venerdì, Aprile 26, 2024
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Un decreto contro la mafia

Ma c’è chi fa finta di non sentire…

«Non possono essere accolti coloro che si sono resi colpevoli di reati disonorevoli o che con il loro comportamento provocano scandalo; coloro che appartengono ad associazioni di stampo mafioso o ad associazioni più o meno segrete contrarie ai valori evangelici ed hanno avuto sentenza di condanna per delitti non colposi passata in giudicato».

Il decreto dell’arcivescovo di Monreale, mons. Michele Pennisi, rappresenta un vero e netto spartiacque nel rapporto tra mafia e Chiesa.

E’ il primo documento che ha la forza per intervenire, veramente, sia in modo

formale ma soprattutto in modo sostanziale, a bloccare quel processo di “cattolicizzazione dei mafiosi”.

Aveva fatto scalpore, lo scorso anno, il decreto del vescovo di Acireale, mons. Antonino Raspanti, che vietava le pubbliche esequie ai soggetti condannati per mafia. Un documento rivoluzionario sul tema, che agisce post mortem, sempre che prima non si fosse verificato un pentimento (e quindi un ravvedimento) durante la vita degli stessi. Il decreto emanato da Pennisi, rompe, senza alcuno indugio, il rapporto tra mafia, Chiesa e quei “fedeli” che grazie alle confraternite riescono ad accaparrarsi quella legittimazione sociali derivante dalla presenza alle feste religiose.

Del resto, ed è bene ricordarlo, questo decreto è stato reso necessario dopo i fatti che hanno coinvolto la Confraternita delle Anime Sante di piazza Ingastone, a Palermo, e l’arresto del suo superiore, Stefano Comandè. Pregiudicato per droga e boss di “cosa nostra”, è stato arrestato il 19 aprile scorso, nel bel mezzo dei riti pasquali.

Poche ore prima dell’arresto…

Proprio poche ore prima dell’arresto, durante la solenne funzione religiosa del Venerdì Santo, Comandè portava in processione le statue del Cristo morto e di Maria addolorata. E ancora qualche giorno prima, accompagnava con il gonfalone della sua confraternita, il defunto boss Giuseppe Di Giacomo, freddato mentre stava rientrando verso casa. Un funerale di “mafia”, con gli onori del caso e nuovi e vecchi padrini dietro al feretro.

In seguito a questi fatti e al successivo silenzio di Paolo Romeo, cardinale di Pa­lermo (silenzio che dopo due settimane dall’arresto di Comandè comportava che questi manteneva ancora il posto di supe­riore della Confraternita delle Anime San­te), interveniva proprio Pennisi che duran­te un convegno a Monreale sull’importan­za delle stesse confraternita in relazione al territorio asseriva: «Tutti coloro che ap­partengono ad associazioni di stampo ma­fioso o ad associazioni più o meno segrete contrarie ai valori evangelici non possono

far parte di associazioni religiose, confra­ternite, co­mitati festa o consigli pastorali». Due giorni dopo Pennisi fir­mava il decreto in oggetto e subito dopo la Curia palermita­na lasciava decadere Comandè dal suo ruolo di superiore della Confraternita che veniva sospesa a tempo indeterminato e affidata ad un commissa­rio visitatore.

Una situazione paradossale ma sicura­mente non è la prima volta che vi sono delle commistioni di questo gene­re.

Il caso del boss D’Ambrogio

Per fare alcuni esempi in terra di Sicilia si potrebbe citare il caso, avvenuto nell’estate del 2012, del boss Alessandro D’Ambrogio che con tanto di pettorina, utile per distinguere i confrati dalla mas­sa, sfilava dietro la vara della Madonna del Carmelo nel quartiere di Ballarò, a Pa­lermo. Una festa religiosa che a Palermo, é seconda solo a quella della “Santuzza”, di Santa Rosalia.

