domenica, Dicembre 1, 2024
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Un amore di Mauro Rostagno

E così come un amore che in questa maniera diventa più intenso, allo stesso modo maggiormente intenso divenne la sua maniera di fare giornalismo a Rtc. Un continuo salire di tono, intensità, emozioni, rabbia, voglia di riscattare la terra dai suoi mali. Fino a quando non trovò i killer sulla sua strada quella sera del 26 settembre 1988. Lui che aveva alzato sempre più il tiro denunciando la munnizza che abbondava per strada, il disagio dei meno fortunati, il pericolo della droga, gli intrecci dentro le stanze della massoneria segreta, le ruberie di Palazzo D’Alì, sede del Municipio di Trapani, le tangenti che venivano distribuite nella vicina Marsala, la Paceco nascosta dentro le stanze dove si riunivano i mafiosi, le anomalie di un delitto irrisolto come quello del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, compiuto nell’agosto del1980, il coinvolgimento in quel delitto di due capi mafia siciliani per eccellenza, Mariano Agate e Nitto Santapaola, “salvati” in un primo tempo dall’ignavia di un capitano dei carabinieri, o ancora la barbarie del delitto di un giovanissimo ragazzo di bottega, ammazzato senza perché una mattina di estate in una stradina di Paceco.

Ci hanno detto: “voleva fare cambiare costume alla società”, vero verissimo, ma la società, questa società che lui tanto amava non è stata unisona nel cambiare costume, anzi chi ci ha detto di questo disegno di Mauro, incredibilmente davanti ai giudici che stanno processando i mafiosi assassini, non ha saputo dire chi, dove e quando borghesi ipocriti e venduti consigliavano agli editori di Rtc di fare tacere presto Rostagno. La mafia non era a cento passi da lui, come era stato per Peppino Impastato, ma a poco meno di cinque passi, tanti quanti erano quelli che dividevano il suo ufficio da quello dell’editore di Rtc all’interno della sede di Nubia. Proprietario della tv era Puccio Bulgarella, uno di quelli che quasi giornalmente sedeva al tavolo con Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina.

Cosa Nostra non poteva permettersi tutto questo. Non poteva sopportare un giornalista che la sfidava ogni giorno anche quando denunciava la spazzatura lasciata per strada perché sui rifiuti Cosa nostra aveva già messo le sue mani. Non fu un delitto di impeto, di gelosia, fatto da sprovveduti, ad uccidere fu quella mafia che entra in scena usando le auto rubate mesi prima e tenute nei garage della criminalità pronte per essere usate, è quella mafia che spara prendendo armi e munizioni dai suoi arsenali, che usa quei fucili sovraccaricati di pallettoni, che riesce a fare andare in corto circuito un intero impianto di illuminazione come accadde quella sera a Lenzi.

Il patriarca della mafia belicina Ciccio Messina Denaro, ha raccontato il pentito Sinacori, durante un summit espresse ogni peggiore rancore per “chiddu ca varva chi parla in televisione” e ne ordinò l’uccisione. Un incarico arrivato a Trapani a Vincenzo Virga, passato al gruppo di fuoco comandato dal campione di tiro a volo Vito Mazzara. I due sono imputati oggi in corte di Assise a Trapani. Incastrati dai pentiti e da una super perizia balistica. Mazzara si procurava da se cartucce e polvere da sparo, era lui a fare il confezionamento, cartucce similari a quelle rinvenute a Lenzi sono state trovate sulle scene dei delitti per i quali Mazzara è stato condannato all’ergastolo. La firma sul delitto di Cosa Nostra secondo la Polizia, nei giorni immediatamente vicini al delitto un maggiore dei carabinieri, oggi generale in pensione, Nazareno Montanti, sostenne invece che l’abitudine a sovraccaricare le cartucce era dei cacciatori. Ma Rostagno non è morto per un incidente di caccia. Né per colpa di balordi.

Nel 1988 l’allora capo della Squadra Mobile Rino Germanà imboccò decisamente la pista mafiosa nelle indagini, ma fu fermato. I carabinieri convinsero la magistratura a seguire altre piste, le gelosie, gli sprechi dentro Saman, un piccolo spaccio di droga in comunità. Dimenticarono quei verbali in cui Rostagno era andato a raccontare di alcune sue scoperte sulle connessioni tra mafia e massoneria, la presenza nel trapanese, non rara, del capo della P2 Licio Gelli, adesso confermata dal pentito Siino che ha detto ai giudici che qui, a Trapani, Gelli era venuto a preparare un golpe.

Per i carabinieri, per i carabinieri di allora, il delitto era roba di poco conto e non c’era quindi bisogno di andare a rileggere gli editoriali di Rostagno dove invece a chiare lettere c’erano scritti i mandanti e gli esecutori del suo omicidio, non era necessario calarsi nella realtà di una città dove si diceva che la mafia non esisteva e che Rostagno era un pazzo da isolare, e però Mauro di questa città si era innamorato. E ancora oggi a noi che restiamo continua a dirci di questo suo innamoramento. Basta sapere non solo leggere ma ascoltare cosa ci dice il vento che leggero soffia sulla collina di Ragosia a Valderice, e che con il suono prodotto da una sola mano, sfiora la figura di Mauro Rostagno sul muretto di pietra che circonda il luogo dove riposa. Da innamorato.

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