mercoledì, Aprile 24, 2024
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Rione Traiano radici e storie

“Stava come un pazzo, col fuoco negli occhi. Ma a poco a poco…”.

Origini della violenza in una città del Duemila

Il modo in cui la grande stampa ha raccontato il contesto sociale dell’omici­dio di Davide Bifolco, riducendo tutta la questione a un problema di ordine pubblico; i commenti dei tanti maestri di pensiero locali e nazionali, oscillanti tra la colpevolizzazione degli abitanti dei ghetti urbani e gli spauracchi, sem­pre agitati a sproposito, di infiltrazioni camorriste o di solidarietà eversive con centri sociali e altri portatori di conflit­to; l’impotenza del sindaco, l’ostentata indifferenza delle altre istituzioni laiche e religiose, in generale il coro stridente e rumoroso che si leva dai benpensanti in queste tragiche occasioni, ci hanno indotto a mettere in cantiere una serie di reportage sulla condizione giovanile nei tanti ‘rione traiano’ della città.

Un modesto contributo per arginare la marea delle ipocrisie e delle falsità, sa­pendo bene che per sottrarre la gioventù dei nostri quartieri alle sirene ambigue della malavita e all’abbandono dei gover­nanti, l’unico modo passa per una azione coordinata e perseverante nei territori, al fine di portare in superficie la dignità, i punti di vista, le esigenze e anche le con­traddizioni di quelli che ci abitano.

 

Una collina di tufo

L’acqua della pioggia che scende dalla collina ha scavato nel corso del tempo dei valloni nel tufo, profondi fino a trenta me­tri, dove cresce spontaneamente un bosco di castagni. Il professor Marcello Canino ha scelto questa zona accidentata ai piedi della collina dei Camaldoli, per il progetto affidatogli a metà degli anni Cinquanta dal comitato di coordinamento per l’edili­zia popolare (CEP).

“Era un caso quasi unico, perché è ben noto quante difficoltà si incontrino a crea­re zone verdi nei nuovi quartieri popolari. In questo caso le zone verdi vi erano già naturalmente e bastava preservarle inne­standole nella composizione urbanistica”.

La pianta del quartiere si sviluppa se­guendo la complessa morfologia del terri­torio, affidando l’attraversamento dei val­loni al­berati a una serie di ponti, che avrebbero collegato sette pianori, ognuno dei quali destinato ad accogliere un nu­cleo minore del quartiere. Nel tessuto ur­bano sono in­tegrati servizi e trasporti, dai cinema alle palestre, strutture per l’assi­stenza medica e sociale, biblioteche.

Il progetto entra a far parte del piano re­golatore il 19 settembre 1957. L’anno se­guente, il plastico di questa nuova zona di Napoli viene esposto alla Mostra d’Oltre­mare. Mentre Canino e altri architetti e ur­banisti guardano con fiducia al futuro, si dà il via al programma finanziario: per al­tri, è qui che comincia la parte interessan­te.

In una traversa del viale Traiano, via Lattanzio, c’è una scuola abbandonata. È distrutta, rimane in piedi solo lo scheletro, ingombro di detriti e mobili sfondati. En­trando nel parco si vede un solo muro an­cora integro, dietro il quale c’è la palestra di boxe di Guido De Novellis. L’ex cam­pione italiano di pugilato, tredici anni fa ha avuto in concessione questo spazio ab­bandonato e col tempo l’ha trasformato. Ora è un unico ampio spazio, dalle pareti molto alte, tappezzate di bandiere nella parte superiore e di fotografie in quella in­feriore. Le immagini ritraggono il nonno ciclista su una splendida forcella, ai tempi delle sue gare agonistiche; c’è De Novel­lis, quando gareggiava a livello nazionale.

Me ne mostra un’altra in bianco e nero di suo figlio, piccolo e coi guantoni enor­mi, all’angolo del ring. E poi lo stesso sogget­to, però grande, grosso e a colori, che alza le braccia dopo una vittoria. Quando que­sta palestra venne inaugurata le occasioni per fare sport, amatoriale o agonistico che fosse, erano scarse.

