sabato, Ottobre 5, 2024
-mensile-Reportage

Quattromila in attesa “Accoglienza” e affari

Dieci in 160 metri qua­drati. E un anno per ot­tenere un per­messo

Alla fine dell’estate il Centro d’acco­glienza per richiedenti asilo più grande d’Europa ha raddoppiato la sua popola­zione, a causa dei continui sbarchi. Adesso vivono in dieci in una casa di 160 metri quadrati. Aspettano media­mente un anno per ricevere un permes­so da rifugiati e intanto si sono organiz­zati, tra feste e mercatini fai da te.

«Siamo diventati la prima impresa del Calatino», spiega Sebastiano Maccarrone, direttore del consorzio che gestisce il Cen­tro ricevendo dallo Stato circa 4milioni di euro al mese e offrendo opportunità di in­tegrazione. A volte però non bastano per affrancarsi da una condizione di eterno presente.

«Questo è un luogo di passaggio, non solo burocratico, soprattutto mentale». La definizione più azzeccata del Centro d’accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa è di Gioacchino Cu­trupia, uno degli psicologi che presta ser­vizio al Cara. A lui e ai suoi colleghi è af­fidata la delicata missione di rimarginare ferite profonde: «Traumi post-violenze, mancanza di sonno e concentrazione, im­pazienza e tristezza». Lavoro improbo in una struttura che accoglie quasi quattro­mila persone. Mercoledì 16 ottobre, il giorno della nostra visita, la cucina ha sfornato 3.890 pasti a pranzo. Riso in bianco, pasta con salsa e fagioli, hambur­ger di tacchino. Numeri lievitati con l’aumento degli sbarchi.

«Alla fine dell’estate, in 15 giorni siamo passati da duemila ospiti, il massimo della capienza secondo l’accordo politico sul territorio, a quelli attuali», spiega Seba­stiano Maccarrone, direttore del Cen­tro.

Prima di arrivare a Mineo ha lavorato a Lampedusa, dove il discusso consorzio Sisifo,gestisce il centro di prima acco­glienza.

In ogni casa vivono attualmente una de­cina di persone, divisi per nazionalità e gruppi famigliari. Le strutture a disposi­zione dei migranti sono 370, mentre una trentina sono occupate da uffici dell’amministrazione o sono usate per altri servizi. Ogni casa è realizzata su due pia­ni, per una grandezza complessiva di 160 metri quadri e dispone di tre bagni. L’arredamento interno varia molto in base a chi le abita: alcune sono spoglie, solo brandine e materassi. Altre ben accessoria­te. Moltissimi hanno aperto piccole attivi­tà commerciali fai da te all’interno del Cara: si vende di tutto, dai vestiti alle vet­tovaglie, dalle pentole alla connessione in­ternet. Uru Bangna ha 22 anni e viene dal Togo. Ha le mani sporche di grasso, passa il pomeriggio a smontare copertoni di bici­clette, riparare camere d’aria e cambiare pezzi. Lui e i suoi pochi conterranei – i to­golosei rappresentano una comunità picco­la nel Centro, appena una quindicina di persone – hanno aperto una ciclofficina.

Un euro per ogni camera d’aria da ram­mendare. Un business che funziona, consi­derato che in ogni casa c’è almeno una bici. «Ma per chi non ha soldi lo facciamo anche gratis», sottolinea Uru prima di spiegare cos’è che secondo lui non funzio­na nel Cara. «E’ vero, siamo liberi ma come faccio a cercare un lavoro se la sera devo rientrare qui? Non capisco le leggi italiane». Si appassiona, alza la voce, ma la abbassa rapidamente quando vede pas­sare una volante della polizia.

Uru Bangna è a Mineo da sette mesi. Non ha ancora raggiunto la durata media di permanenza nel centro, che, secondo i dati del direttore, si attesta ad un anno. Passano mediamente 365 giorni prima di ricevere il responso della commissione territoriale sulla richiesta di asilo: vengo­no concessi cinque anni se viene ricono­sciuto lo stato di rifugiato, tre anni in caso di protezione sussidiaria (se si rischiano ritorsioni tornando in patria), un anno per quella umanitaria.

La commissione è l’argomento principa­le dei migranti, il ne­mico assente contro cui a volte si scatena la rabbia, come suc­cesso l’ultima volta il 3 ottobre quando la polizia è intervenuta per sedare una prote­sta di 200 africani che avevano occupato la strada statale. La sot­tocommissione di Mineo, ramo delocaliz­zato di quella di Si­racusa, non esiste più formalmente dallo scorso dicembre, da quando è cessata l’emergenza Nord Afri­ca. «In realtà non funziona dall’estate del 2012 e le cose da quel momento sono peg­giorate», spiegano dal pool di otto avvo­cati che lavora all’interno del Cara.

