venerdì, Aprile 19, 2024
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Gli “indicibili intrecci” di quegli anni ’70

Fuor di processo, questa storia della “trattativa Stato-mafia” ricorda altre epoche, ma anche una serie di deja vu.

E poi conferma che la cronaca (e la sto­ria) del dopoguerra in Italia ha una sua coerente evoluzione. Mostruosa, ma coe­rente e niente affatto dietrologica; perché disseminata di concreti e “indicibili in­trecci” (copyright di Loris D’Ambrosio) in particolare sul fronte della lotta dello Stato alla mafia.

Noi parliamo ora, e da un paio di anni, della Trattativa Stato-mafia legata alle stragi del 1992. Ma ci sono episodi che raccontano già nei decenni precedenti l’ombra della medesima continuità di “scambi” indicibili tra apparati e capima­fia. In nome della pace sociale e dello sta­tus quo, pezzi degli apparati dello Stato hanno da sempre praticato la politica del baratto con i boss. E alcuni protagonisti di quelle pericolose relazioni ritornano in scena nei decenni e forse non sono mai usciti da questa indicibile scena. 

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Prendiamo il contesto dell’omicidio del colonnello Giuseppe Russo alto uffi­ciale e investigatore di punta dei carabi­nieri, uc­ciso nella piazza di Ficuzza (vici­no a Cor­leone) il 20 agosto 1977. Russo fu un in­vestigatore dell’Arma al centro di fatti e intrecci mai chiariti, sempre depi­stati in modo che non approdassero mai a una ve­rità giudiziaria definitiva.

Russo era uno tosto. Indagava ad esem­pio sul “mistero” della morte di Enrico Mattei e sulla stagione delle stragi mafio­se degli anni 70 a Palermo e provincia: anche allora, per dirimere i conflitti inter­ni all’organizzazione, i mafiosi corleonesi e i loro rivali palermitani piazzavano au­tobombe (Giuliette Alfa Romeo per l’esat­tezza).

Russo era stato collaboratore del gene­rale Carlo Alberto Dalla Chiesa, negli anni 50 capitano a Corleone. Russo e Dal­la Chiesa avevano iniziato a interrompere lo “scambio” indicibile per il quale, a fronte di notizie o di qualche arresto per “fare bella figura”, le forze dell’ordine si accontentavano di avere “pace sociale” sui territori. Niente omicidi, niente indagi­ni: questa la sintesi del patto. Finché dura­va, non c’erano delitti, si arrestavano ladri e piccoli furfantelli, ma senza molestare traffici e indagare sulle relazioni tra politi­ca, imprese e mafia.

Per decenni, la scena era stata questa: vescovi che negavano l’esistenza della mafia, procuratori della repubblica e giu­dici di corte d’assise che alla fine assolve­vano i mafiosi per insufficienza di prove (che nessuno cercava), forze dell’ordine che usavano il metodo dell’infiltrazione o del “patto” di non belligeranza per con­trollare il “fenomeno”.

Gli unici che face­vano casino senza pat­ti erano i capipopolo che occupavano la terra e si battevano per i diritti dei conta­dini e per questo molti di loro venivano uccisi (vedi la strage di Por­tella e poi i de­litti dei sindacalisti Salvato­re Carnevale e Placido Rizzotto). In Sicilia questa è stata la storia dei 25 anni che se­guirono alla se­conda guerra mondiale.

Se un carabiniere si metteva in testa di “rompere” quel patto di non aggressione, rischiava di restare solo. Russo lo fece, non si accontentò solo di fare qualche ar­resto: indagava sul caso Mattei, ma si era messo in testa anche di fare luce sugli af­fari economici dei corleonesi. Voleva ca­pire le nuove relazioni e il nuovo, mo­struoso patto tra i corleonesi e la classe politica e le imprese che crescevano in quel contesto.

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Chi era Russo? Uno “sbirro” tipico dei suoi tempi: di destra, autoritario, sospetto­so. Determinato.

Chi lo ha conosciuto, ri­corda che, nei mesi che precedettero la sua morte, aveva dichiarato di voler anda­re in pensione per­ché “stanco” e perché voleva “mettersi in affari”; aveva creato con un suo collabo­ratore (il carabiniere Giuseppe Scibilia) una società e voleva partecipare alla gara per gli appalti della diga Garcia, l’opera pubblica “madre” di molti insan­guinati in­trecci politico-mafio­si.

Ci fu chi ipotizzò che lo facesse per “infiltrarsi” nella mafia che si era già tra­sformata da agricola in urbana e diventava politica e imprenditrice. E certo, la pratica degli “infiltrati” o delle inchieste segrete e degli “informatori” ha fatto parte del ba­gaglio investigativo tradizionale dell’arma dei Carabinieri.

Nella storia del colonnello Russo ci fu un lato oscuro, legato all’inchiesta sulla strage di Alcamo Marina (27 gennaio 1976), due carabinieri uccisi misteriosa­mente e un’indagine depistata con un te­stimone costretto ad accusare quattro ba­lordi, poi assolti.

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Il colonnello Russo fu ucciso proprio in quel momento e in quel contesto, nel qua­le il patto e le “trattative” non potevano li­mitarsi più alla gestione di Corleone e dintor­ni, perché la mafia si era fatta im­prenditrice.

L’assassinio del colonnello Russo fu per questo forse il primo delitto di alta ma­fia. E tuttavia, grazie alle lacunose e fret­tolosissime indagini dei suoi colleghi sui fatti di Ficuzza, per quel delitto furono im­putati e condannati un gruppo di pastori e un balordo ai confini dei sistema mafio­so. Le motivazioni messe alla base del de­litto Russo? Risibili, piccole storie locali.

A condurre fuori strada le indagini sull’omi­cidio Russo fu il successore del colonnello al vertice del reparto operativo, Antonio Subranni : proprio l’alto ufficiale che – ne­gli anni scorsi – è stato sospettato di aver avuto un ruolo nella trattativa con­dotta da Vito Ciancimino nell’estate delle stragi del 1992. Si tratta dello stesso Sub­ranni che, da investigatore, ha negato il movente ma­fioso per Peppino Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978 (stes­so giorno del ritrovamento a Roma del ca­davere di Aldo Moro). Impastato denun­ciava il potere e le relazioni politiche del boss Tano Badala­menti e, quando fu tro­vato dilaniato da una bomba, fu fatto pas­sare, con l’avallo degli investigatori dell’epoca, per un terro­rista. 

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Ecco, questi erano contesto, patti e mi­steri dell’epoca in cui Russo faceva l’inve­stigatore sulla mafia degli anni 60 e 70 dello scorso secolo. Epoche di “indici­bili intrecci”, patti, depistaggi e trattative occulte.

Venti anni dopo il delitto Russo, nel 1997, gli imputati condannati nel primo processo sono poi stati prosciolti e l’intera cupola di Cosa nostra (Riina, Provenzano, Bagarella e così via) è stata indagata, pro­cessata e condannata. Il nuovo processo ha accertato i depistaggi degli apparati di intelligence per coprire le ragioni di quel delitto. Perché? Forse perché il colonnello Russo aveva infranto la “prassi” antica e consolidata della trattativa o dei patti scel­lerati tra Stato e mafia? Oppure perché – anche usando forse “strumenti arditi” – cercava una verità sul “patto” che si anda­va stringendo tra mafia militare, politica e imprese a Palermo?

Un pensiero su “Gli “indicibili intrecci” di quegli anni ’70

  • Bravissimo Antonio, la memoria storica non deve sparire, Riccardo e voi tutti finché c’è fiato dovete raccontare!

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