura che per otto anni non ha sentito il dovere di fornire un briciolo di spiegazione sulla strana morte (2004) di Attilio Manca, medico urologo di Barcellona Pozzo di Gotto in servizio all’ospedale Belcolle di Viterbo, che nel 2003 a Marsiglia si sospetta abbia fatto parte dell’equipe che ha operato segretamente di tumore alla prostata il boss Bernardo Provenzano, e successivamente lo abbia assistito in Italia senza conoscere la sua vera identità.

L’unica spiegazione che i magistrati di Viterbo hanno fornito in questi otto anni è che il giovane medico è morto per overdose d’eroina – mediante “inoculazione volontaria” – mischiata ad una grossa quantità di alcol e di tranquillanti.

Peccato che Attilio Manca, la droga, se la sarebbe iniettata nel braccio sbagliato, quello sinistro, dato che era un mancino puro, ma dopo quasi un decennio, anche il “mancinismo puro” della vittima è stato messo in discussione.

Attilio Manca è stato trovato cadavere sul letto del suo appartamento di Viterbo la mattina del 12 febbraio 2004 con due buchi al braccio sinistro e – secondo la famiglia – con il setto nasale deviato, il volto tumefatto, e una serie di ecchimosi in tutto il corpo.

A qualche metro di distanza dal cadavere sono state trovate due siringhe con tappo salva ago inserito, un pezzo del parquet divelto, un peso da ginnastica rotto, la camicia e la cravatta della vittima poggiate su una sedia.

Non sono stati trovati i pantaloni, i boxer, i calzini, le scarpe e la giacca di Attilio, né sono stati trovati lacci emostatici e cucchiai sciogli eroina. Un particolare, quest’ultimo, sul quale il procuratore e il suo sostituto hanno dato l’impressione di annaspare.

Sul tavolo del soggiorno sono stati rinvenuti degli attrezzi chirurgici che, secondo gli stessi familiari e gli amici più stretti di Attilio, non erano mai stati visti nell’appartamento.

L’autopsia, condotta dalla dottoressa Danila Ranaletta, moglie del primario di Attilio, ha escluso ecchimosi sul corpo, il volto tumefatto e le labbra gonfie. Al contrario del medico del 118, intervenuto dopo la scoperta del cadavere, che, secondo la famiglia Manca, avrebbe riscontrato questi particolari.

Due tesi contrastanti che dovrebbero essere chiarite dalle foto del volto (mai pubblicate dai giornali e su internet) che, secondo i Manca, descrivono in modo chiaro la situazione.

Dai rilievi effettuati dalla Polizia scientifica, nell’alloggio sono state rilevate cinque impronte, una del cugino dell’urologo, Ugo Manca, e altre quattro non appartenenti a persone che la vittima era solita frequentare. Dunque, in quell’appartamento, delle persone estranee all’ambiente del medico, nelle ultime ore avrebbero lasciato le loro tracce. Ma nessuno, in tutto questo tempo, ha saputo dire a chi appartengano.

Sarà pure una coincidenza, ma questa estemporanea conferenza stampa tenuta dal capo della Procura Alberto Pazienti e dal sostituto procuratore Renzo Petroselli, titolare dell’indagine sulla morte di Attilio Manca, arriva dopo quindici giorni “di fuoco” in cui del Caso Manca si è parlato in tre trasmissioni di grande impatto mediatico: “Servizio pubblico” di Michele Santoro, “Chi l’ha visto” di Federica Sciarelli, e “Rainews24”, la quale ha trasmesso una bella inchiesta di Giuseppe Lo Bianco che, come i programmi di Santoro e della Sciarelli, si è soffermata sulle eventuali connessioni tra la morte dell’urologo e l’intervento alla prostata di Provenzano, mettendo insieme fatti, circostanze e notizie, senza la pretesa di fornire risposte certe, ma con il fine di accendere i riflettori su uno dei misteri più tormentati della storia recente.

