venerdì, Aprile 19, 2024
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Tutti i miei movimenti

Una studentessa bussò alla porta della classe.

Cominciava qualcosa…

Era una mattina del settembre 2005, quando ebbi il mio primo contatto di­retto con un pezzo di quello che qui chiamano spesso, con un’espressione dai confini mobili e incerti, il movimen­to. Una studentessa bussò alla porta della classe, chiedendo all’insegnante di far uscire due rappresentanti.

Non avevamo ancora eletto nessuno, ma la professoressa di lettere, profetica, mi mandò fuori come rappresentante provvisoria. La ragazza mi appioppò un pacco di volantini. «Tutta la classe li deve riempire, poi io passo a riprendermeli». Era una cosa per tutti gli studenti, per tu­telare i loro diritti, niente a che fare con la politica, disse, per rassicurarmi. Invece, era proprio quello che speravo di trovare al liceo, la politica.

Forse per sug­gestione cinematografica, arrivando al ginnasio mi ero preparata a unirmi a un covo di studenti belli e rivolu­zionari, co­stantemente assediati da orde di spietati fascisti e professori reazionari da conte­stare. Avevo trovato, invece, una classe quasi tutta di ragazze dall’aspetto irrime­diabilmente normale, che venivano da co­muni della provincia di cui ignoravo l’esi­stenza. Si trattava di moduli di ade­sione all’Uds, il sindacato studentesco all’epoca legato alla Cgil. Restarono nel mio zaino per qualche settimana, prima di essere ri­ciclati come liste della spesa.

Durante la nostra prima occupazione, France­sco Caruso venne a parlare con gli studen­ti.

La mia lista dei cattivi

Del suo intervento, ricordo solo che, alle osservazioni di un ragazzo scettico sulle manifestazioni contro il G8, rispose che in realtà i black bloc erano i poliziotti stessi. Tornai a casa abbastanza soddisfat­ta da quella spiega­zione, e per parecchio tempo confinai black bloc e poliziotti nel­la mia lista men­tale dei cattivi, dalla quale escludevo poli­ziotti onesti e black bloc particolarmente giovani e/o disperati.

Tre anni più tardi avevo imparato che il nemico, più che i fascisti, di cui nella mia scuola si vedevano esemplari totalmente innocui e piuttosto rari, erano gli Uds: “servi dei servi”, diceva una scritta in un bagno. I disobbedienti, loro sì, erano tosti.

A ridisegnare i miei schemi, arrivò quella che molti ricordano come l’Onda. Nel 2008 ero stata già rappresentante di classe e d’istituto, prendendo la cosa mol­to sul serio, e ne avevo abbastanza. La mia carica sarebbe scaduta a novembre, dopodiché mi sarei ritirata dalla politica scolastica.

Non avevo fatto i conti con il nuovo mi­nistro, Mariastella Gelmini. Il 23 settem­bre 2008, Giuseppe e io convocammo la prima di molte assemblee, firmando la convocazione come “studenti napoletani”. Giuseppe frequentava già un centro socia­le, e ne sapeva molto più di me di politica e movimenti. Quando ci incontrammo, mi mostrò, trionfante, una macchiolina di sangue sul casco, souvenir degli scontri per la discarica di Chiaiano. Non dissi niente, ma lo lasciai fuori dalla lista dei cattivi. Per quanto non particolarmente giovane (non più di me), e niente affatto disperato, mi stava simpatico. Fissammo un appuntamento per telefono, per defini­re gli argomenti e i tempi dell’assemblea. Quando gli chiesi come riconoscerlo, mi rispose: «Eh, tengo l’SH metallizzata, ten­go l’orecchino, sono… come ti devo spie­gà… un poco tamarro». «Ok, perfetto».

Convocammo una manifestazione per il 3 ottobre. A scuola avevamo scritto il vo­lantino, contattato altre scuole, avvisato i giornali e fatto tutto quello che negli anni precedenti era toccato ad altri, più grandi. Il camioncino con l’amplificazione, inve­ce, l’aveva portato il centro sociale Insur­gencia, lasciandoci in omaggio anche qualche speaker più navigato di noi. Dor­mii poco per l’ansia, ma, con mio grande sollievo, al corteo c’era un bel po’ di gen­te, tutti studenti medi, o quasi.

A deluder­mi, però, furono gli interventi che arriva­rono dal camioncino. Avevamo studiato la riforma Gelmini, spiegandola ai compagni di scuola con enfasi dramma­tica e dovizia di particolari, e sembrava invece, che il corteo fosse soprattutto con­tro la polizia e la discarica di Chiaiano.

Pur senza discu­tere sulla legittimità del­la protesta a Chia­iano, i lunghi interventi dei grandi, così diversi da quelli che ci aspet­tavamo a una manifestazione per la scuola pubblica, ci lasciarono un po’ con­trariati. Me e qualcu­no del mio collettivo, non tut­ti. D’altra parte noi del Liceo Vit­torio Emanuele era­vamo tonti, come sape­vano bene al Geno­vesi (e viceversa).

