giovedì, Dicembre 12, 2024
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Mauro e Peppino Due storie parallele

Ventisei anni per Mau­ro, ventidue per Peppi­no: alla fine la sentenza è ar­rivata. Un tempo inumano per chi aspet­ta giustizia

Due depistaggi delle indagini attra­verso tortuosi sentieri e fervide imma­ginazioni, per nascondere due delitti di mafia.

Per Peppino le assurde piste dell’atten­tato ter­roristico, magari con l’aiuto dei suoi com­pagni, tra i quali avrebbe potuto nascon­dersi anche un complice o l’assas­sino, op­pure un suicidio eclatante, per Mauro “l’omicidio in famiglia”, maturato all’interno della comunità Saman, l’immaginata tresca tra Chicca Roveri e Francesco Cardella, che avrebbero deciso l’eliminazione di Mauro, qualche tossico scoperto, che si sarebbe vendicato, oppure l’accusa ai suoi compagni di Lotta Conti­nua, che l’avrebbero eliminato perché era al corrente di chissà quali notizie sul caso dell’omicidio del commissario Calabresi.

Il Sessantotto

Peppino e Mauro si formano all’interno di quel coacervo di idee che cominciano a circolare, a partire dal ’66 negli ambienti politicamente più avanzati della cultura italiana, sino ad arrivare all’esplosione del ’68. Da una parte le lotte studentesche all’università di Trento, quelle degli ope­rai della Fiat, dall’altra le lotte dei conta­dini di Punta Raisi contro il progetto di costruzione della terza pista, e quelle degli edili. Ma insieme il rifiuto dei partiti politici allora sulla scena, la scelta extraparlamentare a sinistra del PCI, il sogno del comunismo come momento finale della liberazione e della realizzazione dell’uomo, la radicalità delle lotte, la denuncia delle cricche di potere allora dominanti, l’organizzazione delle masse, la scelta non violenta, ma con frequenti tentazioni verso la risposta armata alle continue prevaricazioni del potere. A Cinisi e a Palermo arrivava prima gli echi , poi i fermenti del grande momento di lotta che si diffondeva a macchia d’olio.

In Sicilia

Nel 1972 Mauro si trasferisce in Sicilia come responsabile regionale di Lotta Continua , il movimento che egli stesso aveva contribuito a creare, alla fine del ’69. Mauro è affascinato dall’isola: ”Mi piace la politica, i siciliani, le siciliane, il mare, lo scirocco… Mi piace l’odore di zagara e quello del gelsomino, i tramonti, le albe…”. A Palermo riesce ad avere un contratto con la facoltà di architettura, dove insegna sociologia, fa conoscere e studiare Reich, Sartre, Deleuze, Foucault, ma il preside lo solleva dall’incarico con una strana e assurda accusa: le sue lezioni sono troppo frequentate e arrecano distur­bo all’ordine pubblico. E’ il periodo in cui matura il colpo di stato in Cile, si scopre il tentato golpe di Junio Valerio Borghese, al quale non era estranea l’adesione della mafia e, in particolare, del boss Badala­menti, si dibatte per il referendum sul di­vorzio, si pone all’attenzione il problema dei senzatetto e dei disoccupati, sino ad arrivare, il 16 settembre del ’75 all’occu­pazione della cattedrale di Palermo.

L’incontro

Ed è anche il periodo in cui Peppino aderisce a Lotta Continua, un movimento con forti connotati anarchici, che aveva resistito allo scioglimento dei vari gruppi marxisti-leninisti e di Potere Operaio, che non richiedeva ortodossie ideologiche, che era vicino ai problemi della gente e li affrontava , attraverso il suo giornale, con un linguaggio semplice e non ideologizza­to. La matrice libertaria, ma anche le ca­pacità dialettiche e teoriche di Rostagno, gli “attivi politici”, la scelta di una serie di campi d’azione, dai “proletari in divisa”, con conseguente volantinaggio davanti alle caserme, alle lotte cittadine per la casa, alla vigilanza antifascista, ai merca­tini alternativi, al tema del lavoro nero de­gli edili, trovarono Peppino impegnato in primo piano, con l’entusiasmo che lo ca­ratterizzava al momento dell’azione.

