venerdì, Aprile 26, 2024
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L’isola di Danilo Dolci

Conosceva pastori, pe­scatori, braccianti dei più sperduti paesi. Non li consolava con belle parole, ma li aiu­tava a guardare dentro la vita che era loro im­posta. E, anche, dentro se stes­si

Il 28 giugno avrebbe compiuto no­vant’anni: uno come lui ci farebbe an­cora comodo. Perché era uno che crede­va che la conoscenza fosse il principale mezzo di cambiamento delle società. E Dio solo sa quanto poco e quanto male siamo cambiati in questi anni pur defi­niti “età della conoscenza”.

A tutti la vita di Danilo dovrebbe sem­brare quella di un uomo con una marcia in più, ma normale: dotato di buona cultura, desideroso di cambiare il mondo (c’era stata l’esperienza di Nomadelfia), arrivato in Sicilia per ricerche archeologiche, “vede” (forse i guai iniziano proprio dal fatto che non sappiamo davvero “vedere”) la situazione di degrado che lo circonda e se ne sente responsabile. Quindi resta e si impegna per una cosa ‘romantica’ che si chiama il “riscatto” degli esclusi. Solo che lui fa sul serio e si dedica a tre obiettivi: fare conoscenza; fare denuncia; fare rivo­luzione (che è cosa serissima e nonviolen­ta).

Le sue indagini sul campo (Racconti si­ciliani, 1952/60, Banditi a Partinico, 1955 e Inchiesta a Palermo 1956) sono testi di storia italiana. Per capire il nostro tempo i giovani e i meno giovani smemorati, se vogliono rifare il punto sulle trasforma­zioni, formali e non formali, dell’Italia re­pubblicana, possono utilmente partire dal­la Sicilia degli anni Cinquanta e Sessanta, alla scoperta delle radici del continuo scorrere sotterraneo e pieno di diramazio­ni di quella linfa carsica e piena di vita, ma anche di tossico, di cui tutti gli italiani sono portatori.

Dolci registra le piaghe dell’analfabeti­smo, delle diverse forme di sfruttamento e di conseguente passività, della rassegna­zione disposta all’obbedien­za ai potenti di chi non ha lavoro e della corruzione di chi vuol comandare. Piaghe endemiche, inte­riorizzate, persistenti an­che nel graduale benessere che via via avanza: le denunce di Dolci davano fasti­dio ai governanti del tempo che lo perse­guitarono. Oggi quelli attuali possono ce­lebrarlo senza problemi (ma è interessante constatare che non lo fanno): se la gente passa le domeniche nei centri commercia­li, i diritti di cittadinanza nel segno della dignità comune possono restare ignorati.

Eppure è anche la rimozione di certi au­tori del passato che impedisce di prendere atto che i problemi “sociali” vanno ancor oggi condotti a soluzioni funzionali al bene “sociale”. Invece vengono prima le ragioni del mercato e quindi degli interes­si, e quindi della corruzione.

Ed è per que­sto che oggi un’inchiesta sulla mafia Dolci la farebbe a Milano, non a Palermo; a Modena e non a Partinico.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso stava per realizzarsi il boom economico: ne derivarono i “carrozzoni” e le metafori­che Casse del Mezzogiorno. E’ ingenuo dirlo, ma era possibile che i sacrifici che la gente allora sosteneva per uscire dalla miseria, insegnassero quel senso dello sta­to di cui gli italiani non riescono mai a farsi responsabili.

Dire pubblicamente come stanno le cose

Come cittadino scomo­do, Dolci diceva pubblicamente come sta­vano le cose, per­ché ciascuno si assumes­se la sua parte di responsabilità, a partire dal basso.

Diceva le cose che non si vole­vano ve­dere: bambini “affittati” per fare i pastori o per imparare il borseggio; ragaz­zi sfrut­tati che “non so se ho 17 o 19 anni… a scuola mai ci sono andato”, “sono analfa­beto”; altri finiti ignari in galera (“gli sbir­ri ci portarono tutti in prigione”); contadi­ni arrestati “per due mazzi d’erba”, malati a cui “per qualunque malattia ser­vono le mignatte”; crolli di case per frane prevedi­bili perché “quando c’è vento le case si muovono” e, dentro, “essendo il tetto qua­si sfondato, quando piove devono mettere sui letti le bacinelle”.

In Sicilia Dolci “conosceva” pastori, pe­scatori, braccianti, mezzadri, campieri e tanta gente che, quando uno veniva ucciso per strada, “sparato”, ed era conosciuto come un violento appartenente ad una “fa­miglia”, diceva “bono fecero” e taceva.

Quando i cittadini andavano a votare “non capiscono ciò che significa un parti­to” perché vedevano morire i sindacalisti e i politici di sinistra, i soli che gli inse­gnavano il senso dei loro diritti. “I delin­quenti – dicevano – sono protetti dal go­verno”. Nel 1954 Dolci denuncia il “disa­vanzo del Comune di Palermo”, il fatto che “il 50 % dell’acqua immessa nella rete va dispersa”, che “le condizioni abitative nei quartieri della vecchia Palermo”, come nei bassi di Napoli, “è spaventosa”: noi oggi leggiamo con qualche perplessità sulla data.

C’erano, non lo si deve dimenticare, quelli come Placido Rizzotto, che “cerca­va l’interesse della gente” e si era messo contro i mafiosi: “ci rubavano l’olio ai contadini… e tra gli esercenti c’è sempre la mafia”.