Da queste trasmissioni sono emerse un paio di cose semplicissime: che Attilio Manca, malgrado i suoi 34 anni, nel 2003 era un luminare della chirurgia alla prostata, essendosi specializzato a Parigi, “patria” del sistema laparoscopico, una tecnica rivoluzionaria e meno invasiva del tradizionale intervento chirurgico, arrivata in Italia con alcuni anni di ritardo. Che Francesco Pastoia, braccio destro di Bernardo Provenzano, poco prima di impiccarsi nel carcere di Modena, disse che il “boss dei boss”, sotto il falso nome di Gaspare Troia, era stato operato e assistito da un medico siciliano (e all’epoca l’unico medico siciliano in grado di operare col sistema laparoscopico pare che fosse proprio Manca). Che la cittadina di Attilio, Barcellona Pozzo di Gotto, non è una cittadina come tante, ma il centro nevralgico di una strategia dell’eversione che nel ’92 portò il boss Giuseppe Gullotti (mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano) a recapitare a Giovanni Brusca il telecomando della strage di Capaci, e nello stesso periodo portò Bernardo Provenzano e Nitto Santapaola a trascorrere la loro latitanza proprio lì, ben protetti da una fitta rete di complicità, che il dottor Manca – se davvero ha operato Provenzano – potrebbe avere scoperto.

Ebbene, in concomitanza con questo “fuoco” mediatico, la procura di Viterbo ha finalmente deciso di battere un colpo, o meglio, di sferrare il colpo finale all’inchiesta. Per dire cosa? Che Attilio Manca era un drogato e che i quattro barcellonesi indagati da alcuni mesi non c’entrano niente con questa storia, malgrado l’impronta palmare lasciata da Ugo Manca (uno degli indagati), condannato in primo grado nel processo “Mare nostrum” per traffico di stupefacenti, ma assolto in appello, e malgrado lo stesso Ugo Manca, subito dopo la morte del cugino, dalla Sicilia si sia precipitato a Viterbo per chiedere al titolare dell’indagine – a nome dei genitori e del fratello di Attilio, che hanno categoricamente smentito – il dissequestro dell’appartamento. Perché? Perché questa fretta di entrare nell’appartamento? Per fare cosa? Anche su quest’ultima circostanza, Pazienti e Petroselli hanno dato la netta sensazione di annaspare.

Ma a proposito di Ugo Manca, c’è un aspetto inquietante nelle parole che il procuratore e il suo sostituto hanno pronunciato. Un aspetto che apre scenari nuovi e che, in sostanza, conferma che ci troviamo di fronte a un caso che presenta troppe stranezze da chiarire.

Se da un lato i giudici cercano di giustificare l’impronta palmare lasciata da Ugo Manca, dicendo che i due cugini si frequentavano spesso anche a Viterbo, dall’altro emerge una circostanza inedita e oscura sul ruolo avuto da un personaggio del genere.

Sì, perché un conto è dire che Ugo ogni tanto contattava telefonicamente il cugino per mandare qualche barcellonese ad operarsi a Viterbo. Un altro è dire che lui a Viterbo “era di casa” per intercedere presso l’ospedale (solo con Attilio o con qualche altro medico?) per le cure dei suoi compaesani.

Il ruolo di questo soggetto vicino alle cosche barcellonesi, di questo soggetto che ufficialmente dichiara di aver lasciato quell’impronta due mesi prima della morte di Attilio (quando sappiamo che in un ambiente pieno di vapori come un bagno un’impronta si deteriora in poche ore) perché, ospite del cugino, si era recato a Viterbo per una banalissima operazione di varicocele; di questo soggetto dipinto dai magistrati laziali come una specie di benefattore dei barcellonesi (solo dei barcellonesi?) in servizio permanente effettivo a Viterbo, il ruolo di questo soggetto, la Procura di Viterbo ritiene di liquidarlo con una battuta spiritosa come quella pronunciata in conferenza stampa.

