martedì, Novembre 5, 2024
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La sfrenata danza di Terra matta

Il Novecento nel “cunto” di Vincenzo Rabito.

 “La sua vita fu molta maletratata e molto travagliata e molto desprezata”, si ripete come un mantra, dal ritmo cadenzato e secco che non lascia speranze a chi vive in una “Terra matta”, come quella che descrive nella sua autobiografia Vincenzo Rabito e portata in scena allo Stabile di Catania da Vincenzo Pirrotta.

Un fiume di parole che nel “cunto” di Pirrotta incantano ed emozionano, trasmettendo la ferocia della vita e la forza di un uomo che non si arrende. Ad incalzare e sostenere la voce del cantastorie sono le musiche, curate da Luca Mauceri, che lo accompagnano nella sfrenata danza di Terra matta. Gli attori entrano in scena a volte con la leggerezza delle marionette di carta, altre con l’imponenza dei pupi, animando i quadri che man mano il tocco della bacchetta indica agli uditori.

In tutta la narrazione, sviluppata da Vincenzo Pirrotta, non si perde di vista la storia, quella di un uomo del sud che si ritrova, allora ragazzino, sul fronte a gridare: “Avanti Savoia!” in faccia agli austriaci, per difendere quella Patria matrigna che non gli ha dato la possibilità di studiare. Tra i pochi sopravvissuti alla battaglia di Montefiore si dispera nel seppellire i corpi di quei ragazzi “del ’99, partiti con il cuore di piccoli e trasformati in macellai di carne umana”. La regia sottolinea questo passaggio risaltandone la drammaticità. Le pause che intercorrono sono brevi, il cantostorie continua il suo “cunto” e Rabito fa ritorno in Sicilia per iniziare quella che definisce la “desonesta vita di borchese, poiché aveva venuto quella maledetta dettatura fascista”. Non trovando lavoro di alcun genere si trasferisce in città, riaffiora, così, un’immagine di una Catania operaia concentrata nel quartiere del centro storico e una Catania borghese.

Quando la vita non da’ possibilità diventa difficile restare coerenti con le proprie idee, questo è quello che si evince e Rabito, pur di sopravvivere scende a compromessi, dopotutto non può scegliere. Si iscrive al partito fascista e viene spedito in Libia con la promessa di poter guadagnare qualche lira. Esce indenne da questa dura prova, ritorna ed essendo già uomo, spinto dal consiglio della madre, mette su famiglia. Il compare gli organizza il matrimonio. Sembra essere l’occasione della sua vita ma fin dalle prime battute si dimostra subito l’altro grande conflitto che dovrà affrontare, forse quello più arduo di tutti: una suocera, “la canazza”, che non perde occasione per far pesare al povero Rabito le sue umili origini. Unica rivincita è il posto fisso, diventa capo cantoniere e può mantenere gli studi dei suoi tre figli.

La messa in scena restituisce le dinamiche “dei vinti” raccontate nell’autobiografia. Vincenzo Rabito impiegò sette anni per scrivere la sua vita da “inafabeta”. Il lavoro svolto da Pirrotta è stato quello di mantenere i suoni ed i ritmi ancestrali del “cunto” dell’anima, perché “Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare…”.

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