sabato, Aprile 27, 2024
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Le partecipate al tempo del dissesto

Mappa del Comune sotterraneo. Chi, come, dove e perché

Di recente la Corte dei Conti siciliana ha documentato, statistiche alla mano, un significativo aumento dei casi di segnalazioni e condanne per illecito amministrativo oltre a gravi atti di irresponsabilità da parte di politici, amministratori, managers e dipendenti pubblici che sono all’origine di pesanti distorsioni dell’azione amministrativa con ingenti danni a carico dell’erario. 

La Sicilia, infatti, destinataria di elevati flussi di finanziamenti comunitari, è una regione che, secondo il quadro fatto dal Procuratore della Corte dei Conti, continua a vedere “il ricorso ingiustificato a incarichi fiduciari, con il culto della ricerca dell’uomo fedele anziché dell’uomo bravo; oppure violazioni delle regole sui divieti di assunzione”. Prassi cui poi si aggiunge anche la ben nota sequela di episodi riguardanti corruzione e clientelismo in un grande numero di concessioni di indennità, affidamenti di incarichi esterni, soluzioni di contenziosi giudiziari con dipendenti e privati esterni, inefficienza dei controlli di gestione, uso improprio di fondi europei, nomine dirigenziali di cordata, etc.

Un quesito legittimo è rappresentato, però, dal come possano materialmente essere messi in atto questi illeciti nelle condizioni in cui attualmente versano moltissime PPAA e, ad esempio, in un’amministrazione municipale con il più grave dissesto mai dichiarato in Italia (imposto da due sentenze della Corte dei Conti), come quella del Comune di Catania. Come è possibile mantenere un sistema gestionale dei servizi pubblici e delle aziende partecipate che li erogano, che nonostante il dissesto finanziario corrisponda, comunque e pervicacemente, ai soliti obiettivi di riproduzione del consenso e del voto di scambio clientelare?

Una nostra inchiesta, basata su ricerche, riscontri di dati ed informazioni acquisite, cerca di rispondere a questa domanda: il quadro che ne emerge è l’immagine attuale del sistema amministrativo del “Caso Catania”: un sistema che, da un lato, deve necessariamente provvedere alla produzione dei servizi pubblici primari per la comunità ma che poi, dall’altro, proprio attraverso la gestione dei bilanci predisposti per la produzione di tali risorse, deve sottostare alle stesse logiche di spartizione politica della cosa pubblica, da sempre finalizzate essenzialmente alla sopravvivenza di un ceto politico, burocratico, imprenditoriale e professionale che è il principale responsabile dell’attuale stato di dissesto finanziario. Ceto causa di una crisi  che ormai da mesi comincia a manifestarsi in tutta la sua gravità ed a riflettersi sempre più drammaticamente sulla vita della comunità catanese e dei suoi cittadini.

Si tratta di aspetti peraltro già chiaramente denunciati nella recente Relazione Semestrale della DIA che, in riferimento alla realtà catanese, descrive così un esempio emblematico: “Sebbene in un contesto posto al di fuori degli ambienti mafiosi, un’operazione condotta nei confronti di dirigenti di uffici pubblici etnei, professionisti ed un ex deputato regionale, ha rivelato come la funzione pubblica, asservita agli interessi di pochi privati, abbia agevolato il bacino di assunzioni clientelari, il lavoro nero e l’apporto elettorale a politici locali, il tutto finalizzato al mantenimento di prestigiosi incarichi dirigenziali”.

Di fronte ad una situazione drammatica che coinvolge la vita di larga parte della popolazione, il comune buon senso indurrebbe a pensare che una amministrazione pubblica che si trovi in condizioni di grave dissesto finanziario debba necessariamente procedere ad una rapida e profonda ridefinizione del proprio sistema gestionale e cominciare a risanare tanto le perdite quanto modalità e prassi che hanno condotto allo stato di allarme. Vale a dire, darsi una seria regolata ed avviare una serie di provvedimenti di autotutela secondo ottiche di risanamento, a dire il vero, urgenti già nel corso di tutte le precedenti amministrazioni comunali. Tuttavia, in particolare a Catania, il “buon senso” (civico e democratico) non corrisponde quasi mai al senso in cui viene gestita la pubblica amministrazione e se, ad esempio, il Comune deve procedere solertemente ad aumentare tasse, scovare nuovi contribuenti ed erogare multe, meno agevolmente è in grado di dar luogo ad una revisione del funzionamento della propria macchina amministrativa, della produttività delle risorse umane, della gestione dei servizi o delle modalità di funzionamento interno delle partecipate, di cui il Comune è azionista maggioritario.