Dietro la scuol aabbandonata

Il Polifunzionale non era che una mon­tagna di cemento e mi­liardi rubati alla collettività, cosa che con­tinua a essere an­cora oggi, malgrado tre campi da basket e pallavolo in funzione. De Novellis, brac­cia incrociate e parlata veloce, mi spiega che continua a esserci una folla di persone che nei giorni dispari si allena attorno al suo ring. Nei giorni pari, invece, la pale­stra è dedicata all’alle­namento di chi non può permetterselo. È un martedì il giorno in cui lo vado a tro­vare.

Sul linoleum si massacrano di eser­cizi dei ragazzi intorno ai diciotto anni, sono tutti venuti lì a chiedere di poter frequen­tare la palestra gratuitamente.

Il mae­stro mi dice che se un ragazzo ha una fa­miglia che non lo segue o che non può permetter­si di farlo, se questo conti­nua a non trova­re lavoro, gli si dovrebbe alme­no dare la possibilità di tenersi in for­ma fisicamente, di essere educato dalla di­sciplina dello sport. Mi indica un ragazzi­no che fa addo­minali: «Quello quando en­trava stava come un pazzo, col fuoco ne­gli occhi. Pian piano l’ho fatto sfogare, ha imparato a mantenere la concentrazione, ora è più tranquillo, più maturo, il padre è conten­tissimo».

Gli chiedo come fa a essere si­curo che sia nullatenente chi si presenta per alle­narsi gratis. Lui mi risponde che questa iniziativa è fatta per aiutare non solo fisi­camente, ma anche psicologicamente: se qualcuno ha i soldi e fa finta di essere po­vero per risparmiare quaranta euro, vuol dire che anche lui ha bisogno di aiuto.

Il rione è un circuito chiuso

Nel frattempo i motorini passano rumo­rosi sullo stradone che collega il rione al resto della città. Vengono allo scoperto e poi subito scompaiono nelle strade che si addentrano nel centro abitato, dove ho sempre la sensazione di trovarmi a casa di qualcuno che non mi ha invitato.

Il rione è un circuito chiuso, dove le fa­miglie e le generazioni si sovrappongono, creando in alcune zone un intreccio ine­stricabile di conoscenze. La chiusura ac­corcia gli oriz­zonti e i margini di scelta.

La disoccupa­zione non può essere un alibi per chi entra a far parte in modo atti­vo dei meccanismi del Sistema ma, ad ascoltare chi racconta la sua esperienza, chi non si costruisce da sé una via di usci­ta, rischia di infilare una corsia che ti fa correre restando sul posto. Perché va bene mettersi in proprio, essere bravi a fare qualcosa, «…ma mai esagera­re. Devi sempre restare con le Converse ai piedi e la macchina scassata. Se cominci a salire già non va bene».

Saper fare qual­cosa è più che lavorare, avere una passio­ne è qualcosa di più forte ancora. C’è chi è partito dall’ossessione per il disegno, ha investito la sua prima vera paga in un kit per tatuatore e da auto­didatta ha imparato un mestiere, si è assi­curato una clientela, trovando un ter­reno solido su cui poter contare per arri­vare a fine giornata e non dover chiedere niente a nessuno, sottraen­dosi con grande sforzo da una forza ma­gnetica che nel rio­ne lo voleva attirare verso il basso.

Diversa è la storia della persona che in­contro a Fuorigrotta, nella carrozzeria dove lavora. Si chiama Lello. Mi fa sede­re davanti a una scrivania ricavata dalla parte anteriore di una Peugeot e comincia a parlare del luogo dove ha vissuto, quella via Tertulliano dove sembra che all’inizio della strada ci sia una porta invisibile, e tutto cambia nello spazio di pochi metri: tutti passano, rapidamente e senza sosta, ma in realtà nessuno entra e nessuno esce.

