venerdì, Maggio 3, 2024
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“A chi l’Università?” “A noi!”

Nei siti web che rilanciano la petizione imperversano le note di disprezzo a firma dei parà. Un lavoro mediocre finalizzato ad acquisire unicamente un titolo utile alla carriera universitaria, scrive uno. Per molti altri si tratta di fantascienza di serie C, collage di luoghi comuni e leggende da radio naja, abominio metodologico, squallide menzogne e calunnie, considerazioni scellerate, false, miserevoli e villanzone, chiacchere dei quaqquaraqquà” e, perfino di illecito grave e falso ideologico. C’è poi chi si spinge a etichettare il libello quale frutto della cultura egemone di stampo marxista, dottrina scientificamente orientata e programmata per la disinformazione e la mistificazione della realtà a fini politici. Ovviamente non mancano le bordate e le folgori contro i due ricercatori, affetti da vanagloria pseudoscientifica e che certamente si possono trovare tra i delinquenti che vanno alle manifestazioni in assetto di guerra. Per il comandante Vincenzo Arcobelli, presidente del Comitato tricolore per gli italiani nel mondo (sezione Nord America) Barnao e Saitta sembrano elementi del disciolto, per fallimento, KGB di sovietica memoria. Ma è soprattutto il sociologo ex parà a finire nel mirino. Rompere l’omertà significa tradire e rinnegare lo spirito di Corpo e il senso del cameratismo. I suoi istruttori di Lei non hanno fatto né un soldato né un uomo, si rammarica un ex militare.

La valanga d’insulti non ha però indignato né preoccupato gli accademici peloritani e i due ricercatori hanno atteso invano qualsivoglia espressione di solidarietà e vicinanza. A far precipitare gli eventi, giunge la pubblicazione il 7 dicembre del 2012 di un articolo su Il Giornale, dal titolo “L’università di Messina infanga la Folgore”, pieno di invettive contro il saggio e i suoi autori. Per inficiarne il rigore scientifico, il quotidiano berlusconiano si rivolge a Marco Orioles, insegnante di sociologia del giornalismo presso la Facoltà di lettere dell’Università di Verona, già tutor nel 2005 di un progetto-convenzione tra l’ateneo di Trieste e lo Stato Maggiore dell’Esercito. “Si tratta di una grande bufala teoricamente debole e metodologicamente azzardata, che denota un grandissimo velo ideologico”, accusa Orioles. Barnao e Saitta sperano in una replica dell’università a difesa della libertà di pensiero e di ricerca e invece il prof. Domenico Carzo, direttore dei Quaderni CIRSDIG, con una nota ufficiale prende le distanze dai due sociologi e rincara la dose. “Rammaricandomi dell’omissione della doverosa vigilanza, determinata da una mal riposta fiducia, rendo noto che il testo è stato pubblicato senza la mia autorizzazione ed a mia insaputa dal redattore dr. Pietro Saitta, che gestisce operativamente il sito”, scrive Carzo. “Il testo in questione, contrariamente alle regole dei Quaderni, non è stato preventivamente sottoposto alla procedura di referaggio anonimo, quindi è stato eliminato dal sito stesso. Informo, pertanto, di aver già provveduto a rimuovere dall’incarico il dr. Saitta, di concerto con il Comitato Scientifico”.

Il sociologo messinese fornisce però una versione dei fatti ben diversa. “L’articolo raccoglie i lavori di un seminario pubblico, tenuto nel dicembre del 2011 presso il Dipartimento “Pareto” dell’ateneo peloritano”, spiega Saitta. “Per posta elettronica il successivo 27 gennaio avvisai il direttore e tutti i colleghi del nuovo inserimento. A distanza di qualche giorno ricevetti la sua approvazione e pubblicai l’articolo sul sito. Il prof. Carzo pagò le stampe di alcune copie da depositare presso le biblioteche nazionali e regionali e pure le spese di spedizione”. Saitta spiega di essersi volontariamente dimesso dal CIRSDIG il 13 novembre 2012, prima cioè dell’articolo de Il Giornale, in ragione di alcuni “accesi dissapori” sulla linea editoriale. “Comunque è abbastanza curioso che un articolo capeggi nella pagina web di un’istituzione per un anno senza che il suo direttore se ne avveda. La vicenda dimostra che i nostri sono tempi molto tristi per la libertà accademica, non solo in ragione degli attacchi esterni, ma anche e sopratutto per l’incapacità di alcuni di saperla difendere”.

A più di 13 anni dalla prima pubblicazione del “diario” sull’esperienza militare di Charlie Barnao, l’intolleranza verso coloro che hanno l’ardire di analizzare valori, atteggiamenti e comportamenti all’interno delle forze armate è ancora la stessa. Guai poi a stigmatizzarne le ideologie pretoriane e parafasciste. Un certo spirito nostalgico per il Ventennio aleggia tra le caserme e i reparti della Folgore. Le sue radici storiche risalgono ai “Fanti dell’aria Libici”, voluti subito prima della seconda guerra mondiale da Italo Balbo, fedelissimo di Benito Mussolini, già Ministro dell’Aeronautica e Governatore generale della Libia.

Charlie Barnao ricorda che il comandante della sua compagnia aveva tatuato sul petto la testa del Duce e che “non erano rare” le svastiche impresse sulle braccia dei parà delle varie compagnie. Anche certi canti dei commilitoni rispecchiavano una simpatia diffusa per l’estrema destra. “La più importante delle canzoni, Avevo un camerata, coronava il rituale di congedo dei parà”, aggiunge il sociologo. “Pochi dei congedanti sapevano però che era la versione italiana di una delle più note canzoni cantate dai nazisti, Ich hatt’ einen Kameraden. Ideale per sancire la conclusione di un percorso educativo autoritario come quello della formazione di un giovane paracadutista”.

Un legame nero pluridecennale che a leggere alcuni commenti in calce alla petizione online contro Barnao e Saitta, sembra non essersi mai interrotto. “Romantici, idealisti, interventisti, Dannunziani? Se fedeltà, rispetto, onore e lealtà hanno questo significato, allora sì, possiamo considerarci tali”, scrive un ex ufficiale paracadutista. “Se poi amare il proprio Paese, la propria cultura e le proprie tradizioni significa essere fascisti, bene sia, piuttosto che rinnegare tutto a vantaggio dell’ipocrisia congenita in coloro che rinnegano l’amor di Patria”. E per epigrafe una velata minaccia. Ora sì, lasciamo pure che abbaino alla luna. Noi rimarremo qui, all’erta, sempre pronti alla difesa dei valori e dei principi in cui crediamo.

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