sabato, Aprile 27, 2024
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La mia casa, in Syria

Racconti da un campo profughi

Hassan sta saltellando da un mattone all’altro, è pomeriggio tardo e le giornate qui iniziano ad essere calde. Con le braccia tese mima le ali di un aereoplano, con la bocca imita il rumore del motore. “Sto volando verso la Sirya!” urla mentre vola.

Ha 5 anni e cammina scalzo per il campo profughi in cui la sua famiglia vive da 6 anni, in un villaggio dell’Akkar, a nord del Libano. La sua famiglia è originaria di un paesino di campagna tra Hama e Idlib, è fuggita dalla guerra in Syria quando l’esercito libero ha occupato la sua città e non ha permesso più alla gente una vita normale, privandola di cibo, elettricità, gas e ogni cosa che potesse rispondere ai bisogni essenziali. E quando poi l’esercito governativo, per colpire i ribelli, ha iniziato a bombardare sui civili.

Vivono in una tenda, come tantissime altre famiglie di profughi siriani, con il freddo di inverno e il caldo soffocante di estate. Per Hassan quella tenda è sempre stata casa sua, ci è nato e cresciuto, ma se glielo chiedi ti dice che la casa vera è in Syria: glielo hanno insegnato mamma e papà, anche se lui non l’ha mai vista.

La tenda è di nylon e non è grande. Lui, le sue tre sorelle e il fratellino di un anno appena dormono con i genitori in dei materassi alti 5/6 cm, disposti tutti vicini. La mamma è una cuoca molto brava, nonostante abbia per cucina un fornello in ghisa da campeggio e per cucinare debba stare in ginocchio, chinata sul pavimento.

Il villaggio in cui abitano è così vicino al confine con la Siria che salendo sui tetti delle case abbandonate riesci a scorgerne i monti. “È strano essere così vicini alla Syria e non poterci andare” dice piano Umm Raed, mamma di un’altra famiglia dello stesso campo, tenendo d’occhio i suoi figli di 5 e 7 anni che stanno giocando intorno le tende.

In mezzo al fango, le montagnette di spazzatura e i sassi è semplice farsi male o sporcarsi. Essere mamme attente in un campo profughi è difficile, ma lei lo fa in maniera dolce.

Ogni mattina pettina ad una ad una le sue tre figlie, di 5, 6 e 11 anni, e poi stende i tappeti di casa fuori al sole, per fargli prendere un po d’aria.

È difficile anche conservare le piccole cose normali, come le piccole attenzioni da buona casalinga, in un posto in cui normale non dovrebbe essere niente.

Umm Raed e la sua famiglia vivono in una casa abbandonata, al secondo piano. All’ingresso, sulla sinistra, c’è un’altalena appesa tra mattoni e montagnette di sabbia, dove i bimbi ogni tanto giocano. In fondo c’è una saletta con dei tappeti, dei materassi che di giorno fanno da divani per gli ospiti che arrivano a bere il the e di notte diventano i letti dei bambini. Di sera la casa è fredda, c’è una stufetta al centro della stanza e un telo di nylon tappa la finestra aperta, cercando di bloccare gli spifferi di aria. Nei muri senza intonaco ci sono poi i tentativi di abbellire le pareti, rendere almeno un po’ casa quel posto così anonimo: dei disegni dei bimbi, una lavagnetta, un cappello appeso a un chiodo e delle scritte con i colori.

Loro sono originari di Manbij, a nord della Syria, che durante la guerra è stata occupata dall’Isis. Mentre racconta, Umm Raed prova a cercare l’indirizzo di casa sua su google maps ma non si ricorda bene dove sia: “Con l’Isis non uscivo mai di casa, non ricordo bene i nomi delle strade né le immagini.” si giustifica. Le donne, racconta, potevano uscire soltanto con il velo integrale e accompagnate dal marito. Anche sua figlia, che adesso ha 6 anni, doveva portare il velo e i guanti. “Se trovavano per strada qualche donna sola o con parti del corpo scoperte, se la prendevano con il marito e lo punivano con la frusta”.