Nelle scale del condominio c’è un batti­tacco di marmo che si sposta e nasconde la merce del piccolo spacciatore del posto. Lello ha la passione per l’arte, nella sua cantinola costruisce un laboratorio dove dipinge. All’epoca spazi del genere veni­vano presi di mira da chi non aveva un posto per vivere, soprattutto dopo il terre­moto dell’Ottanta.

La conseguenza è che Lello e la sua fa­miglia devono lottare per conservare quel­la piccola stanza sotterra­nea dove vengo­no create le tele che ades­so, mentre parlia­mo, escono da dietro gli scaffali, tra stru­menti di lavoro e pezzi di carrozzeria, ri­coperte di polvere e mac­chiate da schizzi di vernice.

I personaggi dei dipinti di Lello si de­formano, hanno bocche enormi a furia di lanciare urla sguaiate, gli occhi spalancati e i corpi in allarme. Poi sculture in ferro, nella stanza dove si conservano in ordine le latte di co­lore per la verniciatura delle auto: figure lacerate e primitive, dai colori vivi ma resi invisibili dalla polvere.

Un ragazzino per fare il palo prende tre­centocinquanta euro a settimana rischian­do ogni giorno la ga­lera. Più o meno per la stessa somma, se imparasse il mestiere, Lello lo assumereb­be in carrozzeria. Im­parare però non è che la parte tecnica di una questione più gran­de, che consiste nel sapere di avere una alternativa.

“Troppe cose da raccontare”

Su una delle grandi strade di attraversa­mento del quartiere, al piano terra di uno dei palazzi che la costeggiano, ci sono le sedi dei partiti, uno al fianco dell’altro: partito comunista, partito democratico, nuovo centro destra e un grande bar in sti­le neobarocco, con un’insegna che arriva quasi al primo piano del palazzo e neon che di notte illuminano l’asfalto. Nello stesso palazzo abita Antonio.

Quando en­tro e gli faccio i complimenti per la casa lui tentenna nel rispondermi: ci sono trop­pe cose da raccontare, se vengo­no fuori tutte assieme non si riesce a dirle, bisogna sedersi e parlare con calma. Anto­nio nel 1980 studiava architettura. La donna che ora è sua moglie, invece, lin­gue all’Orien­tale.

Avevano due figli piccoli, uno tra le braccia di lui, l’altro tra quelle di lei, quando il 23 novembre 1980 la loro casa a Montesanto cominciò a ondeggiare e pen­sarono di morire.

Si salvarono invece, ma persero tutto. Il terremoto aveva danneg­giato, oltre alla loro casa, i luoghi dove avevano investito per anni le loro energie, creando con un lavoro di anni una scuola a tempo pieno.

Antonio, che non dispone­va dei dodici milioni a fondo perduto che in quell’occa­sione pretendevano per dare una casa in affitto, era destinato ai contai­ner.

Un edificio a Soccavo

Per evitare tutto questo, individuò un edificio di proprietà del comune, a Socca­vo, e occupò un appartamento. Non era però una occupazione come le altre: il pa­lazzo non era stato completato, non c’era­no le mura, si dormiva coi giubbotti, con materiali di recupero a fare da pareti esterne.

Antonio mi indica il corridoio in fondo, dove adesso si trova una delle stanze: al posto di quella porta si vedeva il palazzo di fronte. Questa occupazione non ha una organizzazione dietro, c’è solo una voce che gira, e dice che uno studente di sini­stra fa occupare appartamenti agli sfollati: lo fermano per la strada e gli chiedono se è lui quello che dà le case gratis.

Il palaz­zo si riempie, col tempo i lavori di costru­zione vengono terminati e negli anni la fa­miglia che per prima occupò l’immobile continua a ristrutturare l’appartamento, rendendolo il posto acco­gliente che è adesso.

Ma Antonio non si ferma, al piano terra c’è uno spazio inutilizzato che occu­pa tut­to il piano terra dell’edificio, più un livel­lo interrato delle stesse dimensioni.