A Catania il ceto politico, imprenditoriale, professionale e burocratico che da decenni amministra la città ha da sempre costantemente ritenuto di usare il consenso ottenuto dai cittadini per riprodursi elettoralmente, garantendosi al contempo vantaggi economici e redistributivi per sé e per il proprio bacino clientelare, inducendo in tal modo la popolazione ad una condizione di rassegnazione e complicità. A questo scopo è stato messo in atto quel sistema distorsivo della funzione pubblica, cui fanno riferimento la Corte dei Conti e la DIA e che, in particolare nella gestione delle partecipate, funziona secondo i criteri qui descritti.

I controlli di gestione

Il primo degli aspetti che salta all’occhio riguarda le funzioni di controllo che vengono dosate in maniera oculata al fine di garantire e mantenere, in particolare nei settori aziendali meno esposti, le esigenze del sistema clientelare, a partire dai controllo relativi al personale ed agli orari di lavoro.

Gli uffici preposti al controllo,in condizioni di normalità, sarebbero i servizi ideali per la supervisione sulla produttività delle risorse umane che sono alla base del corretto funzionamento aziendale. Nella realtà catanese, invece, questi uffici lavorano sistematicamente con scarsi livelli di efficienza e spesso non effettuano appropriatamente le dovute verifiche interne, dando così luogo a diverse situazioni critiche o di arbitrarietà (individuali ed amministrative) che, evidentemente, “non devono essere approfondite”. E ciò impedisce che personale e orari di lavoro contribuiscano a garantire gli idonei livelli di efficienza produttiva e il buon andamento aziendale. Naturalmente un ufficio del personale non è un organo di polizia interna e il suo direttore non è direttamente responsabile delle procedure di timbratura di cartellinipresenze sul posto di lavoroerogazione di straordinari, etc. tuttavia potrebbe, e dovrebbe, procedere a segnalare le irregolarità ai superiori e chiedere provvedimenti nei casi di irregolarità. Ma questo, nella maggior parte dei casi, non avviene sia perché l’amministrazione non darebbe seguito ad alcun provvedimento e poi perché l’autore stesso della segnalazione si metterebbe automaticamente in una posizione critica agli occhi dei vertici aziendali cui si rivolge e che, peraltro, sono già al molto bene al corrente dei vari casi di irregolarità, sui quali però non è opportuno intervenire. Ciò nel tempo si è verificato anche in situazioni eclatanti di svolgimento di doppio lavoro durante gli orari di ufficio da parte di alcuni dipendenti. La ragione è che, proprio tali situazioni e le relative omissioni di controllo, corrispondono ad intese pregresse ed esigenze del sistema clientelare su cui sono fondate determinate assunzioni, consulenze, appalti e altre attività che poi comunque incidono sensibilmente sulle voci di spesa del bilancio aziendale.

I dipartimenti più esposti

Nella misura in cui, però, altri settori aziendali sono comunque sottoposti a più marcati controlli di legge, in essi si osserva un criterio meno approssimativo ma comunque sempre “utile” al sistema. Si tratta di quei dipartimenti che, per ovvie ragioni relative alla tipologia delle funzioni svolte (esazione, conti, commesse, appalti, etc.) ed ai rischi di illecito amministrativo che comportano, svolgono la propria attività nel rispetto di stringenti normative e regolamenti, soprattutto in materia di trasparenza e disciplina degli appalti. Ma anche tali settori, a ben vedere, devono comunque sottostare ad ambiguità derivanti da decisioni unilaterali, a volte anche arbitrarie, provenienti dagli organi amministrativi che insistono nell’imporre logiche caratterizzate da personalismi, situazioni di privilegio, concessione di prerogative, riconoscimento di avanzamenti ed arretrati,  omissioni di controllo, tolleranza di irregolarità sulle procedure ed altre forme di parzialità derivanti tutte da ottiche extra-aziendali e basate su accordi preesistenti che fanno riferimento a interessi clientelari, personali, scambio di favori, appartenenza a reti e cordate politiche.