Ma lasciamo il commento di questo pe­riodo ai suoi pochi appunti autobiografici:

«Mi trascinai in seguito, per qualche mese, in preda all’alcool, sino alla prima­vera del ’72 (assassinio di Feltrinelli e campagna per le elezioni politiche antici­pate). Aderii, con l’entusiasmo che mi ha sempre caratterizzato, alla proposta politi­ca del gruppo del “Manifesto”: sentivo il bisogno di garanzie istituzionali: mi bec­cai soltanto la cocente delusione della sconfitta elettorale. Furono mesi di confu­sione e disimpegno: mi trovavo di fatto fuori dalla politica.

Autunno ’72. Inizia la sua attività il Cir­colo Ottobre a Palermo, vi aderisco e do il mio contributo. Mi avvicino a “Lotta Continua” e al suo processo di revisione critica delle precedenti posizioni sponta­neistiche, particolarmente in rapporto ai consigli: una problematica che mi aveva particolarmente affascinato nelle tesi del “Manifesto”.

Conosco Mauro Rostagno: è un episo­dio centrale nella mia vita degli ultimi anni. Aderisco a “Lotta Continua” nell’estate del ’73, partecipo a quasi tutte le riunioni di “scuola-quadri” dell’orga­nizzazione, stringo sempre più i rapporti con Rostagno: rappresenta per me un compagno che mi dà garanzia e sicurezza: comincio ad aprirmi alle sue posizioni li­bertarie, mi avvicino alla problematica re­nudista.

Si riparte con l’iniziativa politica a Ci­nisi, si apre una sede e si dà luogo a quel­la meravigliosa, anche se molto par­ziale, esperienza di organizzazione degli edili. L’inverno è freddo, la mia dispera­zione è tiepida. Parto militare: è quel pe­riodo, pe­raltro molto breve, il termometro del mio stato emozionale: vivo 110 giorni in con­tinuo stato di angoscia ed in preda alla più incredibile mania di persecuzio­ne».

La crisi

Il contatto tra Peppino e Mauro dura sino al 1976, anno in cui Mauro è candi­dato alle elezioni politiche nella lista di Democrazia Proletaria, anche nei collegi siciliani con lo lo slogan “il godere deve essere operaio”: non è eletto per pochi voti. Nel congresso di Rimini, nel novem­bre del ’76 si trova davanti a una dura contestazione delle femministe, in parti­colare quelle siciliane e abbandona il gruppo che, qualche mese dopo si scio­glie. Peppino vive drammaticamente que­sta crisi che, dalle tematiche della rivista “Re Nudo”, in cui Rostagno scrive, fini­sce con l’estendersi alle varie anime del movimento del ’77, dove scompaiono le ideologie e dilaga la tendenza a rinchiu­dersi nel personale, a vivere i propri spazi di vita lontani da momenti di aggregazio­ne rivoluzionaria, ma, si dice, ad organiz­zare la rivoluzione dentro se stessi.

Macondo

Rostagno, nel 29 ottobre del ’77 apre il “Macondo””, un locale alternativo in un vecchio stabile di 1500 mq.: malgrado si operi con lo spaccio di abiti usati, il rici­clo, la lotta contro il consumismo, i cibi biologici, la presentazione di libri l’espo­sizione di mostre, feste, carnevali, il loca­le viene chiuso, nel febbraio del 78 con l’infondata accusa di spaccio di droghe pesanti: il Macondo era stato, per Rosta­gno, come dirà egli stesso in un’intervista, il tentativo di “fare muro e argine contro lo sviluppo dell’eroina, che era bestiale”, ma anche “un’alternativa alla scelta della P38, cioè della lotta armata”.

Le tematiche “creative”

Per contro Peppino prende le distanze rispetto alle dilaganti tematiche “creative” non riesce a condividere l’iniziativa del Macondo, si sente sempre più lontano da chi ha abbandonato il movente fondamen­tale della lotta di classe, per scegliere la deriva personalistica. Vive interiormente il contrasto tra il militante comunista e il giovane del suo tempo che avverte biso­gni legati non solo alla politica, ma alla propria sessualità o al bisogno di divertir­si. Organizza a Cinisi un carnevale alter­nativo, con un concetto della festa come momento di coinvolgimento collettivo, ri­versa le sue energie a Radio Aut: la radio concepita come strumento di controinfor­mazione e di formazione di coscienze cri­tiche, come strumento di coordinamento delle situazioni di “movimento” presenti nella zona e di spinta dei momenti di anta­gonismo sociale.