Tutte le scuole erano in agitazione

Poco tempo dopo, tutte le scuole del centro storico erano in agitazione, ciascu­na a modo suo. Il Pansini, che aveva il preside di sinistra, aveva ottenuto imme­diatamente un’autogestione, con la scuola aperta fino a tardi per tutti, mentre al Ge­novesi avevano occupato, dopo diversi e avventurosi tentativi, ma senza concedere nulla a preside, professori e personale ATA. Fotocopiatrici comprese, per la gioia di chi aveva adornato l’atrio con al­cune sue parti del corpo in formato A4, b/n. Da noi al Vittorio Emanuele avevamo occupato per modo di dire, chiavi in mano e d’accordo con il preside, dopo diverse giornate di assemblee.

Al Casanova, i ra­gazzi che si impe­gnavano sul serio erano un paio, Ro­sario e Caterina, ep­pure riuscirono a mantenere l’occupa­zione per almeno una settimana.

Or­ganizzarono una street parade, il giorno di Hallo­ween. La manifesta­zione consi­steva nell’andare in giro travestiti da mo­stri, e lo slogan che la lanciava, ottimista, era “cchiù black ‘ra midnight nun po’ vve­nì”.

I tagli ai laborato­ri, più che i licei, colpivano soprattut­to istituti come il loro, che forma arti­giani e odontotecni­ci.

I corsi autogestiti

Al Fonseca, invece, sembrava che si fa­cesse molto sul serio. Con l’aiuto dei pre­cari, si erano istituiti corsi autogestiti in varie materie, per permettere a chi voleva di non restare indietro.

La curiosità mi spinse a entrare, una sera, per salutare de­gli amici, ma soprat­tutto sincerarmi del fatto che, oltre a stu­diare matematica, gio­cassero anche a cal­cio nei corridoi. Così era, per fortuna.

Al momento di uscire, ri­masi bloccata nell’ingresso. I ragazzi non poterono apri­re fino a quando quelli del “sistema” di Santa Chiara non si furono annoiati di bussare violentemente e tirare oggetti vari contro la porta e le finestre.

Tutte le scuole del centro storico dove­vano vedersela con i ragazzi di Santa Chia­ra. Noi non avemmo problemi, non fecero che strapparci qualche striscione e metter­ci un po’ di paura, ma non entraro­no. Il Fonseca ebbe tremila euro di danni, se la memoria non m’inganna, pagati poi dai genitori degli alunni.

Con l’inizio delle occupazioni universi­tarie, smettemmo di riunirci al laboratorio occupato Ska, e ci spostammo nell’aula occupata Flex, gestita da un collettivo ab­bastanza variegato ma sostanzialmente di ispirazione post-strutturalista e post-ope­raista, come capii solo molto dopo. Le as­semblee pubbliche generali, invece, si te­nevano in Aula Magna, sempre nello stes­so edificio.

Là confluivano un po’ tutti i col­lettivi, chiunque poteva interveni­re, si parlava tan­to, c’era un sacco di gente. Per le questioni organiz­zative, cioè per deci­dere le cose, ci si spo­stava nel­le aule oc­cupate.

Una volta, inge­nuamente, propo­si a una ragazza che non conosce­vo di scri­vere un volantino nell’aula Flex.

Mi ri­spose di no, che era meglio in R5. Per me faceva lo stesso, era l’aula di fronte. Ma più tardi, scoprii che in R5 bisognava dire “mobilitazio­ne” al posto di “Onda”, “cor­teo” al posto di “street para­de” e non mi ricor­do cos’altro.

Le restrizioni sul linguaggio

Le loro restrizioni sul linguaggio non mi convincevano, e pensai che il volanti­no degli studenti medi, per come l’avevo in mente io, non fosse com­patibile con il loro. La mia proposta di farne uno a parte fu liquidata bruscamen­te, così sfogai il nervosismo, com’è mia abitudine, con puntigliose osservazioni sull’ortografia al­trui. La ragazza che era al computer si in­furiò e la lasciai fare.

Non ero la sola, tuttavia, ad accumulare una certa insofferenza verso collettivi uni­versitari, partitini dichiarati e non, centri sociali, sindacati di vario genere.

La prima esperienza politica

Come me, molti studenti alla loro prima espe­rienza politica non sopportavano che si cercasse di mettere un cappello sul no­stro movimento. Non conoscevamo le in­finite (e infinitesimali) differenze ideolo­giche e politiche che dividevano i più grandi, né ci interessavano. Noi eravamo la massa ai cortei, ci dicemmo, e le riunio­ni le avrem­mo fatte per conto nostro, fuori dall’uni­versità.

Preparammo una serata di sensibilizza­zione sulla rifor­ma, il programma era molto ricco. Avevamo contatti con i gior­nali, i nostri amici conoscevano i pro­grammi di grafica; i Cobas, ignari delle nostre ambizioni secessioniste, ci mette­vano a disposizione la fotocopiatrice; al­cuni di noi suonavano, conoscevamo a memoria interi passi della legge 133 e del D.d.L. Aprea.