C’è almeno un personaggio appartenente al mondo della mafia barcellonese che – poco prima della morte del chirurgo – si è recato nella città laziale per farsi operare da Manca: si chiama Angelo Porcino, è uno dei cinque indagati per i quali la Procura chiederà l’archiviazione, e in passato è stato condannato per estorsione. A quanto pare ai magistrati di Viterbo non risulta neanche che Porcino – titolare di una sala giochi – abbia un cellulare. Dunque non si sa se questo tizio parli al telefono, se faccia uso dell’apparecchio di altri (ed eventualmente di chi), quali sono i contenuti dei suoi presunti colloqui telefonici soprattutto nel periodo in cui si è recato a Viterbo, e cosa abbia fatto realmente nella città laziale. Non si sa praticamente nulla. Si sa solo che ha contattato Attilio – autonomamente o per mezzo di Ugo? – per un intervento alla prostata. Guarda caso lo stesso intervento di Provenzano.

Non sappiamo se Porcino c’entri qualcosa nella vicenda, però in questa persona si riassumono due paradigmi incredibili: l’appartenenza a un mondo che si spinge fino a Viterbo per farsi curare da Attilio, e il modo di condurre le indagini da parte degli investigatori laziali.

Ma quel che appare paradossale è che non si sa neppure chi siano gli altri barcellonesi (ripetiamo: solo barcellonesi?) che Ugo Manca avrebbe portato a Viterbo per farsi operare. Magari i magistrati lo sanno, ma non ce lo hanno detto, forse per ragioni di riservatezza.

Perché se dovesse risultare che Ugo era il punto di riferimento delle operazioni e delle cure cui si sottoponeva un determinato ambiente, il quadro potrebbe cambiare notevolmente e confermerebbe i sospetti della famiglia di Attilio, ovvero che l’urologo potrebbe essere stato nell’equipe che ha operato e assistito Provenzano.

Oppure ipotizziamo che Provenzano non c’entri assolutamente nulla.

Resta quel mondo poco scrutato dai magistrati laziali, collegato con Viterbo attraverso la figura di Ugo Manca, che potrebbe avere l’esigenza di rivolgersi a un grande medico per risolvere “privatamente” certi problemi di salute, stando lontano dai riflettori siciliani. Congetture? Può darsi. Ma la storia della mafia è piena di questi casi.

Potrebbe non essere casuale il ritrovamento degli strumenti per le operazioni chirurgiche a casa di Attilio. Strumenti che – secondo molte testimonianze – mai nessuno aveva visto in quell’appartamento.

Non sappiamo se essi siano legati alle ultime ore di vita del giovane medico oppure a una casualità. Se sono legati a una casualità deve essere spiegato con elementi concreti e non con una risata. Se sono legati a qualcosa di inconfessabile, in quell’appartamento la sera dell’11 febbraio 2004 potrebbe essere accaduto di tutto. Ed anche in questo caso i magistrati devono spiegare.

In ogni caso gradiremmo rivolgere al Procuratore Pazienti e al sostituto Petroselli quattro domande semplici semplici: 1) esiste un elenco delle persone operate da Attilio Manca (o da altri chirurghi del “Belcolle”) attraverso i buoni uffici del cugino Ugo? 2) oltre a fare il “benefattore”, Ugo Manca si recava frequentemente nel Lazio per altre ragioni? 3) Sono stati approfonditi questi aspetti? 4) Possiamo sapere cosa è emerso?

Adesso la Procura di Viterbo chiederà al Gip solo il rinvio a giudizio della donna romana che “ha venduto ad Attilio la dose mortale”.

Evidentemente ci saranno prove inoppugnabili per affermare con sicurezza un assunto del genere, ma confessiamo di non avere avuto questa impressione, soprattutto se pensiamo che in ben otto anni il Pm ha insistito con una richiesta di archiviazione, respinta per ben tre volte dal Gip. Che l’ultima volta si è preso un anno e mezzo per decidere. Tempi fin troppo lunghi per addebitare anche questa circostanza alla casualità.

In conferenza stampa è stato detto che la pusher capitolina riforniva il “gruppo” barcellonese presente nel Lazio (di cui Attilio avrebbe fatto parte) di sostanze stupefacenti, senza specificare quali.

I magistrati laziali dunque individuano in Barcellona Pozzo di Gotto l’epicentro delle presunte pratiche a base di droga da parte di Attilio, ma non l’epicentro di una criminalità organizzata che ha collegamenti consolidati con altissimi magistrati oggi sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa e per altri reati gravissimi, con ex ministri, con ex sindaci, con presidenti di Provincia e con pezzi deviati dei servizi segreti.