In questi due anni, D’Ambrogio, 40 anni e una condanna de­finitiva per asso­ciazione mafiosa, è torna­to in carcere nel corso dell’operazione Alexander e proprio pochi giorni fa, men­tre lui si ritrovava rin­chiuso nella sezione 41 bis a Novara, la “Madonna” si è inchi­nata davanti al covo del boss, l’ agenzia di pompe funebri della sua famiglia.

Ma se Comandè è stato rimosso dal suo ruolo di superiore ad Alessandro D’Ambrogio, «nessuno l’ha ancora sospe­so dalla confraternita di Bal­larò. Anche il suo vice, Tonino Seranella, è un devoto speciale della processione di fine luglio, pure lui due anni fa spingeva la vara per le strade del popolare mercato palermita­no».

Sarebbe auspicabile un maggiore con­trollo sui soggetti facenti parte della Con­fraternita, anche richiedendo il certificato penale, se necessario. A differenza di quanto pensa monsignor Barbaro Scionti, parroco della basilica cattedrale di Cata­nia, che così rispondeva in merito alle in­filtrazioni mafiose nel circolo di Sant’Agata: «Non siamo qui per cacciare la persone, non possiamo chiedere il certi­ficato penale a chiunque chieda di entrare in un’associazione religiosa. La Chiesa non può imporre questi limiti, ma siamo chiamati a pronunciarci affinché i suoi membri siano dei buoni cittadini, rinnovando le coscienze e fissando delle regole che ci impegneremo a far rispettare».

Quello delle infiltrazioni mafiose nelle Confraternite e la loro strumentalizzazio­ne per fini diversi da quello del culto cat­tolico, non rappresenta però, l’unico fron­te da arginare. Anzi, il problema é molto più complesso. Il decreto di Pennisi, così come quello di Raspanti citato all’inizio, rappresenta l’elemento quasi ultimo per porre fuori, definitivamente e veramente, i mafiosi dalla Chiesa.

Incompatibilità religiosa ed etica

Sicuramente può svolgere una funzione eterrente per giun­gere al provvedimento più naturale che la Chiesa nazionale dovrebbe adottare e su cui ha perso tempo prezioso: la scomuni­ca. Certo, le parole di Papa Francesco, forti e precise, non lasciano dubbi sull’incompatibilità religiosa ed etica tra la mafia e la Chiesa.

Rimangono parole però a cui nessuna diocesi, nessun parroco è tenuto a sotto­stare, così come accaduto in tutti questi anni. È arrivato il momento di trasformare le parole in azioni affinché non accadano più fatti come quelli avvenuti recente­mente in Calabria, e che per fortuna sono stati oggetto dell’attenzione dei media na­zionali. Mi riferisco a Oppido Marmetina, San Procopio e Vibo Valentia.

Escluderli una volta per tutte

Urge, sempre più, un provvedimento che escluda, una volte e per tutte, i mafio­si dalla Chiesa. Provvedimento, che dia attuazione ai buoni intenti di Francesco e della sua Chiesa e che spieghi come cam­biare l’ordinamento canonico ed ecclesia­stico per evitare l’accesso dei mafiosi alla comunità ecclesiastica.

Del resto, nel corso degli anni, la varie Conferenze Episcopali, nazionale e regio­nali, hanno prodotto dei buoni documenti per sancire l’incompatibilità tra la mafia e la Chiesa. Per questi motivi non c’è più tempo per aspettare. E ce lo conferma la beatificatio di Puglisi quale martire della Chiesa, ucciso in odio alla fede. Proprio lui, non appena giunto nella sua parroc­chia a Brancaccio, non perse tempo a sciogliere la Confraternita di San Gaetano per infiltrazioni mafiose e a mettere fuori i boss dalla comunità della Chiesa. Chiesa che ha continuato ad accoglierli e Chiesa che può dimostrare al suo popolo di aver sbagliato, prima, e di seguire l’esempio del suo beato, ora.

Applicando, semplicemente, il Vangelo. 

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