Un progetto di centro culturale

Con un grande lavoro l’ex studente di ar­chitettura elabora un progetto per riqua­lificare quel luogo, per creare un centro culturale. Appena accenna all’argomento tira fuori una pianta in scala che spiega su tutta la scrivania: al primo piano una bi­blioteca, con una sala riunioni, un’area ri­creativa e un ampio spazio dedicato al coordinamento tra le associazioni culturali della città. Il piano inferiore è dedicato alle attività per i bambini, al cinema, alla musica, al teatro. Il progetto viene appro­vato dal comune.

C’è qualcosa però che succede tra l’approvazione di un progetto e la sua rea­lizzazione.

C’è una istituzione che firma, ma poi ce n’è un’altra che deve controfir­mare. Uno spazio resta vuoto, inutilizzato, i fondi si perdono nel nulla e i lavori non vengono completati. Le proposte vengono ascolta­te, approvate, addirittura incorag­giate ma poi niente si muove. Fino a quando, all’improvviso, tutto si sblocca, ma non nel modo che pensavi. Al posto del centro culturale vengono assegnati i locali alle sedi di partito che in realtà sono centri per la vendita di servizi di patrona­to.

Il solito meccanismo clientelare

Il solito meccanismo clientelare che non ascolta ragioni, non guarda ai proget­ti, alle proposte, forza il meccanismo ungen­dolo col denaro, fino a deformarlo, alte­randone il funzionamento: a quel punto non c’è neanche più bisogno di forzare, le cose vanno avanti in modo ufficioso e re­golare.

Chi con me ha parlato della sua espe­rienza, quando ha dovuto difendersi dalla malavita organizzata, ha trovato nel­lo sta­to un secondo nemico, alleato al pri­mo grazie alla forza della corruzione e della mediocrità. E non si tratta di mele marce.

Spazi verdi? No, discariche

Fin dai primissimi giorni della costru­zione del rione Traiano, nelle vallate che il professor Canino voleva diventassero lo spazio verde del rione, i camion scarica­vano di notte i detriti che provenivano da­gli altri cantieri privati, scarti di una spe­culazione edilizia che guadagnava terreno sulla città, distruggendo e ricostruendo senza freni.

I castagni sommersi dai rifiuti

In breve tempo i boschi di ca­stagni furono sommersi dai detriti e dai ri­fiuti.

Prima ancora che i ponti per l’attraver­samento dei valloni fossero completati, non c’era più nulla da attraversare. Le au­torità impedirono a stento lo scempio; a cose fatte, invece di intervenire sui re­sponsabili, si decise di accettare la cosa e di costruire le strade su quelle opere di riempimento coatto.

Il viale Traiano sorge su un cumulo di rifiuti dell’edilizia e dell’industria. Il pro­getto per la costruzio­ne del quartiere, or­mai snaturato, fu co­munque portato avan­ti, e alcuni suoi risul­tati si distinguono an­cora oggi da un pun­to di vista architetto­nico e funzionale.

Ma il terremoto creò l’emergenza, che a suo volta diede il pretesto per nuovi rima­neggiamenti, venne data priorità alle abi­tazioni, rimandando a data da destinarsi la co­struzione delle infrastrutture e dei servi­zi.

Confinate qui le classi povere

Nel nuovo quartiere vennero confinate le classi povere in emergenza abitativa. Oggi, persone che non hanno mai visto una periferia, intellettuali mediocri giudi­cano da lontano, seduti su una poltrona in televisione, e decidono a tavolino, secon­do i propri interessi, qual è il motivo per cui un ragazzo viene sparato da un poli­ziotto, o perché centinaia di vite sono ro­vinate o spezzate sul finire di vicoli cie­chi.

Si continua a versare detriti sul rione, sommergendo quel che resta di buono, fa­cendo il gioco di chi ha tutto l’interesse perché il quartiere resti isolato, le idee non circolino, le possibilità non arrivino a chi vorrebbe che le cose in quel posto non andassero così. Le porte del rione Traiano non si sono chiuse da sole.

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