Più di un anno dal ricorso

All’attesa per il primo responso della commissione si aggiunge a volte anche quella successiva al ricorso. «Un esempio? Per un ricorso presentato ad aprile del 2012, la sentenza è arrivata nell’agosto del 2013. Un anno e quattro mesi dopo», precisano i legali. Ecco che i tempi si dila­tano all’infinito. «Ma l’emergenza in real­tà non è affatto finita – ammette il diretto­re Maccarrone – Il Ministero ha deciso re­centemente di aumentare il numero delle commissioni, dovrebbe nascerne una a Ragusa, così che a breve quella di Siracu­sa possa dedicarsi esclusivamente al Cara di Mineo».

Chi invece è arrivato da appena 20 gior­ni è Omar, uno dei 14 siriani ospiti. Nelle ultime settimane in realtà ne sono passati un centinaio dal Cara, ma la maggior parte è scappata il giorno dopo. Direzione Nord Europa. Omar, 26 anni, è rimasto. «Non ho i soldi per continuare il viaggio e qui mi trovo bene», spiega. Viene da Aleppo ed è di origine curda.

Per spiegare cosa comporti la combina­zione di questi due elementi, Omar mostra un video agghiac­ciante sullo smartphone di un suo coinqui­lino. Un gruppetto di uo­mini curdi è pie­gato sulle ginocchia a ri­dosso di un muro ad Aleppo. Attorno a loro quelli che Omar definisce «ribelli, mi­liziani di Al Qaeda» urlano, quindi scari­cano addosso ai malca­pitati una sequenza interminabile di colpi di mitra.

«Ci odiano tutti, i ribelli perché dicono che siamo amici di Bashar al Assad, ma anche il regime; per noi in Siria non c’è speranza. Ad Aleppo ho lasciato la mia fa­miglia, oggi sono vivi, domani non lo so. Non posso neanche chiamarli, perché non hanno più un telefono».

Omar è uno dei pochi che non ha tra­sformato l’ingresso di casa sua in un pic­colo bazar. Di fronte a lui Mohamed, dall’Eritrea, ha una collezione di scarpe, in parte nuove e in parte usate che vende a nove euro al paio. «Le compro a Catania, vado in taxi, andata e ritorno mi costa die­ci euro». Anche Ibrahim, del Gambia, vende scarpe. Prezzi più bassi: un euro al paio. «Le prendo nei cassonetti a Catania, quelle che gli italiani buttano perché sono vecchie». Ma ci sono anche pentole di tutte le misure, quattro o cinque euro l’una. «E’ l’unico modo che ho per aiutare la mia famiglia, in Gambia ho due figli e una moglie», aggiunge Ibrahim.

Bancarelle a ogni passo

Più ci s’avvicina alla mensa, più le ban­carelle aumentano. Un pacco di zucchero e una bottiglia di olio di semi si vendono a un euro e cinquanta, non c’è distinzione. I ba­zar fai da te funzionano anche perché in quello ufficiale del campo le attese a volte sono troppo lunghe. «Ho aspettato un mese per avere uno shampoo», si lamenta Uru, il meccanico delle biciclette. Ogni giorno i migranti ricevono 2 euro e 50 centesimi su un badge. Spendibili solo all’interno del campo, in sigarette, schede telefoniche, ticket da consumare in locali convenzionati (nel paese di Mineo ce ne sono due), o altri prodotti che si possono richiedere al mercato del Cara.

«Non pos­siamo dare soldi liquidi, per­ché, visti i grandi numeri, dovremmo blin­dare il cam­po», spiega il presidente del Centro. Un operatore racconta che in esta­te uno degli ospiti si è fatto recapitare un camion fri­gorifero pieno di gelati e ha aperto un piccolo bar. «Noi non siamo pre­posti a sorvegliare gli ospiti o sottrarre loro og­getti che portano nelle loro case», sottoli­nea Maccarrone.

Così ogni pomerig­gio un fruttivendolo di Mineo piazza la sua ape davanti all’entrata del Cara e fa af­fari d’oro ven­dendo ai migranti frutta e verdu­ra. Ha an­che assunto uno degli ospiti che lo aiuta con la traduzione, in cambio di una busta della spesa e una piccola paga.

Un’economia interna ed esterna che ha portato ricchezza a tutto il territorio. «Il consorzio ha assunto 300 dipendenti, quasi tutti della zona – fa i calcoli il diret­tore – I migranti spendono i soldi che han­no a disposizione nei paesi vicini e noi ci rivolgiamo a fornitori locali per i beni di cui necessitiamo. Il Cara è di­ventato la prima impresa del Calatino».

In cambio di tutto questo, il ministero de­gli Interni paga al consorzio 34 euro e cinquanta centesimi al giorno per ogni migrante, un’entrata quotidiana di 138mi­la euro in questo momento, circa quattro milioni di euro al mese. «E’ la stessa cifra per tutti i Cara d’Italia, solo che noi oltre ai dipendenti, le utenze, il vitto, paghiamo anche l’affitto alla proprietà della struttura, la ditta Pizzarotti».

