giovedì, Aprile 25, 2024
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La casta nella casta e il fallimento del PD

Un governo democristiano, con in più Berlusconi: è l’esito finale di un progetto politico che, partito per unire “anime” politiche differenti, ha finito col sacrificare i valori della sinistra ai disvalori delle destre

Un presidente della Repubblica di 88 anni, che ne avrebbe 95 alla fine del suo secondo mandato, un governo Letta-Alfano che ricorda quelli del vecchio pentapartito a guida democristiana, ma con l’aggravante dell’anomalia Berlusconi, il quale vincolerà ancora una volta le decisioni all’andamento dei suoi processi.

L’Italia non è un paese per giovani, l’Italia non è un paese votato al cambiamento. Dopo il congresso del Pd potrà anche nascere un nuovo soggetto politico di sinistra, costruito intorno a Vendola, Rodotà, Barca, Civati, Cofferati e quant’altri, ma le forze della conservazione continueranno a prevalere su quelle che vogliono davvero cambiare le cose. “Mai al governo con il Pdl”, aveva giurato il segretario dimissionario Bersani, ma la diga è crollata al primo soffio. Era chiaro che, nel momento in cui si sarebbe dovuto passare dalle parole ai fatti, il Pd avrebbe scaricato Vendola, tagliato fuori Grillo e guardato a destra, fino ad accettare come vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno il “pupazzo” di Berlusconi (gli altri ministri non contano, ad eccezione di Saccomanni, che guiderà l’economia con l’auricolare della Bce).

Come ha detto Barbara Spinelli in una recente intervista, “parte del Pd è ricattabile”. Non è difficile individuare quale, basta trovare i 101 franchi tiratori spuntati in occasione della votazione di Romano Prodi e sapere chi li ha armati.

Qualche anno fa uno scrittore ungherese, ricordando i fatti del ’56, mi disse questa verità: “Quando i comunisti prendono il potere i primi ad essere eliminati sono i comunisti”. Funziona così anche da noi: quando la sinistra potrebbe prendere il potere i primi a tagliare fuori sono gli uomini di sinistra. C’è cattiva coscienza nel mancato appoggio a Rodotà: Fassino l’ha spiegata col fatto che era un candidato grillino, Fassina dicendo che non aveva i numeri, ma la verità è che l’ex garante della privacy e presidente del Pds si sarebbe schierato, in primo luogo nella scelta del presidente del Consiglio, a favore di quel cambiamento (rispetto agli interessi dei potentati economici, nazionali ed europei) che in Italia non è dato.

Tra il sostegno a Rodotà e quello a Berlusconi (che qualcuno addirittura prevede già senatore a vita e successore di Napolitano al Quirinale), il gruppo dirigente del Pd ha scelto la seconda innaturale opzione, infischiandose della maggioranza dei suoi elettori. Come ha detto la dalemiana Finocchiaro all’uscita del cinema Capranica: “Io non la sento la base”.

Un errore che i dirigenti del Pd, quasi una casta nella casta, pagheranno sicuramente caro alle prossime elezioni. Il problema che riassume tutti i problemi è che non hanno più credibilità. È questa la ragione principale del fallimento di un progetto che, per ragioni di potere, puntava a tenere insieme anime politiche totalmente differenti tra loro e che, a partire dalla legge sul conflitto di interessi e da quella sui Dico per arrivare al governo Letta-Alfano, ha portato a sacrificare i valori della sinistra a favore dei disvalori delle destre.

 

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