sabato, Aprile 27, 2024
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Colombia – La ragazza col tatuaggio

Sta sul fianco, assonnata, e la sua voce arriva come schiacciata dal cuscino. Nella penombra della stanza si distingue solo la sagoma dei fianchi, riflessa su uno specchio di legno.

Maya il terzo occhio ce l’ha disegnato sul petto. Sta fra il seno destro e il collo, è grande, e le ciglia formano un rombo attorno alla pupilla tonda, un cerchio scuro che ammicca fra le pieghe della pelle e fa segno di scorrere avanti su quel corpo nudo di giovane madre, stesa sul letto dopo una giornata di lavoro.

«Jugo

«Come?»

«Vuoi succo? Ce n’è uno di guayaba nel frigo» dice lei. Sta su un fianco, assonnata, e la sua voce arriva come schiacciata dal cuscino. Nella penombra della stanza si distingue solo la sagoma dei suoi fianchi, riflessa su uno specchio di legno.

Sono le quattro di notte e quella casa dalla vernice bianca riesce a emanare una specie di debole luce, sufficiente per orientarsi in quei due vani e mezzo di abitazione: un bagno, una stanza per dormire, un corridoio per cucina e un salottino abbastanza spazioso con un tavolinetto per bambini. C’è anche un gatto piccolissimo col pelo abbinato alle pareti, pure lui un po’ fosforescente. La casa sta nel quartiere Santa Clara, un quartiere cancellato, dove quasi tutto ha le sbarre: l’entrata, i terrazzini al piano terra, le finestre, le porte. Tante piccole prigioni per “proteggersi dai ladri”, a quanto pare gli unici uomini liberi di Cartagena de Indias.

Rientrando nella stanza, Maya sembra riposare, ha gli occhi chiusi. Tiene le mani unite sotto il cuscino e il ginocchio destro piegato in avanti, mentre i capelli ondulati si posano sulla schiena. Lavora in un hotel per ricchi e fa di tutto: dalla reception al resto, insieme ad altre colleghe. Nel suo paese, ogni dieci donne, sei rimangono sole a crescere il bebé. Le chiamano madres solteras, madri nubili, zitelle e lei è una delle sei. Significa sveglia all’alba, il figlio a scuola, tornare a casa per riposare se ha faticato fino all’una di notte oppure andare a lavoro se le tocca il turno di mattina. E così fino a pagare i debiti fatti per l’università e i conti del bambino.

«Trovato?» chiede Maya, aprendo appena le labbra.

«Sì, era ottimo. Ci ho messo del ghiaccio».

La stanza ora è più buia, disturbata dal rumore del ventilatore. Fa caldo, c’è umidità, però Maya non ha paura, allunga il braccio verso la porta e dice: «Allora dai, avvicinati, dormiamo».

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