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Dino Frisullo e il lager senza Pacis

Abuso e arbitrio nel centro di permanenza temporanea Regina Pacis

 “Il 22 novembre qualche decina di ospiti tentarono la fuga dal Regina Pacis. La maggior parte di loro furono ripresi. Li abbiamo visti. […]. I loro racconti erano univoci. Li avevano condotti a gruppetti nella stanza del direttore, anzi in uno stanzino adiacente, e li avevano picchiati con bastoni di legno ed a calci. […] Poi, dopo aver cominciato a rompergli le ossa, avevano passato la mano ai carabinieri con gli anfibi e i manganelli. Il direttore Lodeserto, il benefattore dell’umanità, il candidato al Nobel per la pace, c’era? Sì, c’era confermavano tutti. Uno di loro era stato denudato, ammanettato e lasciato per una notte legato all’addiaccio. Un altro era stato massacrato di botte non nello stanzino ma in camerata, davanti a tutti, come umiliazione e ammonimento. […] Nello ‘stanzino’ si picchia spesso? Sì, spesso rispondevano”. Il 30 novembre 2002 Dino Frisullo raccontò di una delegazione che uscì sconvolta “dal livello di abuso ed arbitrio” nel Regina Pacis.

Il 5 giugno è il giorno del suo compleanno. Ma anche quello della sua morte. Una delle  denunceche condusse fu quella contro il lager di San Foca di Lecce, il Centro di permanenza temporanea gestito dalla Fondazione Regina Pacis. Contro quel lager, su come negli anni si sia brutalizzato e guadagnato sulla pelle di chi arriva in Italia, Dino si spese fino all’ultimo: dal letto d’ospedale poco prima di morire continuava a scrivere e denunciare.

Erano gli anni in cui scattò la censura e l’omertà più totale sul naufragio di Natale del 1996, “ammettere la strage equivaleva a rimettere in discussione la linea della fermezza, che di lì a poco avrebbe colpito e affondato la Kater-i-Radesh” denunciò Dino. La Kater i Radesh, la nave colpita e affondata durante il blocco navale anti-immigrazione mai stabilito da un governo. Era il 28 marzo, venerdì santo, e la nave affondò dopo essere stata speronata dalla corvetta Sibilla della Marina militare italiana. I morti furono ottantuno, trentaquattro i superstiti e tra i ventiquattro e ventisette i dispersi. Il primo governo di Romano Prodi la settimana precedente aveva deciso un blocco navale nel Canale d’Otranto contro l’arrivo delle “carrette albanesi”. Dino, nell’indifferenza e nel totale disinteresse, raccolse testimonianze, nomi e cognomi dei trafficanti. Tutto raccolto in due articoli usciti su Narcomafie nel settembre successivo.

Il Centro Regina Pacis di Lecce era nato con la legge sull’immigrazione proposta da Livia Turco e Giorgio Napolitano. Gestito fino alla chiusura da Don Cesare Lodeserto, segretario dell’allora vescovo di Lecce Monsignor Cosmo Ruppi. Esponenti di tutto l’arco costituzionale (e persino l’allora governatore della Banca d’Italia) erano “amici” di Lodeserto. E, quando fu arrestato, animarono una catena di sostegno e solidarietà, vergogna per il Paese intero.

Un quotidiano, negli ultimi anni tra i più accaniti contro gli immigrati con pagine intere di business dei profughi e invasione, scrisse all’epoca che “chi aveva denunciato don Cesare doveva vergognarsi, era in atto una gogna da parte di chi avrebbe fatto arrestare pure San Francesco”.

Dopo la chiusura del Centro di permanenza temporanea, e il fiorire di denunce e processi, Lodeserto fu inviato in missione pastorale nella capitale moldava Chisinau. Dove, scrisse il regista Rai Stefano Mencherini (autore del documentario Mare Nostrum su quanto accadeva al Regina Pacis), vivevano il nipote Giuseppe e Natalia Veriu (sua stretta collaboratrice nel Cpt) ed aprì una succursale della sua fondazione, anche “con altri fondi pubblici come quelli che gli portò l’allora presidente della Provincia salentina, l’avvocato ed ex senatore Ds Giovanni Pellegrino. Persino alcune visite blasonate non si fece mancare, come quella dell’allora ministro degli Esteri Massimo D’Alema in ossequiosa trasferta”.

Cesare Lodeserto ha animato per l’ultima volta le cronache giudiziarie nel marzo di due anni fa, quando iniziò a scontare un residuo di pena di due anni e otto mesi –  derivante dalla condanna a cinque anni e quattro mesi inflitta in rito abbreviato nel 2007 dal gup di Lecce Nicola Lariccia, per calunnia, sequestro di persona e violenza privata – nella struttura dell’associazione “Ave Maria Nostra Speranza” in provincia di Mantova. Scontata la pena, assicurarono i suoi legali, tornerà in Moldavia per continuare l’opera del Regina Pacis.

 “Con arroganza e perseveranza, come indicano gli atti processuali, – ripercorre le vicende giudiziarie di Lodeserto, Stefano Mencherini – tese a nascondere dietro ‘buone azioni’ le più efferate nefandezze”. Tra le tante accuse: truffa, sequestro di persona, calunnia, violenza privata e altre amenità, anche “ai danni di alcune ex prostitute che accoglieva anch’esse al Regina pacis”.

emigrantidublino

“Ho visto persone che venivano schiaffeggiate dal direttore Don Cesare. Ad altre prendevano la testa e gliela schiacciavano contro il muro in presenza di tutti. Io ero terrorizzato, tutti eravamo terrorizzati” testimoniò un ospite del Regina Pacis ad Avvenimenti nel 2003.  “È successo a un mio amico colpevole di aver detto grazie a una ragazza che lavorava nella sala mensa. Il direttore lo ha portato dentro un ufficio e dopo cinque minuti lo ha fatto uscire in lacrime con la faccia rossa di botte” leggiamo ancora nello stesso articolo di Avvenimenti. “Il direttore mi ha preso per i capelli e mi ha sbattuto più volte la testa contro il muro. Mentre mi picchiava continuava ad insultarmi. Ho avuto paura che mi ammazzasse” il racconto di uno dei migranti che tentò la fuga il 22 novembre 2002.

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