Quanto alle terre incolte da dare ai con­tadini “queste terre le avevano tutte i ma­fiosi nelle mani”. C’era il razio­namento: “anche i magazzini li avevano i mafio­si nelle mani e intrallazzavano con il zuc­chero, intrallazzavano con la farina, in­trallazzavano con la pasta, e oltre a que­sti intrallazzi erano riusciti a mettere un so­vrapprezzo a questi generi mediante l’accordo con un assessore comunale”. L’amico di Placido che racconta a Dolci queste cose conservando l’anonimo, certa­mente “un compagno”, conclude tragica­mente: “per questo l’ammazzarono”. E confessa che, se vuol lavorare e sopravvi­vere, “devo uniformarmi all’ambiente”.

Un ambiente che descrive così: “gente che ammazza e poi porta la Madonna in processione… I ricchi, la Chiesa hanno paura che le cose possano cambiare in loro danno, ma i poveri sono enormemen­te sfiduciati. Per i ricchi il mondo è quello che è, adoperano tutti i mezzi per tenerlo nello stesso stato in cui si trova. E il Mu­nicipio, di sinistra, non li manda via per­ché uno dice ‘qui comanda la scopetta e io mi devo far ammazzare?’… i braccian­ti, i contadini ci credevano che le cose po­tessero cambiare, oggi non più…. La Ca­mera del lavoro si è rifatta più forte di pri­ma che ci fosse Placido, molto più forte. Ma come fruttò? non abbiamo ottenuto niente, la gente si è sgretolata…”.

Non è fatalismo meridionale: capita tut­tora in tutti i paesi poveri che subiscono l’urto della crisi. E’ un dato umano su cui contano i poteri forti. Danilo Dolci inse­gnava – e dimostrava – che non è fatalità.

A Trappeto, dove visse, l’idea del ri­scatto sociale si fece realtà mediante la creazio­ne (che gli riuscì di realizzare con l’aiuto degli amici solidali) di strutture e pro­grammi: assistenza, in primo luogo sa­nitaria, scuola e asili per i bimbi, universi­tà popolare e biblioteca, interventi per il di­ritto al lavoro. Il 2 febbraio 1956 fu ar­restato alla testa di un gruppo di lavoratori che autonomamente riassestavano una trazzera, una strada abbandonata: una pro­vocazione che, arrivata alla stampa, fu chiamata “sciopero alla rovescia”. A tutti i manifestanti fu negata la libertà provviso­ria per “occupazione di suolo pubblico e resistenza alla forza pubblica”.

Diritto dei cittadini, dovere dello Stato

Dolci, una volta scarcerato (ma condan­nato, non as­solto, nonostante le reazioni in tutta Italia) scrisse Processo all’art.4 della Costituzio­ne, quello che rende il la­voro non solo un diritto dei cittadini, ma anche un dovere dello Stato.

Se il territorio di Partinico non cambie­rà – diceva Danilo – e i motopescherecci pescheranno ancora fuori legge, i poveri non avranno assistenza o i ragazzi scuola e se continueranno le “ammazzatine”, questo processo almeno impedirà che si possa dire “non sapevamo”. Quanto a lui, “meglio in galera con le vittime che liberi se privilegiati”. Uno così ha incrociato al­tre volte la “giustizia”, da ultimo quando denunciò, insieme con il giornalista Fran­co Alasia e con ampiezza di documenta­zione (cfr. Spreco, 1960 e Chi gioca solo 1966) l’incrocio mafia/politica di espo­nenti importanti della vita politica sicilia­na e nazionale, tra cui i democristiani on. Calogero Volpe e il ministro Bernardo Mattarella democristiani, che querelarono. Fu un processo-scandalo: durò sette anni e finì con una condanna non scontata in car­cere per amnistia.

Anche in questo caso valeva la testimo­nianza pubblica: non si poteva dire che non si sapeva che cosa fosse la mafia.

“Subire e tacere è peggio del ricatto”

Ai tempi di Trappeto e del “Borgo di Dio” non si parlava comunemente di “ma­fia”, si usava il più anodino “banditismo”.

Ma Dolci denuncia fin dagli anni Cin­quanta che in quel paese di 3.000 anime, in cinque anni un mugnaio era stato se­questrato tre settimane “per 20 milioni”, si era verificata una ventina di estorsioni forti, oltre ad una cinquantina per cifre in­feriori al milione.

Nessun dubbio, dunque, sulla qualità della presenza criminale. Ma “su­bire e ta­cere” è peggio del ricatto. Dolci non si stancò , come è noto, di denunciare e fare digiuni di protesta: altrimenti “mi vergo­gnerei di sopravvivere”.

Noi non ci vergogniamo abbastanza. Ma non noi di Palermo o di Partinico, bensì noi di Milano, di Modena. Di Roma. Eppure viviamo nell’ “età della conoscen­za”.

“C’è chi insegna / guidando gli altri come cavalli / passo per passo: / forse c’è chi si sente soddisfatto / così guidato. / C’è chi insegna lodando / quanto trova di buono e divertente: / c’è pure chi si sente soddisfatto se si sente incoraggiato. / C’è pure chi educa senza nascondere / l’assur­do che è nel mondo, aperto ad ogni / svi­luppo, ma cercando / d’essere franco all’altro come a sé, / sognando gli altri come ora non sono: / ciascuno cresce solo se sognato”

(Poema umano, Einaudi, 1974)

Un pensiero su “L’isola di Danilo Dolci

  • Sapeva che era fuorilegge, un giorno pens perfino di installarla su un barcone che avrebbe navigato al largo dell isola, in alto mare, fuori dalla sovranit dello Stato italiano.

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