Per capire qualcosa su questo coacervo di entità basta collegarsi con un motore di ricerca e scrivere tre semplici parole: “Corda fratres Barcellona”. Cercando bene, ci si può imbattere in certe inchieste giornalistiche che svelano i nomi di tutti, quello del boss e quello del magistrato, quello dell’altro boss e quello dell’ex ministro, tutti insieme appassionatamente dentro il sodalizio più esclusivo della città. Un’altra piccola ricerca e si scopre che soprattutto da quel contesto provengono certe testimonianze in merito alla presunta tossicodipendenza di Attilio. Testimonianze rese durante il processo “Mare nostrum”, dove è stato detto che il giovane medico si drogava sia con la mano destra che con la mano sinistra.

Sì, siamo certi che i magistrati di Viterbo possiedano prove davvero inoppugnabili, e non solo testimonianze provenienti da un contesto talmente intossicato da risultare poco credibile. Ne siamo certi, perché se basassero le loro convinzioni “solo” sulle deposizioni dei barcellonesi, ci troveremmo di fronte a due ipotesi davvero inquietanti: o i giudici laziali sono degli ingenui, oppure il caso è talmente grosso, talmente inconfessabile, talmente dirompente che bisogna banalizzarlo.

In quarantacinque minuti di conferenza stampa, il procuratore Pazienti e il sostituto Petroselli hanno detto che la mafia, con questa morte, non c’entra nulla: è stato confermato dalla Direzione distrettuale antimafia di Messina e dalla Procura nazionale antimafia. Quindi per favore non parliamo di Cosa nostra.

In conferenza stampa è stato pure detto che adesso, tramontata l’ipotesi Marsiglia, salta fuori l’ipotesi che Provenzano sarebbe stato visitato nel Lazio durante la sua latitanza. L’ipotesi Marsiglia, in verità, non è mai tramontata, mentre quella del Lazio è affiorata solo di recente grazie ad una serie di elementi che convergono in questa direzione. Eppure i magistrati di Viterbo fanno pure dell’ironia, ben sapendo che il boss corleonese ha agito indisturbato per quarant’anni su tutto il territorio nazionale.

Dopo otto anni i magistrati laziali hanno dichiarato che Attilio – dopo la morte – non aveva il setto nasale deviato e il volto tumefatto e men che meno le ecchimosi in tutto il corpo. Quindi siccome la famiglia Manca ha affermato il contrario, ne deduciamo che anche questa storia sarebbe un’invenzione della famiglia Manca. A questo punto vogliamo vedere le foto. Non c’è altra soluzione.

La pozza di sangue che inondava il pavimento, secondo i magistrati, non è stata causata da una colluttazione, ma dall’edema polmonare scatenatosi in seguito a quei micidiali buchi di eroina che la vittima si era “volontariamente” fatto, insieme all’assunzione di alcol e di tranquillanti.

E pensare che ai genitori di Attilio fu bonariamente “sconsigliato” di vedere il figlio morto perché quel volto sfigurato li avrebbe traumatizzati.

All’inizio si disse che il giovane, ormai sotto l’effetto della droga, fosse andato a sbattere con la faccia sul telecomando della tivù posato su una superficie morbida come il piumone del letto. Ma dalle uniche foto pubblicate si vede chiaramente che il telecomando è sotto il braccio di Attilio, non sulla faccia.

Adesso ci dicono che non c’è mai stato né il volto tumefatto, né il naso deviato, né le labbra gonfie. Prendiamo atto anche di questo, ma ripetiamo: vogliamo vedere le foto, perché qualcuno in questa storia sta barando. E di brutto.

Evidentemente in questi otto anni la famiglia Manca ci ha presi in giro. Come ci ha presi in giro anche sulle telefonate che Attilio avrebbe fatto dalla Francia nello stesso periodo in cui veniva operato Provenzano. Il procuratore ha affermato che dai controlli effettuati, il dottor Manca risultava in servizio al “Belcolle”. Come se con un aereo non è facile raggiungere la Francia in poche ore – non solo nei giorni comuni, ma soprattutto nei fine settimana o nei giorni liberi – operare una persona e tornare.