I managers

Nel funzionamento di questo sistema è determinante, il ruolo dei direttori-manager, vale a dire dei tecnici dirigenziali assunti in base a concorsi e non nominati politicamente. Tale figura è di norma descrivibile come quella dell’utile opportunista che lamenta, da un lato (con i dipendenti) di essere solo a fronteggiare situazioni molto complesse e decisioni che non dipendono dalle sue prerogative e, dall’altro (con gli amministratori) è prono ad ogni decisione superiore anche qualora queste possano rivelarsi ai limiti del lecito o palesemente ingiuste nei confronti di altri dipendenti o dei criteri di produttività aziendale. Un manager assunto, infatti, deve pur mantenere la propria posizione ed i privilegi derivanti da essa e ciò è diretta conseguenza dell’assenso con cui risponde ad ogni decisione o segnalazione degli amministratori di nomina politica o dal silenzio posto sul mantenimento dello “stato delle cose”. Tali comportamenti vengono, poi, successivamente remunerati all’interno del sistema di compensazioni delle fedeltà clientelari che prevede la possibilità, da parte di un presidente di CdA, di conferire ai dirigenti manageriali gli ambìti ruoli di RUP (Responsabile Unico di Procedimento) per le commesse di maggiore spessore, vale a dire i ruoli di responsabili plenipotenziari delle procedure relative a grandi appalti, acquisto di grossi impianti, lavori di miglioramento sistemico di reti e servizi, sviluppo di nuove utenze, ampliamento della copertura del territorio, etc. con i molteplici interessi e benefici derivanti dall’esercizio di tali funzioni.

Altre questioni sono, poi, i casi di incarichi dirigenziali a concorso affidati secondo logiche di compensazione interna al sistema politico locale, rivolti a quei personaggi appartenenti al sistema che in seguito vicissitudini personali anche a carattere giudiziario, devono essere compensati o reintegrati perché si sono dimostrati fedeli o perché ancora utili sul piano dell’apporto di consenso elettorale. In questi casi ci troviamo di fronte a provvedimenti amministrativi effettuati anche in deroga a specifiche normative e a vantaggio di soggetti che, per fatti di natura oggettiva o legale, non sarebbero eleggibili per lo svolgimento di tali ruoli a causa di gravi fattori di impedimento quali, ad esempio, processi pendenti, inadeguatezza dei titoli, conflitti d’interesse, legami di parentela, relazioni personali con i politici di riferimento, e così via. Significativi sono alcuni casi di dirigenti\funzionari amministrativi (magari già imprenditori o consulenti d’impresa di notoria appartenenza a specifici ambienti politici) che poi, nonostante risultassero indagati o rinviati a giudizio per truffa, reati contro la PA e associazione a delinquere, “successivamente” ai fatti oggetto d’indagine, sono stati assunti e mantenuti nelle proprie funzioni addirittura tramite concessione di apposita deroga alla normativa che prevederebbe, per lo svolgimento dell’incarico, il possesso di un idoneo titolo di studio.

La logica del sistema

Uno degli aspetti più significativi che emerge da questa analisi, volendo descrivere con una immagine la logica che soprassiede alla conduzione del “sistema clientelare” e, di conseguenza, alle modalità con cui vengono emessi determinati atti amministrativi e retti determinati settori, sembra essere quello che quello che consente alle amministrazioni di stare sull’orlo tra legalità ed illegalità: una posizione tattica che permette ad amministratori e dirigenti la massima flessibilità operativa nella gestione delle dinamiche distributive predefinite negli accordi di scambio elettorale, salvaguardando così gli interessi diretti dei politici di riferimento nonché quelli personali ma senza, naturalmente, incorrere nei relativi rischi di illecito penale o amministrativo. Inutile ribadire che l’effetto di tale logica comporta, nei fatti, un ulteriore impatto sui bilanci aziendali perché consiste praticamente nel drenaggio sistematico di risorse pubbliche per interessi privati, che a sua volta si traduce in sofferenze dei bilanci e nel successivo necessario ricorso alle consuete pratiche di mascheramento delle perdite mediante i vari stratagemmi tecnici di “utile fittizio”.