Ogni giorno è lo stes­so consorzio a pre­sentare un report delle presenze al ministe­ro. «Se il badge di un ospite non viene movimentato per più di tre giorni, in entra­ta o alla mensa per esempio, viene auto­maticamente dismesso dal nostro databa­se», precisa Maccarrone.

Nel primo pomeriggio quasi tutti bivac­cano davanti casa. Qualcuno porta fuori le casse e la musica si propaga per tutto il viale. Una donna si tiene in equilibrio sul­le tegole per pulire il tetto, usato in molte villette come ricettacolo di rifiuti.

Davanti all’ambulatorio della Croce Rossa, dove sono reperibili in ogni mo­mento due medi­ci e cinque infermieri, c’è sempre la fila. Si effettuano circa 120 visi­te al giorno. «Ma nella maggior parte dei casi si tratta di interventi banali, un po’ come gli anzia­ni italiani che non avendo granché da fare passano molto tempo dal dottore», afferma Stefano Grasso, il coor­dinatore dei medi­ci. I numeri dicono che sono circa 300 le persone che seguono una terapia, cronica o occasionale.

La nota dolente arriva quando si parla di emergenze o di ricoveri. Il pronto soccor­so più vicino è quello di Caltagiro­ne. «Gli diamo tanto lavoro e in qualche reparto non ci vedono di buon occhio», spiega Grasso. «La verità – ammette il di­rettore Maccarrone – è che quell’ospedale, con l’apertura del Cara, non è mai stato potenziato e non risponde alle esigenze dei migranti. Mancano ad esempio i me­diatori culturali. Siamo costretti spesso a mandare i nostri: come dovrebbe fare altri­menti un ragazzo africano a comunicare il proprio malessere?». Eppure il nosocomio calatino ha tratto anche dei vantaggi: con 51 parti negli ultimi due anni, le donne del Cara hanno scongiurato la chiusura del re­parto di ginecologia. «Senza considerare l’aumento dei finanziamenti, proporziona­le al numero delle prestazioni, che la Re­gione garantisce all’ospedale», aggiunge Grasso.

Di fronte alla mensa c’è lo Spazio delle opportunità, il luogo in cui si gestiscono tutte le attività aggiuntive rispetto all’ordi­nario, come i corsi di informatica, il gior­nalino e la ludoteca per i bambini. Il gior­no precedente alla nostra visita si è tenuta la festa musulmana del Tabaski, del sa­crificio, a cui farà seguito un’altra festa laica in fase di organizzazione. Il corso di danza, a cui partecipano una trentina di migranti, ha prodotto un gruppo, il Cara Free Spirits, che si è esibito in vari paesi della provincia di Catania, portando in giro balli di tutto il mondo. Una rappre­sentativa vincente è anche quella di calcio.

“Prendono solo qualche calciatore

Qui i numeri aumentano, sono circa un centinaio quelli che partecipano agli alle­namenti tenuti dal lunedì al venerdì da due giovani allenatori, Gianluca Trombino e Giuseppe Mazzella. «La nostra squadra ha vinto tutte le amichevoli disputate fino­ra – afferma Trombino, un passato al Gre­noble, in Francia – e siamo riusciti a piaz­zare i nostri giocatori più bravi in qualche squadra locale, come Calatabiano e Scor­dia, mentre un ospite nigeriano adesso gioca in Bundesliga (la serie A tedesca, ndr) nell’Hoffenheim». Ma il calcio è l’unica attività in cui la selezione dei curri­cula ha portato a qualche risultato. «Tra la crisi e la diffidenza, le imprese non hanno mai preso in prova nessuno dei mi­granti del Cara», spiegano dalla direzione.

Giovanni Discolo è il professore di ita­liano nella classe di livello A2, il più alto al momento. «Anche se l’obiettivo sarebbe portarli al B2», precisa. Sono state formate 29 classi da 30 studenti ciascuna. In tota­le quasi 900 persone per sei insegnanti. Anche se i numeri ufficiali parlano di due­mila 800 iscritti ai corsi di italiano. Gio­vanni insegna a ospiti di nove nazionalità differenti: Mali, Costa d’Avorio, Gambia, Bangladesh, Pakistan, Senegal, Somalia, Eritrea e Guinea. «All’inizio li avevamo divisi per ceppo linguistico, ma poi ci sia­mo accorti che era meglio mischiarli per favorire l’integrazione».

Ne sono convinti anche gli psicologi: imparare l’italiano e avere un gruppo di appartenenza sono due risorse indispensa­bili per non perdersi. Ma non tutti ce la fanno in una condizione di eterno presen­te, dove domani rischia di essere uguale a ieri. E i sogni e i progetti una pietra pre­ziosa custodita in un cassetto da sbirciare ogni tanto per non dimenticare quale sia la loro sostanza.

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