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Giornalismo

di Riccardo Orioles

Incriminato, linciato, isolato, assolto. La storia di Pino Maniaci, che ha difeso contro gli indegni il palazzo di Falcone e Borsellino. E adesso, amici miei, continueremo a lasciarlo solo?

22 aprile 2016. “I Siciliani riaffermano la loro piena fiducia e solidarietà a Pino Maniaci e alla redazione di Telejato. Non è la prima volta – Giuseppe Fava, Peppino Impastato, Titta Scidà – che l’antimafia viene colpita da accuse rivelatesi successivamente infondate e spesso pretestuose.

Nel momento in cui la falsa “antimafia” degli affari (Montante, Costanzo, Lo Bello) viene sempre più smascherata dalle inchieste dell’antimafia vera, non è inutile ricordare queste semplici, ma non peregrine verità”.

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8 aprile 2021. “Il giornalista Pino Maniaci è assolto con formula piena dall’accusa di estorsione”.

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La storia compresa fra queste due date ha una certa importanza nella storia del giornalismo italiano.

Pino Maniaci, conduttore di una piccola televisione locale, aveva condotto una serie di inchieste su gravi episodi di corruzione al palazzo di giustizia di Palermo. Esse sono state seguite, nel giro di pochi anni, dall’incriminazione e condanna di magistrati e funzionari corrotti.

Nell’aprile 2016 Maniaci viene incriminato con accuse pesantissime a carattere mafioso.

Nell’aprile 2021 viene assolto con formula piena.

Nell’aprile 2016 i principali media scatenano campagne contro l’inattendibile, e forse anche mafioso, giornalista Maniaci.

Nell’aprile 2021 i principali media ignorano, o riportano in poche righe, la sentenza che lo assolve.

Fra l’aprile 2016 e l’aprile 2021 diversi altri scandali (Montante, Confindustria, Ciancio, ecc.) colpiscono l’establishment siciliano e nazionale e vengono approfonditi dalla poca stampa d’opposizione rimasta e da singoli giornalisti indipendenti. Fra essi, fatica a prendere posto Maniaci. La campagna diffamatoria seguita alla sua incriminazione lo ha – con poche eccezioni – isolato. Telejato, che non aveva mai goduto di molti mezzi, boccheggia fino a rischiare la chiusura. Il piccolo gruppo di giovani che vi imparava il mestiere è stato quasi interamente dissolto.

In Italia, frattanto, gli spazi di libertà di stampa si sono ulteriormente ristretti. Al monopolio dell’emittenza privata si è di fatto aggiunto quello della stampa quotidiana, con la scalata a Repubblica del gruppo Agnelli. Il giornalismo di punta, specie nel settore mafia, è ora praticamente affidato a qualche piccola e media testata e a un buon numero di singoli giornalisti che reggono come possono questo fronte. Il fatturato dell’economia mafiosa è intanto cresciuto fino a raggiungere una quota non indifferente del Pil nazionale.

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L’assoluzione con formula piena di Pino Maniaci è certo una vittoria per tutti noi, per i giornalisti, per i cittadini italiani, per la brava gente. Maniaci si è dimostrato un giornalista affidabile e autorevole: non ha paura, controlla le fonti, opera sul territorio e non solo sulle conferenze stampa. Non solo: ha fatto scuola, decine di ragazzi sono cresciuti con lui, e anche questo è un patrimonio da preservare. Ma ha un punto debole: è un personaggio bizzarro, “spettacolare”, e questo nel giornalismo italiano – avido di folklore, con confini molto sfumati fra entertainment e informazione – è pericolosissimo, ché espone a infinite trappole – in buona o in cattiva fede – da cui ci vuole molta abilità e esperienza per tenersi fuori. E Maniaci non possiede né l’una né l’altra. Né i suoi interlocutori erano in genere in grado, culturalmente parlando, di distinguere l’allegro personaggio Maniaci dal Maniaci serissimo professionista.