Dice che quella vita non era sostenibile per nessuno, e che lei non voleva questo per i suoi figli. Suo marito, dopo qualche anno, aveva scelto di provare ad andare in Libano a cercare un modo per aiutare la famiglia. “Come si faceva a vivere così?” si chiede, “Senza niente e senza nessuna libertà? Non potevamo andare da nessuna parte. Prima della guerra avevamo vissuto a Damasco, ma lì l’esercito di Assad ricercava mio marito per farlo arruolare”.

“Quando a Mnbij non ce la facevo più, ho scelto di raggiungere mio marito in Libano. Avevo tre figli, di cui uno di 1 anno e la più grande di 3.” Ha preso la via dei monti, un sentiero stretto in cui non ci sono controlli, nella zona al confine tra Syria e Libano. Racconta che camminava e teneva in braccio i bambini, e che ad un certo punto la via era così stretta che ha lasciato cadere le borse che aveva preparato da casa, con vestiti e del cibo, ed ha continuato, sola con i figli. “Sono arrivata qui che non avevo proprio nulla.”Adesso sono 3 anni che vivono nel nord del Libano, ed è difficile sapere cosa si aspettano. “Forse torneremo in Syria” dice ad un certo punto Umm Raed “O forse non lo so. Qui non c’è niente, non c’è speranza, non c’è prospettiva”.

Quando, chiacchierando con lei, esce il fatto che tornare è pericoloso, che Assad è rimasto al governo, che quindi non c’è nessuna sicurezza e nessun servizio, risponde che qui non è vita e che è stanca. Si chiede continuamente quando i suoi figli potranno vedere altro.

Il campo profughi ha un’aria pesante. La gente che ci vive si porta dietro le storie della guerra, la rabbia per la rivoluzione finita in conflitto, le torture, la violenza gratuita e disumana. E la domanda pungente sul perchè alla fine ci va di mezzo sempre la gente civile. “La gente semplice, come noi.” continua Umm Raed, “Noi che volevamo una vita normale e basta. Io che voglio che i miei figli imparino e voglio una casa, stare bene, per colpa della guerra adesso non ho niente”.

C’è chi aveva creduto nella rivoluzione siriana, sull’entusiasmo della primavera araba, e sognando una Syria democratica è dovuto fuggire dalle bombe. Chi è fuggito per non arruolarsi nell’esercito, come Asir, che ha vent’anni ed è scappato da Homs dopo che lo avevano chiamato come militare, ma lui è “stanco del sangue”.

C’è chi è uscito da anni di prigione in Syria e trascina quel poco che gli rimane della lucidità e della propria vita. Come Ismael, che dopo cinque anni di torture è uscito dalla prigione governativa di Homs e cerca di resistere, tra crisi epilettiche e schizofrenia.

C’è chi la guerra proprio non sa spiegarsela, se l’è vista cadere addosso improvvisamente e non capisce chi è il buono o chi il cattivo, chi aiuta e di chi invece non bisogna fidarsi. Sa solo che aveva una casa e ora no, aveva una libertà che chissà come non c’è più, aveva dei sogni e ha dovuto metterli da parte. Sente parlare di Isis, di geopolitica, ribellione e tradizione, ma sa solo che quella su cui molti stati hanno giocato era casa sua. E per ora si accontenta di delle tende di plastica in un campo profughi, perchè almeno qui non bombardano, sei invisibile, solo e basta.

E poi ci sono bambini, tanti, molti dei quali non vanno a scuola e lavorano per le strade o nei campi di fragole, che giocano nella spazzatura e si arrampicano nelle case abbandonate, che ascoltano le storie della guerra e immaginano, giocando, di poter tornare in Syria, un giorno, a casa loro.

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