La lettera

Di questo travaglio interiore è espres­sione la lettera, poi usata in modo mistifi­catorio da chi gestiva le indagini sulla morte di Peppino : va rilevato infatti che, se “è cominciata a febbraio”, com’è scrit­to, e se “sono nove mesi…” la lettera è stata scritta nel novembre del ’77, mentre Peppino è ucciso il 9 maggio 1978, cinque mesi dopo, ma chi gestiva le indagini sul­la sua morte, non si è fatto alcuno scrupo­lo di usare questa lettera come elemento di prova della volontà di suicidio:

«Sono nove mesi ormai, quanti ne oc­corrono per una normale gestazione, che medito sull’opportunità, o forse sulla ne­cessità di “abbandonare” la politica. Ho cominciato esattamente il 13 febbraio, vi­gilia della prima manifestazione studente­sca cittadina.

Ricordo molto bene che trascrissi, quel giorno, su una parete del circolo una stro­fa tratta da una famosa canzone del ’68 in cui si parla di compagne e compagni, di operai e studenti e di “tante facce sorri­denti”. Volevo esprimere, con quel gesto, il desiderio di tornare a sorridere e a vive­re intensamente come mi succedeva nel ’68 e fino a tutto il ’76. Ma si trattava sol­tanto di una pietosa aspirazione e ne ave­vo piena coscienza. Due mesi e mezzo di menate sul “personale” e di allucinanti enunciazioni sul “riprendiamoci la vita” mi avevano aiutato a ritagliarmi notevoli “spazi di morte”, mi avevano annegato in un mare di ipocrisia e di malafede, pregiu­dicando irrimediabilmente ogni mia possi­bilità di recupero.

“La gente peggiore l’ho conosciuta…”

La gente peggiore l’ho conosciuta pro­prio tra i “personalisti” (cultori del perso­nale) e i cosiddetti “creativi” (ri-creativi): un concentrato di individualismo da por­cile e di “raffinata” ipocrisia filistea: a loro preferisco criminali incalliti, ladri stupratori, assassini e la “canaglia” in ge­nere. Debbo purtroppo riconoscere d’aver dato la mia sensibilità in pasto ai cani. Ho cercato con tutte le forze che mi restavano in corpo di riprendere quota, incoraggiato dalla fiducia e dall’affetto di alcuni com­pagni (vecchi e nuovi): non ce l’ho fatta, bisogna prenderne atto. Il mio sistema nervoso è prossimo al collasso e, sincera­mente, non vorrei finire i miei giorni in qualche casa di cura. Ho bisogno, tanto bisogno, di starmene un po’ solo, riposar­mi, curarmi. Spero di riuscirci. Il parto non è stato indolore, ma la decisione è or­mai presa. Proclamo pubblicamente il mio fallimento come uomo e come rivoluzio­nario».

Nel gennaio del ’78 Rostagno fa un bre­ve viaggio di una ventina di giorni in Sici­lia, ma non abbiamo notizie di eventuali contatti con Peppino. Non si hanno nem­meno notizie di commenti o di prese di posizioni di Rostagno riguardo all’omici­dio di Peppino. Mauro è assorto dalle sue scelte “arancione”, conosce Francesco Cardella, si traferisce in India, diventa Sa­natano, torna in Sicilia, nell’82, per dare vita, assieme a Cardella alla comunità Sa­man, a Lenzi, vicino Valderice che, dopo la scomunica del leader arancione Bhag­wan diventa, nell’84 un centro di recupero per tossicodipendenti e alcolisti , con abiti non più arancione, ma bianchi e con tera­pie “psicosomatiche” con tecniche legate alle esperienze orientali. La comunità rie­sce a raccogliere 34 persone, ma il giro degli ospiti è di 709, in un territorio in cui la mafia ha diffuso l’eroina a tappeto ed ha ucciso il giudice Ciaccio Montalto, ol­tre che realizzato il fallito attentato al giu­dice Carlo Palermo, che ha causato la morte della famiglia Asta, due bambini e la loro madre.

RTC

Mauro, con un percorso che ricorda, per altri versi, quello di Peppino Impastato, ri­spolvera il suo vecchio mestiere di giorna­lista, e si mette a lavorare presso una tele­visione di Trapani , RTC: diventa capo re­dattore, inizia una serie di trasmissioni de­nunciando il boss di Mazara del Vallo Ma­riano Agate come principale responsa­bile di traffici di droga e di armi nella zona, si occupa di delitti eccellenti, come quello del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, di massoneria, che a Trapani è ben radicata, con la loggia Scontrino, con la loggia Iside due ed altre logge collegate, di legami tra mafia e politica, in altri ter­mini entra dentro lo stesso perverso cir­cuito di cui si era occupato Peppino, la cui conclusione è la morte, decisa da coloro che vedono in pericolo i propri interessi o la loro signoria territoriale. I boss comin­ciano ad allertarsi, a preoccuparsi, primo fra tutti Messina Denaro padre di Matteo, Vincenzo Virga e il killer Vito Mazzara, sino al momento della decisione.