Nessuno, così, ha avuto la capacità di confrontarsi realmente con ciò  che diceva Maniaci, che erano cose molto concrete: la signora Saguto ha dovuto lasciare la magistratura e il Palazzo di Giustizia di Palermo – quello di Falcone e Borsellino – lo ha difeso lui, lo strambo omino coi baffi. Altri non hanno capito, o hanno fatto finta di non capire, o non hanno ritenuto quelle inchieste meritevoli, bizzarrie a parte, di attenzione.

Ci sono state eccezioni – i Siciliani, dalla Chiesa, Cavalli, qualche altro isolato – ma in generale il giornalismo civile, quello di cui siamo amici, non ha appoggiato Maniaci ma anzi, spesso e volentieri, gli ha dato addosso. Nell’occasione, non ha mancato di dare una mano al dibattito allora di moda sull’antimafia (antimafia sì, antimafia no, antimafia parola retorica e certo un po’ superata). Eppure Montante sulla parola antimafia (Nino Amadore, “L’isola felice, Le aziende siciliane contro la mafia”, Einaudi 2009) aveva le idee chiare: linguaggio ormai ammuffito, da sostituire con un più tranquillo “legalità”.

A questi nostri amici, a cui nonostante la delusione non ritiriamo affetto e stima, chiediamo di riflettere, serenamente. La storia di Telejato – condanna, linciaggio e assoluzione – non è una storia minore. È una storia profonda, perché qui non è stato il giornalismo mafioso a dare botte al giornalismo, è stato il giornalismo buono. La fretta, la leggerezza, la difficoltà a comprendere linguaggi e codici non regolamentari – se Maniaci fosse stato un gay, nero, ebreo, transessuale e per di più comunista nessuno si sarebbe stupito del suo modo di fare; i baffi, gli occhietti vispi e le battute pesanti con l’accento partinicese invece l’hanno inchiodato irrimediabilmente a un ruolo, a una specie di Franco e Ciccio che pretendeva chissà perché di fare il giornalista.

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Adesso, naturalmente, Telejato vuole andare avanti ma questo non è mai stato messo in discussione, conoscendo Pino e conoscendo soprattutto il partito di Pino Maniaci. Un partito composto da poche persone: Pino, la signora Maniaci e Letizia, la figlia (di Letizia ricordo la volta che, minacciata, mettemmo in piedi con Roberto Morrione un meccanismo per trasferirla immediatamente a Roma, presso liberainformazione; e lei rifiutò categoricamente, “io non lascio mio padre e Telejato”).

Una famigliola siciliana come tante che però ha avuto il coraggio di piantarsi davanti alle mura del Palazzo di Giustizia di Palermo e di difenderlo a spada tratta, contro chiunque.

Una vittoria loro, una vittoria di Telejato e dei Siciliani, una vittoria del bravissimo Antonio Ingroia che ha dimostrato di essere un grande uomo di legge smontando in quattro e quattr’otto le accuse pretestuose e mettendo in ridicolo chi le ha montate, una vittoria del bravo avvocato Bartolomeo Parrino, una vittoria di Salvo Vitale che stava a Radio Aut e ora è a Telejato, una vittoria dei ragazzi di Telejunior come Danilo Daquino che ora lavora pure coi Siciliani.

Andranno avanti meglio di prima, facendo il buon mestiere che Pino, la famiglia Maniaci e la giovane redazione di Telejato hanno dimostrato di saper fare, cercando stavolta di non cadere nelle trappole e contando sulla solidarietà di tutti noi giornalisti antimafia “ufficiali”, quelli che ci hanno creduto da subito e quelli che non avevano capito bene; e questi ultimi certamente una telefonata di augurio e di buona amicizia non la negheranno.

(Un ragazzo di Telejato, poco dopo il patratrac, si presenta con la telecamera a riprendere la manifestazione di Cinisi per Peppino. Arriva uno, un compagno, un compagno importante, che si mette a sbraitare contro al ragazzino e lo caccia in mala maniera – poiché è dell’infame Telejato – e quello se ne va a testa bassa, senza capire perché lo cacciano, visto che lui è li per fare semplicemente il suo lavoro, per dare una mano anche lui alla giornata di Peppino. Almeno quel ragazzino, in questi giorni, vorrei che ricevesse una telefonata formale, proprio di scuse).

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