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2012/ Generazione Falcone

Vent’anni sono una vita, anzi tante vite – Rocco, Ludovica, Marika, Carme­lo – di giovani esseri umani che in quel giorno terribile hanno avuto il mo­mento di svolta dell’esistenza. “Uomini soli”, è stato scritto in questi gior­ni di Falcone e degli altri. Soli? Di fronte alle “istituzioni”, alle persone impor­tanti, forse sì. Ma non di fronte a questi ragazzi, alle migliaia di altri gio­vani così. Loro hanno capito. Sono una genera­zione

Questa è la storia di un bambino che gioca a calcio. E per una volta sta per vincere la partita quando tutto si ferma intorno, la gente smette di parlare per strada e rientra nelle case. Si sentono solo le voci dei giornalisti che dai tele­giornali commentano tutti la stessa im­magine. Muovono le labbra ma lui non li capisce. Sbircia dalla finestra di una si­gnora del quartiere, dietro di loro sembra di vedere un incendio. Torna a casa e la mamma ha la faccia di chi ha perso un parente, uno di “famiglia”. Così comin­cia un’altra età, una nuova generazione

* * *

«Spesso mi sono chiesta che fine aves­sero fatto le migliaia di ragazzi e ragazze che manifestavano ostilità alla mafia, nel ‘92-93, dopo gli attentati a Falcone e Borsellino. Spesso mi sono domandata a cosa pensano e credono oggi; se hanno dimenticato la loro rabbia di ieri; se han­no trovato un lavoro; se resiste alle mille insidie della vita quotidiana la loro sco­perta della legalità» dice la giornalista Marcelle Padovani, nel suo “Cose di Cosa nostra”, presentando anni dopo quel libro-intervista a Giovanni Falcone.

La generazione che ha “respirato” le stragi è oggi sotto gli occhi di tutti. La si può vedere, vent’anni dopo, criticare, giudicare. Ma non ignorare. Sono preca­ri, sono spesso fuori sede, sono “resisten­ti”, sono l’Italia che è nata su quelle ma­cerie. In pochi la raccontano, eccetto quando le loro bandiere e i volti sono corredo per quelle belle foto colorate del­le manifestazioni, perfette per lanciare Tg o copertine dei settimanali. Molti di loro sono stati antimafiosi nel privato, in questi lunghissimi vent’anni, altri non hanno mai smesso di fare antimafia, an­che quando hanno fatto tutt’altro.

Per molti di quella generazione, quelli che avevano dieci – quindici anni quan­do allo svincolo fra Palermo e Capaci Cosa nostra metteva fine alla vita del giudice, Giovanni Falcone e dei suoi col­laboratori, Vito Schifani, Antonino Mon­tinaro, Rocco Di Cillo, quel giorno è fat­to di frammenti di memoria. Ma quell’esplosione crudele fu per molti di loro la perdita dell’innocenza, niente è stato più come prima. Come per Carme­lo, trent’anni compiuti da poco (ci tiene a precisarlo …) ha studiato matematica “al Nord” perché spiega – « pensavo che qualsiasi posto là fosse meglio di qua» e quel «qua» è Caltanissetta una delle po­che città della Sicilia che non hanno il mare.

Dieci anni fuori dall’Isola, direzione Continente e nella mente il ricordo degli omicidi di mafia, compiuti a pochi chilo­metri dalla sua città.

«Mi ricordo che un giorno stavo gio­cando a pallone, nella strada con gli atri compagni. Piano piano intorno a noi le tante voci di sottofondo che sempre c’erano, scomparvero. Come se avessero abbassato il volume, tutto d’un tratto. Così almeno l’ho fotografato quel mo­mento nella mia mente – dice Melo, come lo chiamano gli amici – Allora ci fermammo e io mi lamentai, non c’era mica bisogno di fermarsi! c’era una par­tita in corso e io stavo anche vincendo. Mi arrabbiai e corsi verso Giovanni che aveva il pallone in mano, lo tirai verso gli altri e dissi “picciò camma fari? Chi succidiu?” (che dobbiamo fare, cos’è successo?). Ma nessuno mi stette a senti­re mentre lentamente cresceva il volume dei telegiornali dalle case che avevano le finestre aperte sulla strada. Prima uno, poi un altro e poi un altro ancora. Ci ar­rampicammo dalla finestra della signora Di Bella per vederlo anche noi ».

Carmelo tornò a casa quel pomeriggio pensando che solo in quella stradina la gente si fosse messa in testa di vedere il Tg proprio mentre lui stava vincendo la partita che solitamente perdeva, perché stava nella squadra di quelli lenti, di quelli “scarsi”.

E invece anche a casa sua, il notiziario faceva vedere quell’incendio e dalla fac­cia della mamma, Melo ricorda di aver pensato, per tanti anni, che un parente fosse morto lì. « Solo dopo capii, non so come ricostruii tutto. Per due – tre anni si parlò di mafia, anche in tv. Mi ricordo un po’ qualche immagine. Tanto mi bastò a decidere che ero nato nel posto sbagliato e semplicemente me ne dovevo andare». Era vent’anni fa, era la mafia in diretta, la strage di Capaci, vista dai ragazzini di Caltanissetta. Intravista dai Tg, che di solito guardavano con noia e fastidio.

Carmelo poi si iscrive all’Università e trasferisce a Siena. Dieci anni fa scopre che sotto la casa in cui vive, ormai da ra­dical chic di provincia, si rompono spes­so le vetrine di un negozio.

«I proprietari non facevano in tempo a cambiarle che le distruggevano di nuovo». «Sembravano i segnali di un chiaro tentativo di estorsione ma io pen­sai di essere il solito siciliano che vede la mafia ovunque; la verità era che più pas­savano i giorni più mi sembrava che i cit­tadini di Siena, per molti aspetti così lon­tani da noi, assomigliassero a quella cate­goria di siciliani che per paura o viltà non vuole vederla la mafia, da nessuna parte. Io mi ero trasferito ma non ero stato il solo, anche le mafie non erano più soltanto a Palermo o a Caltanissetta, come pensavo da ragazzino. Erano ovun­que».

«Avevo 9 anni. Stavo piangendo per­ché il giorno dopo c’era la mia prima co­munione e avevo appena saputo che le mie cugine di Messina non sarebbero po­tute venire a Capo d’Orlando a festeggia­re con me – racconta Ludovica, siciliana che vive a Roma. «Ad un certo punto venne mio padre da me e disse che non dovevo piangere per questi motivi futili, perché quel giorno a Palermo era morto il giudice Giovanni Falcone. Quello … era un motivo serio per cui piangere. Il lunedì successivo a scuola la nostra mae­stra ci chiese se avevamo saputo la noti­zia della strage di Capaci e di raccontare quali fossero le nostre impressioni. Ero rimasta molto colpita dalle parole di mio padre e anche dall’espressione affranta della maestra ma non capivo bene la gra­vità di quanto accaduto».

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