Confronto

Come Peppino Mauro non ha alcuna paura:

“Agli uomini capita di mettere radici, e poi il tronco, i rami, le foglie…quando tira vento, i rami si possono spaccare, le foglie vengono strappate via: allora decidi di non rischiare, di non sfidare il vento. Ti poti, diventi un alberello tranquillo, pochi rami, poche foglie, appena l’indispensabi­le. Oppure te ne fotti. Cresci e ti allarghi. Vivi. Rischi. Sfidi la mafia, che è una for­ma di contenimento, di mortificazione. La mafia ti umilia: calati junco che passa la piena, dicono da queste parti. Ecco, la ma­fia è negazione d’una parola un po’ bor­ghese: la dignità dell’uomo”.

Peppino aveva bene intravisto uno dei mali della realtà siciliana, nel reticolo di connessioni, rapporti sociali sotterranei, connivenze, dove come diceva in una del­le sue trasmissioni, “Onda Pazza,” “ci sono gli amici, gli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici, gli amici degli amici degli amici degli amici…” Si tratta di una catena dove ognuno è funzio­nale all’altro, dove “na manu lava l’autra e tutti dui lavanu a facci”, il favore, lo scambio tiene collegato ogni anello della catena per renderlo utile nel momento op­portuno.

In un articolo pubblicato dal “Quotidia­no dei lavoratori” nell’aprile del ’78 Pep­pino scriveva:

“Il gruppo dirigente DC, che nello scac­chiere politico locale, come su quello na­zionale si pone come un’associazione di tipo mafioso, non solo e non tanto per la convergenza di mafie e di clientele paras­sitarie che è riuscito a suscitare e ad ag­gregare davanti a sé, quanto per il modo stesso, banditesco e truffaldino di conce­pire ed esercitare il potere nell’ammini­strazione della cosa pubblica”

Come Peppino, Mauro legge perfetta­mente, filtrandolo attraverso le sue cono­scenze di sociologo, il male dell’apparte­nenza, non tanto a un nucleo familiare, come è nella ndrangheta, ma a una fami­glia ben più grande che riesce a rendere sistema globale il legame di vicinanza che lega singoli soggetti facenti riferimento a un gruppo coeso, sia esso politico, che re­ligioso, che di categoria:

“Qui non conta più se uno è bravo o non è bravo, se è pulito o se ha le mani sporche, se è intelligente o è cretino, se sa fare il suo mestiere o è un ignorante della più bell’acqua, ma quello che conta è l’appartenenza: si iddu m’apparteni o non m’apparteni. Se fai parte della casta, della mia tribù, della mia corrente e allora la cosa vale, se invece non ne fai parte non sei nessuno. Fuori fa freddo, però io apro la finestra: pftu, sputo e richiudo, e fuori deve stare, perchè quello che conta è l’appartenenza. Il degrado dell’apparte­nenza è il clientelismo politico”.

Danilo

Come Danilo Dolci, Mauro Rostagno ha scelto di dedicare, di dare se stesso, la sua vita, le sue idee alla Sicilia, dove con­tava anche “di viverci per giocare con i suoi nipotini”.

Entrambi sociologi, non hanno resistito al fascino dell’Oriente, Danilo a quello della non violenza gand­hiana, Mauro a quello della serenità inte­riore attraverso lo scambio e la conquista collettiva della conoscenza, ma non hanno resistito neanche al fascino della Sicilia, all’approdo di Ulisse verso l’imprendibile bellezza, con tutti i suoi mille volti enig­matici, le insidie, le radici della storia, la luce, le ombre, il senso di compiutezza che arriva alla fine, quando si giunge alla conclusione che ciò che è stato così dove­va essere, ma doveva essere così perché c’eri anche tu a farlo essere così.

Raggi di luce che attraversano questa terra per dira­dare la notte dell’ignoranza, della povertà, dell’abbandono, della complicità, della violenza. Una volta Mauro disse: “Sicilia­ni si nasce: io ho scelto di esserlo”.

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