Le consulenze esterne

Lo stesso effetto ha anche il ricorso sistematico ad alcune consulenze esterne affidate a professionisti riconducibili alle logiche di appartenenza di cui sopra e che poi, in diversi casi, non corrispondono sempre ad una reale necessità di servizio o da cui, comunque, non deriva un effettivo utile aziendale. Ciò non riguarda solo i casi degli incarichi di alto profilo ma, in particolare, anche quelli relativi alla reiterazione nel tempo di incarichi di importo moderato ma con retribuzioni mensili costanti negli anni, sebbene spesso inutili o non corrispondenti a reali attività svolte e che, comunque, per legge non dovrebbero essere soggette a rinnovo automatico. A questa categoria appartengono le varie consulenze, tuttora rintracciabili nei libri paga di aziende partecipate, affidate a professionisti di cordata elettorale o ai loro figli (o anche ad entrambi contemporaneamente).

Acquisti e servizi

Il precedente meccanismo viene analogamente applicato anche nel caso di acquisti e servizi appaltati, in cui certamente i beni e le attività acquistate vengono effettivamente forniti o erogati dalle ditte appaltatrici ma dove la stranezza sta nel fatto che vengano con molta frequenza affidati prevalentemente a determinate ditte, servizi o richieste di forniture che, di fatto, non sono sempre dovute a reali esigenze aziendali o lavori che possono essere svolti agevolmente da risorse organiche aziendali interne a costo zero. Servizi che spesso non corrispondono a criteri di massimizzazione della produttività aziendale e che, dunque, si concretizzano in vantaggi economici per soggetti esterni i quali, in virtù della propria “vicinanza” con determinate personalità politiche, riescono anche ad ottenere nello stesso periodo incarichi simili da diverse aziende ed amministrazioni pubbliche in città e provincia, legate ai suddetti soggetti politici.

Le controversie giudiziarie

Un capitolo a parte meriterebbero, inoltre, i casi relativi alla risoluzione extra-giudiziale di contenziosi legali riguardanti sia certi dipendenti, per gli avanzamenti di carriera e retribuzione con riconoscimento di arretrati, sia determinate imprese che, per diverse ragioni, pretendono e ottengono pagamenti diversi e superiori a quelli inizialmente pattuiti con le aziende. Si tratta di situazioni che vedono con una certa regolarità risoluzioni economicamente vantaggiose per le controparti private grazie all’individuazione di un accordo tra le parti per controversie che in molti casi potrebbero, in sede giudiziaria, concludersi a favore dell’azienda e senza ulteriori costi a carico dell’amministrazione (come di norma avviene nelle decisioni giudiziarie in tali situazioni) che però, stranamente, preferisce ricorrere alla transazione privata.

Quanto fin qui descritto rappresenta solo una prima disamina dei principali caratteri che contribuiscono a definire in generale il sistema su cui si basano le distorsioni nelle amministrazioni catanesi. Tuttavia, come emerge quotidianamente anche dalle cronache giudiziarie nazionali, la manipolazione sistematica delle regole della PA è un fenomeno estremaente diffuso in Italia, sia in senso orizzontale che verticale, che tocca tutte le istituzioni italiane, dal CSM alla sanità di molte regioni alle concessioni per l’eolico, etc. Un sistema che compromette gravemente il regolare andamento di assunzioni, nomine, concessione di incarichi professionali e che vede il sistematico ricorso ad accordi preliminari, strategie spartitorie, provvedimenti ostativi o favorevoli nei confronti di determinati soggetti, atti pubblici irregolari, concessione di privilegi, favoritismi ed interessi privati che causano gravi deviazioni nelle modalità di utilizzo di fondi pubblici, in molte gare d’appalto così come anche nella gestione dei progetti comunitari, con enormi danni erariali. Condizioni sistemiche della PA italiana in cui si assiste alla sottomissione delle regole dello Stato agli interessi di parte o di partito.

ben vedere, dunque, il modello della gestione personalistica della cosa pubblica, finalizzato allo scambio, alla manipolazione del consenso elettorale ed all’utilizzo distorsivo di risorse pubbliche, tradizionalmente tipico di realtà locali della Sicilia e della Calabria, comincia ormai a configurarsi anche come lo schema operativo del sistema della corruzione in Italia. Un sistema che ha come elementi caratterizzanti quelle forme di irregolarità dove l’asse portante è rappresentato proprio dai rapporti personali tra pubblici ufficiali, politici, imprenditori, professionisti ed altri soggetti coinvolti a vario titolo nelle dinamiche illegali con l’obiettivo di ottenere forme di scambio altrimenti non raggiungibili ed in cui la distorsione principale è determinata dalla grave confusione tra i ruoli dei pubblici ufficiali e quella degli altri soggetti che intervengono nei processi decisionali relativi alla gestione delle risorse pubbliche.

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