I Manca ci hanno presi in giro anche in merito all’ultima telefonata, quando il medico – chissà da quale luogo e in quale situazione – avrebbe lanciato dei messaggi in codice attraverso i quali, a parere della famiglia, avrebbe cercato di dire: se volete conoscere la verità sulla mia fine cercate a Barcellona Pozzo di Gotto.

Finalmente scopriamo che a prenderci spudoratamente in giro sono stati loro, Gino, Angela e Gianluca Manca, perché nei tabulati, quelle due telefonate non figurano affatto. Tutto frutto di una suggestione di una madre, di un padre e di un fratello obnubilati dal dolore. Certo…

Ci saremmo attesi una spiegazione plausibile sulla “volontarietà” di Attilio di essersi fatto quel micidiale intruglio di eroina, di alcol e di tranquillanti (lui che da medico conosceva benissimo la reazione chimica di questi elementi), ci saremmo attesi una spiegazione plausibile sul perché, dopo i buchi, ormai stordito, ad Attilio sia venuto in mente di rimettere i tappi negli aghi delle siringhe. Niente.

Ma anche ammesso che Attilio fosse stato un drogato, ci saremmo aspettati una maggiore prudenza sulla dinamica della morte, non foss’altro che per il fatto che diversi elementi ci portano a ritenere che quella sera potrebbe esserci stato uno scontro fisico, o qualcosa che con una morte “volontaria” per overdose non c’entra nulla. Ma siccome i vicini di casa non hanno sentito rumori sospetti, ecco che questa testimonianza diventa determinante per accreditare la morte per overdose.

Smentito clamorosamente anche il fatto che l’urologo fosse un mancino puro, anzi, da quello che asserisce la Procura, risulta che si drogasse e che facesse interventi chirurgici delicatissimi anche con la mano destra. Dovreste vederlo questo passaggio della conferenza stampa. E’ semplicemente magistrale. I due magistrati smentiscono il “mancinismo puro” non in virtù degli elementi raccolti – che non sono stati mostrati – ma in base a una semplice supposizione: siccome Attilio era un chirurgo, era impossibile che operasse solo con la mano sinistra. A questo punto ci deve essere spiegato in base a quale teoria scientifica i magistrati traggono un convincimento del genere.

Eppure ci sono molte testimonianze “viterbesi” (non “barcellonesi”) di colleghi e collaboratori sanitari, che vanno in un’unica direzione: Manca operava solo con la mano sinistra. Quindi quanto meno, anche su questo aspetto, ci si sarebbe aspettati un altro pizzico di cautela.

Non sarebbe stato male, da parte del procuratore, ascoltare il padre, la madre e il fratello di Attilio, quanto meno per avere un quadro più completo della personalità della vittima. Il procuratore invece ha dichiarato che da quando fa servizio a Viterbo (quattro anni e mezzo), i Manca non si sono mai degnati di farsi vivi. Non sarebbe stato male che fosse stato lui a farsi vivo con loro, non solo per essere vicino umanamente alla famiglia (ma ci rendiamo conto che questi atti di sensibilità attengono alla sfera soggettiva di ognuno di noi), ma per dire che lo Stato in questa vicenda c’è, è vivo, ed è presente.

Evidentemente il signor procuratore non ha idea delle sofferenze che da otto anni vive questa famiglia, sia per l’atroce perdita di un ragazzo brillantissimo, sia perché costretta a vivere in un ambiente ostile e carico di veleni come quello di Barcellona Pozzo di Gotto, dove adesso, in seguito a questa conferenza stampa, qualcuno si sarà ringalluzzito e starà pure passando al contrattacco.

Andiamo avanti. Il giovane medico, a sentire i magistrati, si faceva di eroina, ma non era un tossicodipendente. Si drogava, a loro dire, solo in certi momenti, magari quando era depresso, ma l’eroina riusciva a tenerla a bada, sotto controllo, senza subirne dipendenza. L’eroina…

A proposito dei due buchi trovati sul braccio sinistro (gli unici rinvenuti in tutto il corpo), la Procura sostiene una tesi per noi del tutto nuova: che sarebbero stati praticati in tempi diversi. Ce ne sarebbe uno recente e uno più vecchio. Questo dimostrerebbe due cose: che Attilio si drogava, e che quella sera non è stata la prima volta.