Le mamme cucinavano instancabilmen­te per la causa. Ci mancava solo una sede, ci vedevamo nelle case. Per il resto ci sen­tivamo invincibili.

Il maltempo ci costrinse a rimandare una mezza dozzina di volte l’iniziativa fino a quando, esasperati, decidemmo di provare a farla lo stesso, sfidando il me­teo. La grandine si abbatté sugli amplifi­catori con inaudita violenza, vanificando il lavoro di un mese e lasciandoci con qualche centinaio di euro di debiti, che colmammo a colpi di pranzi sociali, dona­zioni e contributi familiari. Accettammo la sconfitta.

Dopo un anno d’immobilismo, gli stu­denti si ritrovarono ad affrontare nuovi ta­gli all’istruzione. Ero appena arrivata all’Orientale e accolsi con favore l’occu­pazione di Palazzo Giusso. Meno numero­so ma più determinato rispetto a quello del 2008, il movimento del 2010 chiac­chierava e occupava di meno, ma manife­stava e bloccava di più. Strade, binari, tea­tri, cinema, musei.

Dovunque passavamo, gettavamo scompiglio. La conoscenza os­sessiva del­le leggi non interessava più a nessuno. Fossero discariche, scuole, re­pressione o sol dell’avvenire, o anche tut­to questo in­sieme, ognuno aveva un buon motivo per stare in piazza, e questo basta­va. Chi non aveva mai fatto politica si te­neva piuttosto a distanza, ma il casino riu­sciva lo stesso, anzi me­glio, senza troppi “indecisi tra i pie­di”, parafrasando una canzone di quell’anno dei re­divivi 99 Pos­se.

Buona parte della protesta fu gestita dai collet­tivi comunisti. Non è che si chia­massero proprio collettivi comuni­sti, ma sono co­munque tifosi di Cuba alle Olim­piadi, e usano l’appellativo “compagno” con disinvoltura. Pur non condividendo la loro impostazione, non misi in discussio­ne la loro superiorità in termini di espe­rienza e capacità organiz­zative. Guardai con benevola sufficienza al nuovo grup­petto indipendente, nato dopo un’occupa­zione di Castel dell’Ovo. Mi dissi che la grandine avrebbe spazzato via anche loro, e infatti così fu.

Il megafono e i puri e duri

Il megafono diventava nuovamente mo­nopolio di un gruppo di duri e puri dalla parlantina allenata, complici la pigrizia e la timidezza degli altri. In una delle tante assemblee intervenne una studentessa fuori-sede, criticando la retorica degli slo­gan e il linguaggio pesantemente ideolo­gico. Piovvero su di lei insinuazioni di ogni genere, addirit­tura velate accuse di neofascismo. Nes­suno ebbe il corag­gio di riprendere il suo intervento.

Neanche io dissi niente, ma quando si presentò l’occa­sione di occupare uno spa­zio insie­me ai ragazzi dell’aula Flex, non ci pensai due volte.

Il loro linguaggio, per quanto largamen­te incomprensibile, mi sembrava almeno più fantasioso.

I tempi dello “Zer081”

Nella polverosa e dimenticata ex men­sa dell’Orientale nacque così lo Zer081. Oggi lo spazio è sotto mi­naccia di sgom­bero. In compenso, il col­lettivo che lo ani­ma si è reso protagonista di quattro nuove occupazioni. Non so dire per quanto tem­po partecipai alle loro as­semblee e inizia­tive. Un mese, forse, ma mai con partico­lare assiduità. La cosa più gratificante fu dipingere maschere di car­nevale con i bambini che abitavano nella zona tra San­ta Chiara e Banchi Nuovi.

A parte questo, partecipavamo a tante inizia­tive, in uno spirito allegramente ri­belle e talvolta spu­doratamente sconclu­sionato. Tuttavia, quando sentii i miei compagni cantare “Ruby libera” e “Se non cambierà bunga bunga pure qua” al sobrio corteo della Fiom, a Pomigliano, mi sentii fuori luogo dietro lo striscio­ne.

Gli slogan sono molto diversi, da uno spezzone all’altro dei cortei, a Napoli come ovunque. Una frase sola, mi resi conto, era pronunciata sempre uguale, con la stessa intonazione, forte e mono­corde, da qualsiasi megafono, in ogni cor­teo: «Dietro lo striscione!» L’Uds, lo Zer081, il Cau, Rifondazione, i precari Bros, i Carc, e la lista è ancora lunga. Mi dissi che uno striscione, anche il più bello, non serve che a dividere un corteo a pez­zi.

Qualche settimana dopo, conobbi la re­dazione di Napoli Monitor. Finalmente avevo un buon motivo per fare quello che, in fondo, avevo sempre desiderato.

Iniziai a scorrazza­re avanti e indietro tra gli spez­zoni dei cortei, registratore e taccuino alla mano. Non mi sono ancora stancata

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