I magistrati non hanno spiegato per quale ragione – malgrado le ripetute richieste della famiglia Manca e dell’avvocato Repici – per ben otto anni non sono state rilevate le impronte digitali sulle due siringhe. Anzi, in conferenza stampa, hanno detto che siccome le siringhe erano piccole, non hanno ritenuto di ordinare il rilevamento delle impronte perché tanto non si sarebbe trovato nulla. Soltanto qualche mese fa – dopo una precisa richiesta del Gip – le analisi sono state eseguite. Su una non è stato trovato nulla, sull’altra una labile traccia non assolutamente comparabile a un’impronta, quindi da non considerare valida come prova.

Attenzione, si tratta di uno snodo fondamentale dell’inchiesta. Dunque dalle analisi effettuate sulle siringhe, non è stato accertato nulla, né che Attilio quella sera si sia drogato, né che altri lo abbiano drogato forzatamente per simulare una morte per overdose. Quindi non esiste alcuna prova sia nell’un senso che nell’altro. E non è stato neanche ipotizzato che quelle siringhe siano state utilizzate con dei guanti. Sì, perché fare un’ipotesi del genere significa immaginare che qualcuno, su quelle siringhe, non abbia voluto lasciare tracce. E allora sorge il dubbio che per otto anni certi rilievi non siano stati eseguiti per evitare di guardare in altre direzioni. E allora sorge un altro dubbio: che non si tratti di semplice ingenuità.

Ma a un certo punto della conferenza stampa il cilindro partorisce il coniglio. E forse non c’è metafora migliore di questa. Il cilindro è una delle siringhe, il coniglio è una minuscola traccia di eroina contenuta all’interno di essa.

E così abbiamo sentito parlare di esame tricologico. I giudici hanno garbatamente spiegato che trattasi di analisi sul capello della vittima per accertare se questa abbia assunto degli stupefacenti. Ebbene: ci è stato detto che sì, anche lì sono state trovate delle tracce di stupefacenti, ma neanche in questo caso è stato specificato quali. Siamo in attesa di risposte.

Però siccome nella siringa è stata trovata eroina, siccome “è provato” che “Manca Attilio si sia inoculato volontariamente l’eroina nel braccio sinistro”, siccome i vicini di casa non hanno sentito rumori, Manca Attilio è morto drogato. Stop. Fine dell’inchiesta. Non facciamo ipotesi assurde.

Bene: ipotizziamo allora che Attilio fosse stato davvero un drogato. Questo spiega a tutti i costi una morte per overdose? Questo significa che i magistrati non abbiano il dovere di indagare a trecentosessanta gradi su questa morte? Questo significa non considerare anche l’ipotesi dell’omicidio, magari considerando che la scena del presunto delitto potrebbe essere stata abilmente camuffata?

Non è detto che sia così, ma non può essere escluso a priori. Invece i magistrati di Viterbo hanno scartato questa ipotesi dicendo “Non ci sono elementi”. Ma sono stati cercati, o si pensa che “gli elementi” cadano dal cielo?

Le prove non possono essere fornite dalla famiglia, che tutt’al più può dare degli indizi o delle indicazioni. Le prove si cercano con pazienza e con tenacia seguendo quegli indizi e quelle indicazioni.

Invece fin dall’inizio si è sposata la tesi della morte per overdose “volontaria”. Quel che appare certo è che ci troviamo di fronte a diversi “buchi neri” e a diverse anomalie investigative, su cui il ministero di Grazia e giustizia – su richiesta dell’associazione antimafia “Rita Atria”, del senatore del Pd Beppe Lumia, e di diversi cittadini – è stato recentemente chiamato a fornire delle risposte attraverso una ispezione alla Procura della Repubblica di Viterbo.

Chi sta barando sulla pelle di Attilio Manca?

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *